Premessa Tracciare un bilancio della ricerca sin qui prodotta sull’emigrazione italiana in Cile è solo apparentemente un’operazione semplice perché nasconde alcune complessità e incomodità. Semplice perché l’unica opera di ampio respiro che dà conto delle dinamiche e dei problemi del movimento migratorio italiano verso questo piccolo paese andino rimane, ancora oggi, a distanza di sette anni dalla sua pubblicazione, il volume curato dal compianto Luigi Favero, da poco prematuramente scomparso, per le edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli.1 La complessità risiede invece nel tentativo di spiegare il perché del sostanziale silenzio storiografico che segue la sua pubblicazione che pure si proponeva come la prima tappa di un lungo itinerario di ricerca che avrebbe dovuto offrire nuovi materiali di discussione e comprensione della questione. Ragionare sul vuoto obbliga infatti, con una certa incomodità, a dedurre, da una serie di elementi indiziari, i motivi di tale silenzio che rimangono comunque difficilmente verificabili. In questa breve nota cercherò dunque – dopo aver ricordato i tratti salienti dell’emigrazione italiana attraverso una rilettura dei nodi problematici che i saggi pubblicati a cura di Favero hanno evidenziato – di capire come e perché nel panorama storiografico del Cile degli anni novanta il tema dell’emigrazione europea in generale e quella italiana in particolare copra un ruolo marginale. Le ricerche degli anni ottanta Nella storia dell’emigrazione italiana il Cile è, a confronto con l’Argentina e il Brasile, un capitolo del tutto secondario. La scarsa consistenza numerica, ampiamente documentata in alcuni dei saggi presenti nel volume a cura di Favero,2 è certamente uno dei motivi per cui gli studiosi italiani non hanno considerato rilevante dedicare al flusso migratorio verso il Cile particolare attenzione ma soltanto qualche frettoloso riferimento. Emilio Franzina, Ruggero Romano e Gianfausto Rosoli nelle loro periodiche riflessioni sul tema dell’emigrazione italiana transoceanica, pur riservando al Cile qualche passaggio del loro ragionamento, non segnalano, da parte italiana, nessun lavoro di rilievo.3 Un saggio di chi scrive apparso negli Atti di un convegno storico internazionale tenutosi a Brescia nel novembre 1992, dedicato alle vicende della colonia Nueva Italia e cioè alla prima esperienza di colonizzazione agricola italiana nel sud del paese tra il 1904 e il 19074 e il lavoro di Patrizia Salvetti sulle fonti italiane,5 rappresentano i soli esempi di un interesse, da parte italiana, per il tema in oggetto. Lo studio dell’emigrazione italiana in Cile nasce dunque, esclusivamente, in quel paese, in un momento specifico della sua storia, gli anni ottanta del Novecento. In quegli anni infatti, cominciano ad apparire i primi tentativi di un approccio sistematico al tema. Ovviamente non si parla di emigrazione ma di immigrazione perché si guarda al fenomeno dalla prospettiva delle vicende storiche cilene e quasi si ignora l’analisi dei fattori di espulsione operanti nelle regioni di provenienza degli immigrati.6 Nel mio saggio apparso nel volume curato da Favero ricordavo che non è un caso che l’introduzione della tematica avvenga in un momento molto speciale della storia cilena. Il colpo di stato militare del 1973, la brutalità della repressione che, con intensità diverse si protrae per quasi diciassette anni, mettono in crisi l’immagine che i cileni hanno del loro passato e del loro paese come il più ordinato, stabile e democratico dell’intera regione. La crisi dell’identità nazionale, indotta dalle convulse vicende politiche che si susseguono dalla metà degli anni sessanta in poi fa sentire la necessità, negli studiosi, di ripensare la propria storia secondo categorie e approcci metodologici nuovi ed è proprio a partire dagli inizi degli anni ottanta che in campo storiografico appaiono i primi frutti. Parlare dell’immigrazione europea in Cile diventa allora uno dei tanti modi