L'invenzione della letteratura italiana e italoamericana1
Raffaele Cocchi
Università di Bologna
Dove la religione fallì nel dare una coscienza etnico-nazionale italiana ai vari gruppi emigranti perché ognuno era ben radicato nelle celebrazioni di santi paesani; dove fallirono i movimenti che ora definiremmo di estrema sinistra (radicali, socialisti e anarchici) poiché, per forza di cose, dovevano attraversare nazionalità ed etnie e potevano attingere solo a immaginari ben più collettivi; dove fallì ancora il recupero nazionalista della politica tra le due guerre, a causa dello scontro frontale tra fascismo e resistenza che si propagò acerrimo anche in America; vi riesce la lingua italiana2. Religiosi e anticlericali; milanesi, toscani, napoletani e siciliani; operai, artigiani, professori, avvocati e politici; fascisti e antifascisti; tutti tentarono di presentarsi come i veri interpreti della dolce favella, i discendenti dei grandi poeti, la grande etnia della poesia italiana. Tutti imitarono le loro «invocazioni» e i loro ritmi, spesso facendone inevitabile scempio3.
D'altronde chi potevano essere i primi a inventare la bella Italia, la dolce patria, se non i grandi poeti, i grandi esuli? Chi non ricorda Dante e Petrarca, ben prima di Mazzini e Garibaldi?
È mia ferma convinzione che l'ingrediente etnico più importante della letteratura scritta dagli immigrati italiani, il fattore che maggiormente costituisce l'elemento coagulante e non solo del sangue delle micro-etnie italiche, sia il concetto stesso di letteratura italiana.
Il caso italiano è uno dei pochi esempi europei in cui la nascita o invenzione della lingua nazionale, in senso letterario anche se non letterale, e quindi di una letteratura nazionale, anticipa di qualche secolo quella dello stato nazionale.
Già nel 1698 Giovanni Maria Crescimbeni pubblica la prima edizione della sua Istoria della volgar poesia; nel 1723 Giacinto Gimma pubblica Idea della storia dell'Italia Letterata; tra il 1772 e il 1794 escono le due edizioni della Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. C'è perfino un francese Pierre-Louis Ginguené che con la sua Histoire littéraire d'Italie corregge molti ingiusti giudizi della critica francese. Il primo volume, che copre tutto il Medioevo e arriva fino al Quattrocento, esce nel 1811 - a Dante e alla Divina Commedia è dedicato quasi un intero volume. Dante, infatti, in Italia è il sommo poeta; in Europa questo «Homère des temps modernes» affascina Madame de Staël e molti altri intellettuali legati al suo circolo letterario; in America, Henry Wadsworth Longfellow, forse il poeta americano più amato dai propri compatrioti, traduce la Divina Commedia (1865-67) pochi decenni prima che arrivino i primi contingenti italiani.
Altre storie della letteratura saranno pubblicate mentre cominciano i primi movimenti politici che porteranno all'unificazione d'Italia, finché nel 1870, mentre Roma diventa capitale, Francesco De Sanctis termina il primo volume della sua Storia della letteratura italiana che, come tanti hanno rilevato, costituisce la perfetta sintesi dello storicismo e della filosofia romantica.
Se molti partirono veneti, torinesi, toscani, napoletani, calabresi o siciliani e si scoprirono italiani soltanto negli Stati Uniti, certamente coloro che partirono sapendo che cos'era la letteratura anche solo per sentito dire, anche solo per i certami poetici che si svolgevano in dialetto nei loro paesi, sicuramente non potevano non vantarsi dei grandi poeti italiani. Non importava aver letto Dante o Petrarca, bastava essere italiani. Non importava quale dialetto parlassero: la lingua italiana era la lingua del bel canto, non solo quello dell'opera lirica, e nessuno poteva contestarlo, nemmeno un americano «purosangue». Non importa se pochi immigrati italiani conoscevano direttamente i grandi poeti ed erano perfino in grado di tradurli in inglese, mentre la maggior parte che aveva frequentato scuole in Italia era influenzata più dai minori dell'Ottocento come spesso ha notato, tra il divertito e lo spazientito, Giuseppe Prezzolini. L'importante è ricordare che per tutti questi scrittori veri o presunti, la letteratura italiana è poesia, anche quando ci appare sotto forma di prosa, solo per il fatto che è la lingua di Dante, Petrarca, Boccaccio & Co. E la poesia, a quel tempo, non occorreva saperla leggere per conoscerla, bastava saper ascoltare chi la recitava. La poesia si imparava a memoria per il piacere di ripeterla e riascoltarla. Se a questo si aggiunge la ricaduta dell'effetto romanticismo sul rapporto tra poeta, poesia e vita è molto facile scoprirsi poeta, perché poeti si nasce, specialmente in Italia. E alla poesia non si è soliti applicare la geometria booleaniana e nemmeno le tavole della verità, nonostante sia proprio il poeta romantico a reclamare la verità in assoluto, sia quella della natura sia quella dei sentimenti.
