Negli ultimi anni si è affacciata, nelle opere di un ristretto numero di studiosi di migrazioni ed etnicità, la prospettiva globale e transnazionale; ne sono testimonianza i più recenti libri di storici, impegnati su fronti disciplinari diversi, tra i quali si ricordano ad esempio: Arjun Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimension of Globalization del 1996; Robin Cohen, Global Diasporas: An Introduction del 1997 che costituisce un’assai utile introduzione per una teoria multidisciplinare sulla diaspora; Werner Sollors, Multilingual America, Transnationalism, Ethnicity and the Languages of American Literature del 1998; Donna Gabaccia, Italy’s Many Diasporas del 2000; Bruno Ramirez, Crossing the 49th Parallel, Migration from Canada to the United States, 1900-1930 del 20011. Alla luce dell’evidente evoluzione in chiave globale del dibattito sull’emigrazione, si intende in queste pagine individuare i percorsi fondamentali di tale trasformazione, tratteggiare i contenuti essenziali e i possibili sviluppi del nuovo paradigma. Nel corso degli anni sessanta e settanta, in seguito ai movimenti del revival etnico bianco, gli studi sugli italoamericani hanno registrato un notevole incremento; di conseguenza durante gli anni ottanta gli studiosi si sono trovati contemporaneamente alle prese con la teoria dell’assimilazione e con il mutato significato di etnicità. Ciò ha determinato una scissione all’interno delle discipline storiche, sociologiche e antropologiche in tema di immigrazione: alcuni hanno avanzato l’ipotesi di un «ritorno al melting pot»2: in quest’ottica il revival etnico non è stato altro che l’inizio di quel processo di assimilazione che ha permesso alle etnie europee di diventare definitivamente bianche e americane. Altri studiosi3, invece, hanno sostenuto la necessità di una teoria critica dell’etnicità che tenesse conto dell’economia politica e delle dinamiche dell’etnicità bianca; già a partire dagli anni settanta e ottanta, infatti, parecchi sociologi e altri studiosi delle contemporanee migrazioni dall’America Latina e dall’Asia verso gli Stati Uniti, si erano avvicinati all’analisi del «sistema mondo» di Immanuel Wallerstein che si era sviluppata in contrasto con la teoria della modernizzazione4. Questi studiosi collocano il processo di migrazione nel sistema capitalistico mondiale che risulta interconnesso e gerarchicamente organizzato. Basandosi sulla teoria marxista, essi si focalizzano sulle determinanti strutturali del sistema economico e politico e su come questi sistemi plasmano, e sono plasmati, dalle strategie collettive di adattamento e resistenza. A differenza degli storici delle migrazioni europee, questi sociologi utilizzano i concetti di economia duale e di segmentazione del mercato del lavoro, che erano stati sviluppati negli anni settanta dagli economisti politici per documentare come capitalismo, razzismo, colonialismo e sistema di governo fossero le variabili fondamentali per comprendere i modelli migratori. Tra gli studiosi che per primi negli anni ottanta hanno utilizzato i concetti di economia politica anche per lo studio delle etnicità di origine europea va ricordata l’etnografa italoamericana Micaela di Leonardo. Il lavoro di Di Leonardo, in particolare, dimostra come è proprio dai contrasti analitici sopra descritti che prendono forma nuovi studi sull’immigrazione e la storiografia italoamericana. In The Varieties of Ethnic Experience, esprime il proprio legame affettivo nei confronti degli altri studiosi co-etnici, ma anche la propria opposizione nei confronti della romantica «mobilitazione politica delle radici» tipica del revival etnico5. Il suo studio si focalizza sul cambiamento delle identità etniche al mutare delle condizioni economiche, tale prospettiva le permette di asserire che la dottrina dell’etnicità europea tende a unificare cultura e classe in quanto le divisioni razziali ed etniche negli Stati Uniti coincidono fortemente con la segregazione occupazionale e con la stratificazione economica e sociale. Di Leonardo invita quindi gli studiosi a prestare grande attenzione agli effetti dell’evoluzione della politica economica globale sulla vita delle persone e alla «adattabilità creativa delle costruzioni umane della realtà sociale». Il merito di Di Leonardo è stato quello di essere stata tra i primi studiosi a sottolineare come gli studi etnici abbiano sempre analizzato le culture etniche dal proprio interno e che, spesso, la discussione abbia tralasciato l'analisi del contesto sociale ed economico nel quale gli immigrati si sono dovuti inserire. Benché l'etnografa non prenda propriamente parte al dibattito storiografico transnazionale, il suo lavoro può comunque