d’interrogarsi sulla propria identità nazionale, sulla molteplicità dei valori che essa esprime, sulle tensioni che la alimentano.7 Sono i problemi del presente dunque che aprono nuovi temi di esplorazione del passato. Questa crisi dell’identità nazionale non coinvolge soltanto gli studiosi ma, anche se in modo confuso e inconsapevole, alcuni membri delle differenti collettività spinti a ricostruire il loro passato familiare quasi a voler prendere le distanze da un’identità cilena nella quale si erano riconosciuti per lungo tempo ma che nel presente si rivelava assai problematica. L’acuta crisi economica dei primi anni ottanta che comporta una seria erosione di posizioni economiche sino a quel momento solide e conquistate, in alcuni casi, a fatica, accentua l’insofferenza verso la patria di adozione e spinge alla ricerca delle più o meno lontane origini. Soprattutto i giovani, che in molti casi rappresentano la terza e la quarta generazione, sono desiderosi di capire e conoscere il paese di provenienza della loro famiglia e, quando possono, viaggiano per visitarlo, per cercare parenti dei quali hanno perso le tracce e spesso ci rimangono per studiare all’Università. La ricerca degli studiosi s’intreccia allora spesso con i bisogni espressi dai gruppi etnici o da singole persone impegnate nella ricostruzione delle proprie origini. Nel caso della collettività italiana, un ulteriore elemento arricchisce il quadro. L’Italia e la ex Unione Sovietica sono gli unici due paesi a non riconoscere il regime del generale Pinochet e a non mantenere, per tutto il periodo della dittatura, la loro rappresentanza diplomatica in Santiago. Questo fatto costituisce un ulteriore elemento di tensione all’interno della collettività italiana tra chi ritiene che il governo italiano abbia compiuto un gesto corretto e chi – la maggioranza dei casi- si è sentito «tradito» e «abbandonato» per la seconda volta dal paese di origine. Il contesto che abbiamo appena tracciato spiega perché nelle università l’immigrazione europea inizi a essere considerata un tema degno di analisi attorno a cui si attivano una molteplicità di corsi, seminari e iniziative tese all’esplorazione di archivi pubblici e privati e a una prima elaborazione dei dati raccolti.8 Per ciò che si riferisce all’immigrazione italiana, tutte queste iniziative trovano un’istanza di coordinamento nel progetto di costituzione di un archivio di storia sociale della collettività il cui responsabile scientifico è Luigi Favero in quel periodo direttore del Cemla (Centro de estudios migratorios latinoamericanos) di Buenos Aires. Il lavoro di molti studiosi, insieme all’appoggio offerto dalla collettività italiana e a un finanziamento del Ministero degli esteri, rende possibile, nella seconda metà degli anni ottanta, la raccolta di molti materiali preziosi che altrimenti sarebbero andati perduti. Giornate di studio organizzate annualmente fanno progressivamente il punto sia della raccolta e sistematizzazione del materiale, sia della ricerca storica che comincia ad avviarsi. Vedono la luce alcuni studi che contestualizzano la immigrazione italiana nel paese; altri che analizzano la prima colonizzazione agricola nel sud del Cile; appare una prima esplorazione sulla imprenditorialità, sulla comunità italiana a Concepción, sulla presenza di artisti italiani nell’Ottocento.9 Altri studi, infine, sono raccolti nel volume già più volte citato a cura dello stesso Favero.10 La ricostruzione e la descrizione di «frammenti» della storia degli italiani in Cile riflettono le inquietudini alimentate dal dibattito storiografico internazionale: il problema dell’identità culturale, dell’integrazione, del senso del quotidiano, le suggestioni che provengono dalla storia delle donne e dalla storia dei sentimenti, la ricostruzione della storia di specifiche comunità sulla base della prospettiva della microstoria, l’analisi critica dei modelli dello sviluppo economico attraversano la riflessione sulla presenza italiana in