Sicuramente la memoria e la vita degli immigrati italiani sembravano fatte apposta per produrre testi di sentimento, testi lirici. L'Italia non aveva una grande tradizione narrativa in prosa, i grandi romanzieri dell'Inghilterra, ma in America gli italiani impararono a trascrivere i fatti quotidiani che si erano sempre raccontati in Italia. Ora che le loro vite sembravano dei romanzi potevano raccontare autobiografie romanzate o romanzi autobiografici, dove spesso la prosa è intercalata con versi. La letteratura degli italiani ha spesso il ritmo del parlato, è una trascrizione del raccontare diretto al pubblico dei parenti e degli amici che stanno in circolo, di fronte al narratore. William Boelhower ha già parlato diffusamente delle tematiche e delle strutture di quelle autobiografie specialmente in Immigrant Autobiography in the United States (Venezia, Essedue Edizioni, 1982), e non ritengo utile aggiungere altro. Vorrei soltanto menzionare, a sostegno di quanto ho affermato fino ad ora, il caso esemplare di Virgilio Luciani4, un italoamericano del ritorno. Nato a Badia Pozzeveri (Lucca) il 19 ottobre 1896, andò in California per raggiungere il padre quand'era ancora un ragazzino ma ritornò subito dopo la Prima guerra mondiale. Autore di alcuni volumi di poesie in inglese e in italiano, danzatore, traduttore, e autore di Un italiano in America. Romanzo (Pescia, Tip. A. Benedetti, 1956)5. Non vi è certo tempo a sufficienza per parlare diffusamente del romanzo, ricco di informazioni sulla vita sociale e culturale di San Francisco all'inizio del secolo, quello che però mi preme far notare sono pochi tratti chiarificatori.
L'inizio del romanzo è preceduto da due citazioni: la prima del Tasso, «E tu la verità traggi dal fondo, / dov'è sommersa; e senza il velo ed ombra, / ignuda e bella agli occhi altrui la mostri»; l'altra di Keats, «Beauty is truth, truth beauty» - un verso diventato quasi il manifesto del secondo romanticismo.
Ambedue i poeti, uno italiano, l'altro inglese fanno quasi coincidere la verità con la bellezza, di qui il concetto romantico, cui si accennava in precedenza, che l'arte può trasformare in bellezza la verità, quindi anche la vita dell'emigrato.
Ma c'è di più, le due citazioni e l'inizio del romanzo sono separate, o meglio legate, da una pagina che contiene una «Nota dell'autore»: «Invito l'intera umanità a meditare sulle pagine di questo mio libro che presenta un'America vissuta anni or sono da un giovane idealista italiano in cruda sanguinante lotta con l'ambiente e il materialismo del nuovo mondo, senza peraltro disconoscere i valori positivi che pongono quel grande Paese all'avanguardla della storia contemporanea. È mio profondo desiderio che i lettori possano scoprire in questo lavoro l'essenza di un chiaro messaggio intriso di verità e di bene, e possano trarne i sensi più elevati per la mente e per il cuore». In questa breve nota introduttiva vediamo che Luciani, come tantissimi altri scrittori italoamericani, opera una fondamentale sostituzione: non abbiamo più verità e bellezza, ma verità e bene. Non è che la bellezza sia scomparsa, è semplicemente sottintesa, cioè posta sotto e in tensione. Infatti, senza il bene, come può essere bella la verità? Come potrebbe mai parlare al cuore?
Il toscano Virgilio, fin dalle prime pagine del suo romanzo, ci parla di Omero Danti - strano nome per un emigrato! - che curiosa per la nave che lo porta verso l'America: «Quei dialetti dell'alta Italia non li capiva affatto; fra quegli operai e quelle massaie, si sentiva ignorante: avrebbe voluto capire a volo tutte le conversazioni animate, quei modi di dire, fra i gesti meccanici delle mani e gli sguardi rapidi come scintille. Quando giunti a Napoli salirono i passeggeri della Campania, del Lazio, della Sicilia con sacchi e fagotti e valigie nuove e logore, e chitarre, mandolini, organetti, perfino flauti, i dialetti più canori risuonavano come una festa di colore e di gioiosa confusione. Omero sentì subito la poesia dei loro concerti improvvisati, a gruppi, seduti e in piedi, e quelle canzoni dalle fresche voci, spontanee e spavalde, che inneggiavano al cielo, al sole, alla luna, alle stelle, come un messaggio di dolcezza che presto avrebbe echeggiato nell'Atlantico» (p. 16).