essere interpretato come uno dei primi tentativi di riconnessione tra i vari aspetti della società americana nel suo complesso e l'economia globale. Nel sostenere che i processi etnici variano al variare dei contesti storici e delle caratteristiche economiche del tempo, inoltre, Di Leonardo, anticipando gli storici del transnazionalismo e della diaspora, utilizza un modello di ideologia etnica ispirato agli studi marxisti sull'ideologia e sulla definizione di cultura propria dell'antropologia cognitiva6. È noto come la teoria del sistema-mondo di Wallerstein correli le strutture economiche e politiche del capitalismo globale con i fenomeni migratori. Questa teoria ha inoltre indotto, dalla metà degli anni ottanta, antropologi, sociologi, critici letterari e storici ad accelerare un passaggio al transnazionalismo come concetto chiave nel campo degli studi migratori: essi sostengono, in definitiva, che nel caso degli Stati Uniti ci si trovi oggi davanti a un nuovo fenomeno sostanzialmente opposto all’immigrazione «stabile» tipica del passato. Alla luce di tale impostazione, alcuni studiosi iniziano a ipotizzare che i nuovi immigrati non si assimileranno alla vita americana proprio perché «trans-migranti», dediti cioè a mantenere legami stretti con la propria patria, quindi pionieri di una nuova, mobile forma di vita e cultura transnazionale all’interno di un’economia globale7. Tenendo come punto di partenza i modi in cui il capitale, il lavoro e le tecnologie si spostano attraverso i confini dello stato-nazione, gli studiosi di migrazione si sono mossi oltre i concetti di nazionalismo per esaminare i multipli e simultanei legami che sono prodotti e mantenuti dall’emigrazione. Il sociologo Robin Cohen, a esempio, sostiene che la globalizzazione economica ha portato a una «deterritorializzazione dell’identità sociale» che si scontra con l’egemonica rivendicazione dello stato-nazione di una cittadinanza esclusiva. In altre parole la globalizzazione sta determinando una contrapposizione tra stato e nazione, in questo contesto solo il transnazionalismo permette di risolvere la contraddizione tra il crescente bisogno da parte dello stato di un’economia globale e continua necessità della nazione di rinforzarsi8. Partendo da queste due esigenze, gli studiosi hanno orientato i loro interessi allo studio delle forme culturali del transnazionalismo con lo scopo di capire la connessione tra emigrazione ed espansione di capitale. Per esempio, le antropologhe Linda Bash, Nina Glick Schiller e Cristina Blanc nel loro lavoro sulle contemporanee popolazioni Caraibiche e Filippine a New York, sostengono che queste diaspore sono «nazioni slegate» da quando gli immigrati sviluppano reti, attività, stili di vita e ideologie che attraversano i confini nazionali. Queste studiose, quindi, definiscono il transnazionalismo come il processo con cui gli immigrati stabiliscono relazioni multiple che permettono loro di collegarsi con le proprie società di origine; il transnazionalismo è la risposta degli immigrati alle forze del capitalismo globale e del neocolonialismo9. Mentre molti studi sul transnazionalismo sono emersi per spiegare e analizzare il livello di globalizzazione del capitalismo che si è sviluppato dopo la Seconda guerra mondiale, anche gli storici di migrazioni europee hanno iniziato ad adottare prospettive globali. Spiccano tra questi gli studi sulla diaspora italiana di Emilio Franzina, Gianfausto Rosoli, Rudolph Vecoli, George Pozzetta, Bruno Ramirez, Donna Gabaccia, e altri10. L’alto tasso di rimpatrio e il basso tasso di naturalizzazione – specie prima della Seconda guerra mondiale – degli immigrati italiani, per esempio, ha spinto questi storici a esaminare come i sistemi sociali degli immigrati (a esempio parentele e reti politiche) si estendessero attraverso lo spazio. Donna Gabaccia sostiene che una «storia del mondo in prospettiva migratoria» permetterebbe di riscrivere la storia americana portandola all’interno di una prospettiva comparativa. Gli studi transnazionali della diaspora migratoria, infatti, consentirebbero di comprendere come un gruppo di una catena migratoria si sia adattato a vivere in diverse nazioni con differenti dinamiche razziali, etniche e religiose11. Si sta quindi sviluppando un nuovo corpo di teorie che promette, o minaccia, di eliminare il termine «immigrant» dal lessico degli studiosi. Un tempo usato solo per descrivere l’energica diffusione di un limitato numero di migranti (ebrei, africani, e qualche volta armeni), adesso il termine «diaspora» è ampiamente invocato come paradigma per lo studio di migrazioni globali di numerosi gruppi. Studiosi di diaspora in comune con studiosi di transnazionalismo