Cile. Non si vuole rispondere soltanto al bisogno di descrivere le vicende degli immigrati, ma si vogliono sperimentare logiche e pratiche storiografiche diverse che vanno dalla storia orale all’analisi quantitativa. E l’analisi comparativa con ciò che è successo nella vicina Argentina e in Brasile fornisce, anche solo per opposizione, chiavi di lettura nuove e interessanti. Soltanto per fare un esempio si ricorda che molti degli studi sull’immigrazione italiana in Argentina, Brasile e anche negli Stati Uniti prendono le mosse dall’analisi della storia del movimento operaio e delle dinamiche del mercato del lavoro, oppure esplorano intere città o quartieri di città italianizzati. In Cile invece, soprattutto per la scarsa consistenza numerica degli immigrati la cui presenza nel movimento operaio è irrilevante; per l’assenza, nelle città cilene, di quartieri italiani, le prospettive di ricerca adottate negli altri paesi di immigrazione di massa non hanno alcun significato mentre lo studio della storia della piccola e media impresa italiana diffusa sul territorio offre spunti interessanti e nuovi di riflessione. I tratti generali dell’emigrazione italiana Per quanto molte delle ipotesi di lavoro disegnate negli anni ottanta non si siano realizzate e nonostante i molti vuoti storiografici che aspettano di essere colmati, agli inizi degli anni novanta il volume a cura di Favero compie l’obiettivo di offrire le coordinate generali della presenza italiana in Cile e di indicare i percorsi per ulteriori approfondimenti. Il saggio di apertura dello stesso Favero ripropone i contorni generali del dibattito teorico che si sviluppa nell’Italia postunitaria sull’emigrazione spontanea, assistita, sulle tecniche di arruolamento degli emigrati e sui tentativi di applicazione pratica di tale dibattito. E proprio per dotare di contenuti concreti concetti come emigrazione spontanea e assistita, l’autore prende in esame tre diversi casi di colonizzazione agricola. Analizza innanzitutto il caso di emigrazione assistita, inserita nei progetti di colonizzazione agricola del governo cileno ma organizzata da una compagnia di privati nel sud del Cile agli inizi del Novecento per poi passare a studiare il caso di emigrazione assistita ma questa volta organizzata da un ente pubblico italiano, l’ICLE (Istituto Commercio e Lavoro Estero), nel secondo dopoguerra, nel centro-nord del Paese. Confronta infine questi due modelli di inserimento «assistito» nel settore agricolo con il modello di inserimento «spontaneo» nella provincia di Tarapacá, alla fine dell’Ottocento, attraverso la catena familiare che sorregge larga parte dell’emigrazione italiana in questo paese. Dall’analisi di Favero emerge che è l’inserimento spontaneo ad avere maggior successo economico sia per la particolare congiuntura geopolitica in cui si realizza, sia perché libero dal vincolo dei condizionamenti imposti e dalle frodi delle compagnie di colonizzazione agricola. La popolazione italiana della provincia di Tarapacá non supera, nel 1907, il migliaio (nel 1885 è di 521 unità, nel 1895 di 854)11 ma è pioniera nell’irrigazione e coltivazione delle oasi, come il Valle de Azapa e sono i cognomi italiani a essere legati all’introduzione dell’irrigazione e coltivazione della vite, dell’olivo, degli agrumi e degli ortaggi e alla loro distribuzione sul mercato. L’originalità dell’iniziativa di introdurre l’allevamento delle mucche da latte in piena regione desertica, coniugata all’acquisto di negozi di generi alimentari, li porta ad avere il monopolio della produzione e distribuzione del latte (ma anche dell’acqua) nell’intera regione e a costruire ingenti fortune.12 Il mio saggio analizza invece il dibattito culturale e politico che si sviluppa in Cile, nel corso dell’Ottocento, sul tema dell’immigrazione europea. Emerge un dato interessante e cioè che pur avendo il Cile, come i paesi limitrofi, seri problemi di popolamento e sfruttamento di estesi territori non abitati, prevale la posizione