E dall'Atlantico avrebbe invaso l'America, potremmo aggiungere noi. L'albero genealogico dell'etnia italiana, letterariamente trapiantato su suolo americano, ricresce, quasi irriconoscibile ma rigoglioso, pullula tutto di vita: gridi, canti, trilli, sussurri, aneliti, fremiti, gemiti, armonie, singulti, palpiti, accordi e dissonanze, tra sogni, faville, rimembranze, nostalgie, rose e spine, viole e ortiche. Voci nell'ombra lanciano quei loro messaggi disperati, eppure pieni di speranza verso quelle luci lontane6:
Le luci che si vedon vacillare,
leggiadramente piccole e lontane,
son come stelle sorte al limitare
di sterminate solitudi piane.
Brillano dolcemente in mezzo al velo
viola cupo della notte oscura,
sembran discese dall'immenso cielo
la cui infinita vastità impaura;
ignote e inaccessibili, fasciate
da un senso lieve di malinconia,
son come le chimere vagheggiate
inutilmente per l'eterna via.
È il ritmo cantilenante della lucchese Severina Magni che incastona frammenti della tradizione letteraria italiana nelle sue tele quotidiane per ricamarle in modo italoamericano. L'aulica poetic diction ottocentesca s'attenua in minuscoli trompe d'oreille, e quasi si dissolve nell'incantamento sussurrato delle ninne-nanne toscane d'un tempo. E che poesie sono quelle di Severina? Ce lo dice l'editrice nella presentazione del volume: «E difatti la bellezza sta in rapporto alla sofferenza che le esprime. Poesia semplice e buona, questa di Severina Magni, che ci è di gioia nel presente e di promessa nell'avvenire».
L'antologia che più rappresenta la tradizione in lingua italiana è An Anthology of Italian and Italo-American Poetry (Boston, Bruce Humphries, 1955) a cura di Rodolfo Pucelli. La tecnica utilizzata per organizzare l'antologia si può definire geniale, quasi inventa la nuova tradizione italiana, cioè quella italoamericana. L'antologia ci presenta i poeti in ordine alfabetlco e così, fianco a fianco, troviamo ad esempio, Alighieri Dante, Berloco Francesco, Certa Francesco, Carducci Giosuè, Codiferro Riccardo, D'Annunzio Gabriele, Giovannitti Arturo, Incalicchio Giuseppe, Leopardi Giacomo, Magni Severina, Maturanzo Salvatore, Negri Ada, Pascoli Giovanni, Petrarca Francesco, Pucelli Rodolfo, Saba Umberto, Stecchetti Lorenzo, e così via fino a Zamboni Armando. Mai era stata pubblicata un'antologia così democratica che contenesse una tale varietà poetica. Pucelli è tanto sicuro di quell'operazione economico-culturale da affermare nella prefazione all'antologia: «Si può fiduciosamente prevedere, però, che questa antologia unica nel suo genere sarà apprezzata e tenuta in ogni casa italoamericana onesta e istruita, come dono prezioso reso possibile dagli sforzi di uomini che hanno dedicato i loro anni migliori alla letteratura, alle lingue, alla critica, e al giornalismo».
Fa notare, poi, che non tutti i poeti italoamericani che avrebbe voluto includere sono rappresentati nell'antologia o perché non ha potuto raggiungerli, o perché non sono ancora abbastanza famosi, «mentre altri esitarono a inviare le loro poesie per tema che fosse chiesto loro di comprarne alcune copie» - cosa che avviene immancabilmente.
A soli tre anni di distanza gli fa eco, in Italia, Filippo Fichera nella sua «unica» storia della Letteratura Italoamericana (Milano, Editrice Convivio Letterario, 1958). All'inizio dell'esposizione, vengono chiaramente e definitivamente stabiliti ed estesi i canoni della teoria della letteratura italiana, e italoamericana: «La Poesia di una Nazione non va cercata soltanto nella Lingua, ma nei dialetti; e non dentro i limiti segnati dalle convenzioni diplomatiche, bensì in ogni luogo del mondo in cui si aggirano connazionali, e loro discendenti. Dove è un italiano, ivi è Italia» (p. 5).