e alcuni storici dell’immigrazione degli anni settanta e ottanta, sono oggi interessati alla migrazione come fenomeno che attraversa i confini nazionali, quindi un fenomeno che richiede interpretazioni da posizioni che vadano al di sopra, al di sotto, oppure al di fuori della rigorosa e restrittiva storiografia nazionale. A partire dagli anni novanta, attraverso la spinta di antropologi e scienziati della politica, l'interpretazione transnazionalista si inserisce definitivamente all'interno del dibattito sugli studi migratori. Si riscontra, infatti, una tendenza generale a riconoscere che l'immigrazione in Europa Occidentale e negli Stati Uniti dal finire degli anni sessanta sia sostanzialmente differente da quella di inizio secolo. La velocità delle comunicazioni e dei trasporti, infatti, ha consentito agli immigrati di mantenere dei collegamenti forti con i paesi di origine e ha quindi permesso la formazione di distinte reti etniche12. Nel tentativo di estendere queste considerazioni, reputate limitative, alcuni storici dell'immigrazione stanno tentando di dimostrare che tali legami privilegiati con la madre patria siano esistiti anche nel periodo delle «grandi migrazioni» di fine Ottocento e inizio Novecento, e che tali collegamenti costituiscono un interessante elemento strutturale del processo migratorio. Studiando la migrazione di 14 milioni di italiani tra il 1876 e il 1914, per esempio, Donna Gabaccia scopre che i lavoratori italiani erano tra i più mobili del XIX secolo. Uno studio che tenga presente la natura circolatoria di molte migrazioni, pertanto, permette di comprendere come i migranti cercassero solo il lavoro e che adottassero molte differenti destinazioni al fine di trovarlo senza mai rompere i contatti con le famiglie e le comunità in patria13. Almeno per quanto riguarda gli italiani, l'alto tasso dei rimpatri rappresenta una prova convincente del fatto che gli emigranti della penisola non avessero alcuna intenzione di insediarsi definitivamente nei paesi ospitanti. Più della metà di essi infatti tornò di nuovo in Italia e molti emigrarono più volte nell'arco della propria vita lavorativa. Bruno Ramirez definisce questo processo come un fenomeno di «migrazione multipla» e, nel sottolineare che gli italiani erano uno dei maggiori gruppi dediti alla ri-emigrazione, evidenzia che tale mobilità «produce un’immagine più chiara dell’incredibile dinamismo dei mercati di lavoro della manovalanza, che erano una parte integrante dello sviluppo economico degli Stati Uniti e del Canada»14. Ciò mette in luce come per gli italiani «lo sviluppo di una cultura in cui l'emigrazione, e la vita all'estero, rappresentano la normalità, piuttosto che l'eccezionalità: una parte ordinaria della vita sociale ed economica»15. Studi sulla diaspora, inoltre, dimostrano che in molti casi i migranti «diventavano italiani» all'estero nel momento in cui si rendevano conto che per la nazione ospitante tutti gli «italiani», a prescindere dalla regione di provenienza, fossero considerati appartenenti a una unica «razza» italiana. 16 In effetti, come dimostra Donna Gabaccia, nel suo ultimo libro Italy’s Many Diasporas, la migrazione dall’Italia ha determinato un senso di identità che quasi mai ha fatto appello alla nazionalità italiana. Essa infatti, diversamente da qualsiasi altro gruppo etnico, ha avuto una natura plurisecolare ed è passata da fasi di emigrazione d’elite (1200-1500; 1500-1790; 1790-1875) a fasi di emigrazioni di massa (1876-1915; 1916-1945; 1946-1975); nel corso dei secoli inoltre, essa è stata caratterizzata da una molteplicità di rotte che hanno consentito alla «civiltà italiana» di diffondersi in modi e in tempi diversi in Asia, Africa, Europa, Nord America, Sud America e Australia. Se a ciò si aggiunge la natura campanilistica che ha caratterizzato le diverse catene migratorie, si può facilmente concludere che l’emigrazione italiana, se pure non abbia mai generato una diaspora unitaria o nazionale, ha tuttavia generato una molteplicità di diaspore temporanee e diverse tra loro. Solo negli ultimi decenni si può parlare di migranti uniti da identità nazionale e dediti a mantenere connessioni con un governo nazionale in patria, e quindi di un senso di identità condiviso in tutto il mondo17. L'utilizzo di un paradigma transnazionalista permette, inoltre, di riscrivere una storia delle donne che tenga conto della loro funzione nel processo migratorio nel contesto dell'economia globale. L'enorme sproporzione tra la migrazione maschile e femminile in Italia, per esempio, e il conseguente sviluppo delle cosiddette «vedove bianche» o «donne che aspettano»18, da un lato dimostra ulteriormente lo stretto legame con l'Italia