degli intellettuali e politici dell’epoca favorevole a un’immigrazione selettiva. Vogliono cioè esperti europei di alto livello e manodopera specializzata per aiutare a costruire il giovane stato-nazione. L’utopia è quella di fare del Cile una «piccola Europa», un concentrato delle «qualità migliori» depurate dai «peggiori difetti» presenti nel vecchio continente. Ma non è certo per questo che il flusso emigratorio europeo non acquista mai un carattere di massa. Il governo cileno, pur avendo aperto nel 1882 un ufficio d’immigrazione in Europa, non può competere con il potere di attrazione di paesi come Argentina e Brasile, più facilmente accessibili, che offrono migliori condizioni di viaggio (il governo cileno, a differenza degli altri paesi, non ha mai potuto pagarne interamente le spese) e il miraggio di ottenere, in poco tempo, la proprietà della terra. Alla fine del secolo scorso il settore trainante dell’economia del Paese è il settore delle miniere di salnitro nel Nord ma il clima del deserto e i bassi salari non sono attraenti per gli immigrati europei. L’immigrazione europea, e in modo particolare quella italiana, si seleziona quindi, quasi naturalmente per questa serie di motivi a cui va aggiunta la mancanza di una linea di navigazione diretta tra l’Italia e il Cile.13 Mentre la popolazione totale aumenta tra il 1854 e il 1949 di quasi cinque volte (da 1.313.000 a 5.688.000 ab.), i residenti stranieri passano dall’1,5 per cento del 1854 al 2,2 per cento nel 1949 raggiungendo la punta più alta nel 1907 con il 4,2 per cento, mentre gli italiani in nessun momento arrivano a rappresentare l’1 per cento della popolazione totale, raggiungendo lo 0,40 per cento nel 1907 anno in cui il numero dei residenti italiani (13.023) registra la punta più alta che viene superata soltanto nel 1949 (14.098).14 Giusto per dare il senso delle proporzioni, mentre in Cile nel 1907 i residenti stranieri rappresentano soltanto il 4,2 per cento, nel 1910 in Argentina sono il 77,9 per cento della popolazione totale, in Uruguay il 50 per cento e in Brasile il 21,4 per cento. Se si considerano poi i residenti stranieri disaggregati per nazionalità, si devono distinguere due periodi. Il primo va dal 1854 al 1907 e mostra che tra i gruppi europei più consistenti ci sono i tedeschi, gli inglesi e i francesi, mentre il gruppo degli spagnoli e degli italiani comincia a presentare una qualche consistenza soltanto nel 1885. Dal 1907 al 1949, invece, gli spagnoli e italiani passano a essere i gruppi europei più rappresentati; il numero dei tedeschi si mantiene stabile ma passa al terzo posto, a eccezione dell’anno 1949 in cui si registra un notevole aumento, mentre gli inglesi e i francesi gradualmente diminuiscono.15 A partire dal 1955 il flusso migratorio italiano, dopo il fallimento delle iniziative di colonizzazione agricola, praticamente si interrompe. Nel 1987 la collettività risulta essere composta da 4.710 unità. Il 36 per cento sono italiani di prima generazione, il 38 per cento di seconda e il 25 per cento di terza e quarta generazione.16 Salinas Meza traccia un profilo demografico più analitico. Rintraccia le regioni di provenienza che sono soprattutto, nel periodo 1880-1949, quelle settentrionali, in modo particolare la Liguria, il Piemonte e la Lombardia mentre nel periodo 1950-1985 il Trentino, la Basilicata e l’Abruzzo e chiarisce che, per quanto gli italiani si distribuiscano su tutto il territorio nazionale, le aree di maggior insediamento sono le città portuali e i centri urbani, soprattutto Valparaíso e Santiago. Per quanto poi gli immigrati di provenienza ligure siano marinai e si dedichino al traffico marittimo tra i porti che si affacciano sul Pacifico, da Punta Arenas all’America centrale – Valeria Maino ci racconta in modo molto suggestivo l’attività di armatori e marinai italiani lungo il corso del secolo XIX-17 molti di essi, alla fine dell’Ottocento abbandonano il mare e come la stragrande maggioranza degli italiani, si