Il lettore è sconcertato fin dall'inizio da «La Poesia» legata, con artificio grafico, la maiuscola iniziale, ad altri due sostantivi: Nazione e Lingua. Se la letteratura è subito scalzata dalla Poesia, la Lingua è di colpo contrastata dai dialetti. Come questi sono situati al di fuori dei confini della Lingua, ma reclamano il loro diritto di cittadinanza letteraria, così i «connazionali», che vivono al di fuori dei confini geografici, reclamano quella politica: «Dove è un italiano, ivi è Italia». Italia, luogo mitico al di là dello spazio e del tempo e della lingua, offre il nome alla Nazione per eccellenza, la Nazione della Poesia o Poetopia.
La proposta di una nazione al di là dei confini non è invenzione di Fichera, ma ora egli può ripresentarla a causa della nuova realtà venutasi repentinamente a creare dopo la Seconda guerra mondiale. Sono i mass media che permettono di abbattere confini precedentemente impensabili e, così, anche il villaggio italoamericano diventa globale: «La stampa e la radio, attraverso la loro opera quotidiana, additano al mondo nomi e opere di persone che nessuna Scuola aveva mai conosciuto; insospettati valori letterari ci si rivelano dai borghi più remoti, e dall'estero. I quotidiani autorevoli danno ospitalità alle lettere provinciali, che erano prima limitate alla indulgenza del bollettino campanilistico; e gli editori di primo piano non sdegnano di accogliere e lanciare al mondo la produzione letteraria regionale. Sotto l'uzzolo del gioco e del premio, la televisione attrae all'universalità del video eserciti di studiosi d'ogni ceto dal quale si vede che la cultura è un dono celeste largito agli uomini di buona volontà, senza preferenza di nascita, di censo, di età, di classe, e soprattutto si dimostra che l'italiano è portatore di Poesia. Dov'è Italia, ivi è Poesia. Questa innegabile verità bisogna ripeterla a gola piena, perché altri non dimentichi. In ogni luogo, nella città o nei campi, in patria o all'estero, l'italiano è sempre e soprattutto poeta. È necessario che gli italiani riconoscano questa loro insopprimibile nobiltà che ha espresso nei secoli le voci belle dell'Amore universale» (p. 5).
La poesia riproposta come oggetto etico sconfina nella realtà, e fa scoppiare una vera e propria rivoluzione. L'insorgere della periferia verso il centro, dei dialetti verso la lingua ufficiale, del popolo verso l'élite economico-politico-culturale non poteva essere espressa in modo più radicale in queste pagine iniziali di Fichera che assumono il ruolo di «Manifesto della letteratura-poesia italoamericana». Con l'aiuto terreno di giornali, radio e televisione, e con quello « celeste» che ha equamente dispensato il dono della poesia, specialmente tra gli italiani, è facile giungere «sinteticamente» alle giuste conclusioni, se «dove è un italiano, ivi è Italia» e «dove è Italia, ivi è Poesia». «Gli italiani, dicemmo, sono portatori di Poesia. Gli emigrati sono i più ardenti portatori di poesia. Vanno con la nostalgia che li divora in terra straniera, ed è la nostalgia il più potente lievito del loro ingegno; lo sprone assiduo della loro ansia di cantare... È la lontananza dalle persone care, nel mondo nuovo in cui si vive, fonte di perenne Poesia» (p. 6). Infine, Fichera attacca la stampa e la storiografia definendole «letteratura lacrimosa», e propone di celebrare i poeti invece di insistere sulla criminalità italoamericana di origine meridionale, e specialmente siciliana7. «Troppo si è sofisticato sulla cosiddetta "piaga dell'emigrazione", e troppa letteratura lacrimosa si è armeggiata intorno all'emigrazione del nostro popolo, senza mai rilevarne il volto migliore: la Poesia... Si decida invece la stampa italiana ad aprire gli occhi lieti sul fenomeno più chiaro, che tanto ci onora, ed esaltino la Poesia dell'Immigrazione. È tempo che i letterati d'Italia onorino il nome e l'opera dei fratelli d'America» (pp. 6-7).