da parte dei lavoratori all'estero all'inizio del XX secolo, dall'altro permette di «chiarire come il lavoro produttivo e le decisioni sui consumi delle donne italiane sostennero, integrarono o resero vane le scelte migratorie degli uomini circa l'occupazione, i salari e il lavoro all'estero»19 e di analizzare, quindi, la migrazione italiana nell'ottica di una «economia familiare» internazionale. Donna Gabaccia ha inoltre insistito sulla necessità di spingere verso la modificazione del paradigma dell'immigrazione: «un paradigma che afferma che la democrazia americana, attraverso la definizione della nazionalità americana, consente agli outsider di divenire a pieno titolo americani»20. Gabaccia quindi stimola l'evoluzione della discussione verso paradigmi alternativi quali le storie transnazionali, le storie comparate di un singolo gruppo migratorio in due o più paesi, le storie di diaspora, la storia dei mercati del lavoro globale, insomma una storiografia che non si basi esclusivamente sulle concezioni di stato-nazione e che, quindi, non sia dominata dal mito nazionale21. Proprio ispirandosi alle critiche storiche dello stato nazionale e del nazionalismo, Donna Gabaccia auspica una internazionalizzazione delle storiografie nazionali e lo sviluppo di un interesse per l'insegnamento di una storia mondiale o globale22. In definitiva la spinta verso la modificazione del paradigma dominante può essere interpretata nel senso di un'evoluzione del concetto di immigrazione. Così come verso la fine degli anni settanta, in seguito alla scoperta della natura circolatoria delle migrazioni, molti storici dell'immigrazione preferirono sostituire il termine immigrato con quello di emigrato23; l'evoluzione del dibattito dalla metà degli anni ottanta a oggi sta determinando una sostituzione del termine immigrato-emigrato con quello di transmigrato. Si tratta di una rivoluzione paradigmatica che potrebbe avere delle conseguenze politiche, oltre che metodologiche, non indifferenti. Se, infatti, il termine immigrazione è strettamente connesso alle «questioni interne» del paese ospitante e alla sue necessità di affermare il proprio nazionalismo, lo studio di una storia transmigratoria sposterebbe l'interesse verso questioni economiche globali determinando pertanto la perdita di significato di quei concetti di assimilazione e pluralismo che rappresentano le necessità naturale di uno stato-nazione di essere l'organizzazione di un popolo etnicamente riconoscibile. L'approccio transnazionalista permette, inoltre, il recupero dello studio delle identità nelle terze e quarte generazioni che il paradigma tradizionale tende a escludere dalla trattazione. Le teorie assimilazioniste già nella metà degli anni ottanta, per esempio, avevano decretato il definitivo «tramonto delle etnicità»24 europee negli Stati Uniti. In contrapposizione a tale impostazione, numerosi studiosi di immigrazione avevano invece dimostrato che, attraverso un processo di «invenzione»25 simbolica e di continua rinegoziazione, le terze e le quarte generazioni di immigrati stavano attraversando una fase di «risveglio» e di recupero di quelle eredità etniche che i propri nonni avevano seppellito durante il processo di assimilazione. Una rilettura dell'attivismo delle nuove generazioni nell'ottica della comunicazione globale permette di affermare che i discendenti degli immigrati hanno oggi paradossalmente maggiori possibilità di contatti con la «madrepatria» di quante non ne avessero i propri avi. Il risveglio etnico degli anni novanta, descritto da parecchi studiosi, è probabilmente frutto del crescente utilizzo delle nuove tecnologie per la comunicazione. Internet26 e la televisione satellitare, in particolare, permettono oggi un contatto quotidiano e illimitato con la lingua e le culture ancestrali27. Quello della comunicazione globale è pertanto un aspetto che non può essere sottovalutato, in particolare se si considera che, come si afferma continuamente, la radio e la televisione sono state l'artefice principale della creazione delle identità nazionali negli ultimi cinquanta anni! In conclusione, appare evidente che l'approccio transnazionalista permette di unire in un unico filo conduttore tutti gli aspetti del processo migratorio: dalle «grandi migrazioni» di fine Ottocento e inizio Novecento, al ruolo economico delle donne, alla peculiarità delle migrazioni a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, fino al risveglio dell'etnicità nelle terze e quarte generazioni. È difficile pertanto non essere d'accordo con Donna Gabaccia quando afferma che «gli studiosi che si rifiutano di tenere conto di questa impostazione globale rischiano di restare fuori dalla storia»28. |