inseriscono nel settore dei servizi. Infatti la colonia italiana si caratterizza per essere costituita essenzialmente da lavoratori indipendenti: venditori ambulanti, artigiani e commercianti, particolarmente numerosi nel settore alimentare e in quello dei «generi vari». Alcuni di essi si trasformeranno poi, nel corso del Novecento, in piccoli e medi imprenditori industriali, alcuni dei quali diventeranno grandi, soprattutto nel secondo dopoguerra nei settori dell’industria meccanica, alimentare e dell’abbigliamento. Interessante è anche il quadro delle reti matrimoniali che Salinas ricostruisce e da cui risulta che, per quanto la percentuale delle unioni endogamiche risulti alta, quelle esogamiche superano, sin dall’inizio del flusso migratori, il 50 per cento (56 per cento a Valparaíso; il 66 per cento a Concepción). La comunità italiana quindi, risulta essere in Cile la più disponibile all’integrazione via matrimoni di tutte le altre comunità europee.18 Sullo sfondo di una riflessione articolata sui ritmi, modi e caratteristiche del processo d’industrializzazione del Cile dalla seconda metà del XIX secolo agli anni trenta del XX, Baldomero Estrada colloca il contributo degli italiani a tale processo e ne ricostruisce minuziosamente la presenza nei vari settori attraverso l’elaborazione di statistiche molto interessanti. I settori di alcolici e bevande, alimentare, delle confezioni e abbigliamento, della lavorazione del cuoio e delle pelli, dei materiali di costruzione, dei prodotti chimici sono quelli in cui si registra una presenza più consistente di industriali italiani che, fra l’altro, si fanno notare per la loro dinamicità e spirito d’iniziativa. La formazione di capitali all’interno del paese, il carattere familiare delle imprese, le catene migratorie e l’elevato tasso di inserimento sociale definiscono la presenza italiana nell’industria cilena. Estrada sottolinea l’apertura e la disponibilità all’integrazione facendo notare che, a differenza degli altri europei, non si avverte in essi la preoccupazione di fondare istituzioni all’interno della collettività né di svolgere un ruolo importante negli organismi rappresentativi a livello nazionale. La presenza di italiani o di loro discendenti nella Sociedad de Fomento Fabril, una sorta di Unione industriali cilena, non è proporzionata al volume delle loro attività industriali. Essi non sono interessati a costituire una «lobby etnica» e non partecipano alla definizione delle politiche del settore.19 In Cile, a lungo, l’immagine degli italiani non ha avuto segno positivo: essi sono stati vittime, soprattutto nel campo della politica, dello stereotipo che li vedeva esagerati in tutto, caratterizzati dalla disinvoltura, dall’istrionismo, dalla mancanza di solidi principi, dall’opportunismo. Per smentire tali stereotipi, Claudio Rolle ci racconta come in questo paese che ha costruito il suo sistema politico-istituzionale guardando alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Germania e poi agli Stati Uniti come modelli di riferimento, i processi radicali di modernizzazione dello stato e della società sono stati innescati da due discendenti di italiani: Angel Guarello Costa e Arturo Alessandri Palma. Essi hanno introdotto, nella prassi politica, un modo di trattare e concepire il rapporto con il potere che è stato percepito dai cileni come specificamente italiano, ma non più in senso negativo, riscattando così i loro connazionali dagli ingiusti pregiudizi del passato. Angel Guarello, figlio di un marinaio genovese e nipote, per parte di madre, di un industriale italiano, è il fondatore, alla fine del secolo scorso, del Partito democratico e a lungo rimane l’unico deputato, poi senatore e poi ministro di quel partito in epoca parlamentare (1895-1925). La diligenza e rettitudine che lo rendono popolare a Valparaíso come avvocato, lo accompagnano durante tutta la sua carriera politica durante la quale promuove lo sviluppo delle ferrovie sia attraverso la costruzione