Come è vero che tantissimi immigrati italiani provenienti dal Meridione e dalla Sicilia non hanno nulla in comune con la mafia e ogni altro tipo di criminalità, è pur vero che gran parte degli emigrati che hanno prodotto un qualche tipo di testo scritto in prosa o in versi non possono essere accusati di essere dei poeti. Non si può certo risolvere la questione meridionale, che tuttora esiste, gettando retorici allori alla memoria per alleviare i nostri sensi di colpa, e nemmeno continuando a fare poesia quando occorre serietà di azione politica. Nessuno può negare che gli italiani emigrati, non solo quelli d'America, siano stati e siano capaci di cose ben più grandi della poesia, imprese che i poeti difficilmente saranno in grado di narrare ai posteri con il tono giusto. Molto però è stato scritto in anni recenti, non in poesia e non tanto in loro difesa, ma nella «scarna» prosa della relazione scientifica e alla ricerca dell'obiettività, per quanto è possibile.
Non sempre la categoria «letteratura» può contenere gli scritti prodotti dall'emigrazione, a meno che non la si consideri come la totalità dei testi scritti e trascritti. Questo non significa, però, che molti di quei documenti non letterari e i loro autori non siano rispettabili, o che alcuni di quei testi letterari non debbano essere riconsiderati e inseriti a pieno titolo nella nostra storia della letteratura.
Con questo convegno di Losanna potrebbe essere giunto il tempo in cui «i letterati d'Italia onorino il nome e l'opera dei fratelli», non solo «d'America».
Note |
1 | Si utilizza il termine «invenzione» come proposto da Werner Sollors in «The Invention of Ethnicity» in Id. (a cura di), The Invention of Ethnicity, New York, Oxford University Press, 1989. |
2 | Dagli interventi presentati a questo convegno e dal dibattito suscitato, è apparso evidente che questo vale non solo per gli Stati Uniti ma, generalizzando con le dovute cautele, per la gran parte dei paesi che hanno accolto i nostri emigranti. |
3 | Durante lo stesso convegno sono state proposte diverse etichette per poter contraddistinguere la letteratura dei nostri emigranti giudicata di scarsa qualità letteraria secondo metodi critici tradizionali. Da «letteratura vs Letteratura» a «letteratura selvaggia», mi sono parse tutte poco convincenti. Nel tentare nuove proposte di lettura, c'è stato anche chi ha confuso letteratura «bassa», in opposizione ad «alta» (penso nel senso di scritta da/per persone colte), con letteratura «popolare». Purtroppo anche il termine «popolare» è impastato con una forte dose di ambiguità: a volte definisce il lettore ed equivale a «per il popolo», altre volte definisce lo scrittore e cioè «scritta da persona non colta, o appartenente al popolo». Occorre però ricordare che molta letteratura popolare è di alta qualità letteraria, mentre molta letteratura «alta» non è altro che «aulica», quindi di scarsissimo valore letterario. Nel caso della letteratura d'emigrazione credo occorra distinguere la prosa, in gran parte di natura autobiografica, dalla poesia. Molti testi in prosa sono originali nella forma anche se ripetitivi nelle tematiche, a volte sono di buona fattura letteraria e possono essere considerati letteratura popolare in tutti i sensi. I testi poetici, invece, specialmente quelli scritti in italiano, eccetto rarissimi casi, scadono nella pura e semplice verseggiatura imitativa. Non falliscono soltanto coloro che non hanno cultura, anzi, la caduta di «professori e affini» è spesso più rumorosa. Mentre i primi fanno sorridere per la loro ingenuità, i secondi appaiono ancor più ridicoli per l'arroganza di credere che basti un titolo di studio, spesso soltanto millantato, per scrivere poesia. Diverse considerazioni e maggiore attenzione meritano molte poesie dialettali, legate a una tradizione, anch'essa popolare, molto più spontanea e fruttifera. In definitiva si potrebbe affermare che la letteratura d'emigrazione segna una grossa rivincita della letteratura popolare su quella «tradizionale». L'aderenza alla grande tradizione letteraria da Dante a Montale ha creato una grande confusione in molti che, pur avendo lodevolmente imparato a leggere e a scrivere in condizioni di grande difficoltà, confondono la letteratura con la «trascrizione» dei grandi poeti. Basta citare l'esempio di Anthony Barbato che scrive: «Forte mi batte il cuor sempre che vedo / La donna mia. / Amor, che sempre amor cerca e non trova, / Mi brucia il cuore» («Uomo d'amore», Acque Chiare / Clear Waters, Sarnia, Allen-Y-Nott Publishers, 1989). Inutile è ogni commento sia su questi versi sia sulla traduzione a fronte in inglese, ma val la pena evidenziare, accanto all'ingenuità poetica, l'astuzia «imprenditoriale»: la cartolina pubblicitaria che serve anche per ordinare la raccolta di versi recita « Ideal to learn Italian and English!». |