di nuove linee sia attraverso la legislazione e la regolamentazione del lavoro di questo settore. Il suo impegno nella vita politica locale e nazionale non è mai oscurata da forme di clientelismo legato alla collettività italiana. La figura di Arturo Alessandri, una delle più controverse della storia politica cilena su cui sono state scritte migliaia di pagine, domina la storia del Novecento cileno e ne diventa quasi un mito. Liberale, dopo una lunghissima attività come deputato e senatore viene eletto presidente della Repubblica nel 1920 e subito avvia un processo di radicale trasformazione del ruolo e delle funzioni dello stato che a suo avviso deve diventare agente attivo delle riforme sociali ed economiche che Alessandri sancisce nella Costituzione del 1925. Leader carismatico, apre la strada al protagonismo politico delle masse. In carica per due mandati (1920-25 e 1932-38), sarà il capostipite di una dinastia di politici: i suoi figli infatti copriranno ruoli di grande rilievo sulla scena politica del paese e uno di loro, Jorge, sarà presidente della Repubblica dal 1958 al 1964.20 Per quanto la periodizzazione introdotta dal saggio di Jorge Pinto Rodriguez (1600-1900) si discosta dalla temporalità all’interno della quale si muovono gli altri autori, pure il suo lavoro risulta importante nell’economia complessiva del volume di Favero perché introduce il problema dei rapporti interculturali. Le relazioni interetniche tra italiani e Indios Mapuches vengono analizzate attraverso l’opera di evangelizzazione dei missionari e le resistenze e i rifiuti dei Mapuches, che periodicamente si trasformano in scontri aperti nel corso del secolo XIX, non possono essere compresi se non si fa riferimento alla lunga storia di guerra che li vede capaci di difendere la loro autonomia prima nei confronti degli Incas, poi della corona spagnola e infine del governo cileno che riesce a sconfiggerli e confinarli nelle riserve soltanto alla fine dell’Ottocento.21 Il ricordo, le immagini, le emozioni delle vicende migratorie e infine la rappresentazione nostalgica della patria lontana, costruita attraverso una mescolanza di brandelli di ricordi e informazioni, diventano temi storiografici che meritano di essere indagati. Questo ci suggerisce il saggio, davvero suggestivo, di Paula Zaldivar che, utilizzando la metodologia e le tecniche della storia orale ci propone le storie di vita di quindici donne italiane immigrate in Cile. Pur avendo esperienze comuni, diversi elementi fanno divergere i loro percorsi. Il racconto si snoda sulla base della uguaglianza/diversità facendo i conti con una serie di nodi problematici ancora non risolti dal dibattito storiografico.22 Nel volume che sto utilizzando come filo conduttore di questa sintetica ricostruzione, ai saggi già esaminati e che tratteggiano, a livello nazionale, le caratteristiche generali della presenza degli italiani in Cile, si affiancano altri saggi che analizzano le loro dinamiche e interazioni in tutti gli ambiti della vita del paese ma in contesti spaziali specifici. Si ha così modo di apprezzare sia la «unicità» di alcune esperienze determinate dal particolare contesto geografico in cui si svolgono, sia la «riproposizione» di atteggiamenti, circostanze e situazioni che ritroviamo, immutate, nella provincia di Tarapacá, a Concepción, in Patagonia e Terra del Fuoco. I rispettivi saggi di Julio Pinto Vallejos, di Leonardo Mazzei de Grazia, di Mateo Martinic, pur con tagli e approssimazioni diverse al tema, considerano le vicende degli italiani, il loro costruirsi in collettività etnica ben definita, come parte della storia di realtà territoriali in crescita, tese a costruirsi una identità politica, economica, sociale, culturale e un loro destino.23 Infine, attraverso l’esplorazione delle fonti italiane, soprattutto quelle contenute nell’Archivio storico-diplomatico del Ministero degli affari esteri, Patrizia Salvetti illustra i problemi che i diplomatici segnalano e le immagini che essi