4 | Il caso di Luciani è esemplare proprio nella sua atipicità rispetto agli altri emigranti. La sua è una vera «biographia literaria», eppure ci permette di seguire costantemente i primi italiani d'America al confronto con i «veri» americani. I gusti letterari italiani ci sono vivamente rappresentati specialmente nelle loro frequentazioni dei teatri, sia prima della Prima guerra mondiale, come quando giunge a San Francisco la compagnia di Mimì Aguglia («Omero andò a vederla in Romanticismo e soffrì assai nell'udire le critiche degli spettatori che non intendevano né il lavoro né la lingua, e ridevano perché i nostri attori gesticolavano un po' troppo e si muovevano spesso sulla scena nel rendere le passioni del nostro ìRisorgimentoî», p. 56), sia durante la guerra stessa («Nella colonia italiana di San Francisco la guerra aveva impresso un sentimento di patriottismo veramente significativo, che si dimostrava in quel teatro con la ìcanzone del Piaveî... Gabriele D'Annunzio, con la questione di Fiume, era diventato il beniamino del suo popolo e la figura più discussa nei circoli politici internazionali», p. 119). Omero non si limita certamente allo studio della letteratura italiana, anzi, si interessa sia a quella inglese sia a quella americana e non vi è autore importante che non sia citato. Mentre traduce quei poeti in italiano, scrive poesie in inglese: «Ma Omero, di fronte a ogni disappunto, dopo il consueto sospiro, riprendeva animo; sempre qualche altra luce faceva capolino nella tenebra del suo titubante temperamento, e fu quanto mai lieto quando un giorno un giornale cittadino, ìThe San Francisco Tribuneî, gli accettò poesie in lingua inglese e gliele pagò anche due dollari l'una... Quel successo dette a lui una impetuosa gioia; si sentì improvvisamente un piccolo re in quella moltitudine nella quale lavorava e che in fondo non lo comprendeva» (pp. 100-1). Ma prosegue: «L'esser divenuto un poeta originale nella lingua inglese, ed esser pure un ottimo dicitore di poesia nei cenacoli letterari, possedere la tessera di poeta ìad honoremî del ìCalifornia Clubî e quella di membro dell'Associazione degli artisti di San Francisco, per Omero Danti non significava affatto aver raggiunto la posizione economica» (p. 122). Infatti, la poesia gli aveva fatto perdere anche il posto di lavoro a causa dell'avversione dei suoi «pratici» superiori, nonostante egli cercasse di evitare lo scontro: «I poeti sono vagabondi, caro ragazzo, non sai che uno dei più noti vagabondi di questi nostri 48 stati è stato quel falegname e infermiere barbuto che si chiama Walt Whitman? Omero non rispose; pensò che non era dignitoso rispondere; come non avesse detto a lui continuò a camminare per non sentire maggiormente denigrare l'autore di Foglie d'Erba, la più grande voce dello spirito di tutto il Nord America» (p. 81). E sarà appunto a Whitman che ricorreranno gran parte dei «poeti emigrati», non solo quelli d'origine italiana, quando scriveranno in inglese. Il loro mantenere in vita quella tradizione «umana» darà voce alla grande ribellione dei sentimenti degli anni Sessanta conosciuta sotto la generica etichetta di «beat generation». Ultimo dato da ricordare sono i numerosi riferimenti all'esposizione del 1915, la «Panama Pacific International Exposition», che collegato a «ricordava il risveglio artistico del cinema italiano che con Cabiria e Quo Vadis? portò a Hollywood la tecnica del film classico» (p. 123), ci riporta facilmente a Good Morning Babilonia dei fratelli Taviani. |
5 | Le altre opere di Virgilio Luciani sono: Aspirazioni, Gravina di Puglia, 1923; Youth, E. Rossi Printing Co., 1930; La seconda giovinezza (Versi), Pisa, Nistri-Lischi, 1934; Lacrime in fiamme (Sette liriche), Pescia, Tip. A. Benedetti, 1956. |
6 | 6 Severina Magni, Luci lontane. Liriche, Milano, Editoriale Modena, 1937, p. 13. |
7 | A questo proposito cita parte di un articolo di Domenico Bartoli apparso sul «Corriere della Sera» del 22 febbraio 1958. |