offrono della collettività italiana in Cile dalla seconda metà dell’Ottocento agli anni cinquanta del Novecento. Una delle preoccupazioni ricorrenti è quella della «cilenizzazione» della comunità che si manifesta con i prevalenti matrimoni esogamici, con l’automatica acquisizione della cittadinanza cilena per i figli di italiani nati in Cile, per lo scarso uso della lingua italiana. L’ambivalenza del rapporto tra collettività e madrepatria – altra preoccupazione indicata – la si rintraccia da un lato, nelle manifestazioni, almeno verbali, di attaccamento alla patria di origine, dall’altro in un marcato risentimento per essere, o sentirsi, da essa trascurati, se non ignorati. Il caso dell’atteggiamento della colonia durante la Prima guerra mondiale è a questo proposito emblematico: a un’attivissima organizzazione dei comitati pro patria fa riscontro un elevatissimo tasso di renitenza alla chiamata per obblighi militari. Altro momento significativo del contraddittorio rapporto tra comunità e madrepatria è quello della Seconda guerra mondiale. Alla fase di smarrimento e paura che vede durante la guerra gli italiani e i cileni schierati su fronti opposti, seguirà nel dopoguerra, da parte della collettività, un rifiuto dell’Italia nuova, democratica e un attaccamento alla scomparsa dell’Italia fascista che peraltro non si era manifestato durante il fascismo. Secondo Salvetti il personale diplomatico e consolare esprime, nei suoi periodici rapporti al Ministero la sua ammirazione per la singolarità della collettività italiana che, nonostante le inevitabili discordie interne, la notevole «apatia» negli anni del fascismo e le difficoltà del secondo dopoguerra, dimostra una laboriosità, una parsimonia e una mobilità sociale cha la rendono un caso unico in tutta l’America latina o, come viene definita, una «colonia modello».24 Il silenzio degli anni novanta Grande assente, nel volume di Favero è il tema dell’associazionismo, messo nell’agenda dei lavori ma in attesa di essere approfondito. E sono assenti le storie di imprese che hanno dominato, da posizioni quasi monopoliste, il mercato delle confezioni e abbigliamento come Caffarena e Falabella, o la grande azienda vinicola dei Canepa e quella dolciaria dei Costa. Il modello della micro imprenditorialità italiana, oggetto di studio oggi di gran moda in Cile e che vede economisti e funzionari dei ministeri economici venire in Italia a osservarlo da vicino si era già realizzato in Cile, spontaneamente, a partire dall’inizio del Novecento, grazie all’iniziativa degli immigrati italiani. Eppure l’assoluto vuoto storiografico non lo rende visibile e quindi valorizzabile come riferimento per le strategie economiche del presente. Le due esperienze di colonizzazione agricola del secondo dopoguerra ad opera dei trentini nella provincia di La Serena e degli abruzzesi nella provincia di Parral meriterebbero uno studio più attento. Si potrebbe compilare un lungo elenco di temi e problemi accennati fugacemente che, se analizzati sistematicamente, arricchirebbero la riflessione sul ruolo e la funzione svolta dagli italiani in Cile. Eppure, come accennavo all’inizio della presente nota, dopo il fiorire dell’interesse sull’immigrazione italiana, gli anni novanta rappresentano, nella sostanza, una battuta d’arresto. Da un sintetico sguardo d’insieme risulta che degli autori sin qui citati soltanto Baldomero Estrada ha continuato a interessarsi del tema senza però offrire contributi davvero originali rispetto a quelli già segnalati. Un suo articolo pubblicato dalla rivista dell’Università del Cile, Cuadernos de Historia,25 ripropone l’analisi contenuta nel saggio del volume a cura di Favero, mentre più interessante si dimostra la lettura del suo lavoro sui conflitti sociali a Valparaíso alla fine dell’Ottocento. Le difficoltà che i piccoli commercianti italiani dovettero affrontare durante la crisi economica che fece esplodere gli scioperi generali del 1890 e quello del 1903 sono rivisitate attraverso l’analisi della stampa italiana di Valparaíso.26 Paula Zaldivar trasforma in libro il suo saggio e lo arricchisce di un consistente apparato critico,27 mentre il volume di Silvia Mezzano Lopetegui, di carattere compilativo, ripropone le caratteristiche generali dell’immigrazione italiana senza approfondire alcun aspetto in particolare.28 La casa editrice Presenza, della collettività italiana, pubblica la tesi di laurea di Claudio Martini sulla colonia di Parral. E’forse l’unico lavoro che nel decennio preso in esame offre un approfondimento originale delle problematiche che qui interessano in quanto ricostruisce, con un certo impegno, un caso di colonizzazione agricola del secondo dopoguerra. Le peripezie di venti famiglie provenienti dall’Abruzzo all’inizio degli anni cinquanta e installate nel latifondo San Manuel de Parral, a sud di Santiago, il fallimento del progetto e il conseguente esodo nei centri urbani sono raccontate con dovizia di particolari grazie anche all’utilizzazione di fonti orali.29 I lavori prodotti da alcuni membri della collettività, professionisti il cui mestiere non è quello dello storico, possono risultare utili come fonti d’informazione ma sono privi di qualsiasi rilevanza storiografica. Un elenco delle associazioni italiane divise in «esistenti» e «disciolte» e un elenco di nomi di strade e luoghi pubblici intestati a italiani ci è offerto da Luis Niziglia,30 mentre Pablo Massone Capurro racconta, in modo agiografico, la storia e le attività delle compagnie di pompieri italiani di Valparaíso, Iquique, Talcahuano, Santiago e Copiapò.31 Infine, questa volta pubblicato in Italia, appare un volume sui lucani in Cile. Si tratta di una pubblicazione in cui si mescolano dati di vario tipo, dalle caratteristiche della Lucania alle impressioni più varie sulla storia, gli usi, i costumi e il folclore del Cile ma che racconta davvero poco sul tema specifico dell’emigrazione lucana.32 Certamente il rientro in Italia di Favero e l’affievolirsi dell’interesse della collettività italiana per la costruzione dell’archivio menzionato nelle prime pagine di questa nota sono tra i motivi che spiegano la scomparsa dell’interesse per il tema dell’immigrazione che non riguarda però soltanto la collettività italiana, ma anche quelle degli altri paesi europei. In realtà, a me sembra che siano ancora una volta le vicende politiche del paese che determinano il mutare degli interessi degli storici. Nel 1990, il regime militare, dopo diciassette anni di sanguinosa dittatura, lascia il posto a un regime civile rappresentativo con il democristiano Patricio Aylwin alla presidenza della Repubblica. I problemi della transizione democratica e della riconciliazione nazionale pongono urgentemente all’attenzione degli storici il bisogno di rivisitare i nodi più dolorosi del recente passato e di rilanciare il senso di un’identità nazionale possibilmente condivisa. La produzione degli storici cileni contemporaneisti degli ultimi anni riflettono in modo inequivocabile questo bisogno che spiega, in buona misura, il calo d’interesse attuale per il tema dell’immigrazione. L’uso pubblico della storia che nel Cile di questi anni è il fenomeno tra i più macroscopici che nel dibattito culturale si può osservare, lascia erroneamente in ombra temi del passato che apparentemente non sono immediatamente funzionali al presente che si sta vivendo. Tornando al tema dell’immigrazione, l’unica collettività che registra un interesse storiografico è quella araba forse perché in quest’ultimo decennio ha rapidamente conquistato posizioni di quasi monopolio nei settori finanziario, bancario e industriale del paese. L’invito a partecipare a una ricerca che si proponeva di esplorare, in chiave comparativa, il «capitale etnico» delle minoranze nella costruzione di una «cultura imprenditoriale», ha visto soltanto l’adesione di una storica, appunto, della collettività araba e di uno storico di quella tedesca. Su quella italiana, nessuno aveva nulla da dire.33 |