Vorrei iniziare il mio commento con il riconoscimento del fatto che, comunque la pensiamo riguardo alla nostra etnicità, il contributo di Richard Alba rispecchia fedelmente la realtà. In due modi: in primo luogo, coincide con la mia esperienza personale di italoamericano e specialmente con il modo in cui i miei figli hanno vissuto la loro etnicità; in secondo luogo, è in linea con la letteratura sociologica di cui sono a conoscenza.
Qualcuno forse preferisce non sentire quello che Alba ha da dire riguardo al «crepuscolo della nostra etnicità», per usare la sua stessa delicata espressione. Ma di crepuscolo si tratta, sebbene sia protratto nel tempo e per molti, se non per la maggior parte di noi, sia un crepuscolo perlopiù piacevole. In effetti, riflettendo sull'impiego del termine da parte di Alba, mi sono accorto che nel mio vocabolario «crepuscolo» è una parola positiva. Per me il crepuscolo implica colori tenui, chiarore prolungato, tramonti indimenticabili, atmosfera romantica. E forse è soprattutto quest' ultimo concetto quello che maggiormente si ricollega al modo in cui ora stiamo vivendo la nostra etnicità.
Allo stesso tempo è importante riconoscere l'inevitabile sapore dolceamaro che tale crepuscolo ha per noi. Per spiegare ciò che intendo, consentitemi di far riferimento a un breve passo tratto da una lettera in cui una delle mie figlie descrive il funerale del nonno alla sorella che non aveva potuto prendervi parte. L'autrice della lettera ha visitato l'Italia più volte, vi ha anche vissuto, e parla bene l'italiano; risiede a New York ed è molto sensibile al fattore etnico:
Negli anziani e fragili parenti riuniti nella camera ardente ho visto una generazione di italoamericani il cui legame con il vecchio paese non esiste più. Avevano lasciato una nazione in miseria per venire in America: ora, di quelli che si erano imbarcati a quei tempi ne sono rimasti pochi. E presto anche loro moriranno, le vecchie case di famiglia saranno messe in vendita e i legami con posti come New Haven vivranno soltanto nei nostri ricordi.
Alba rende bene l'idea quando dice che l'affinità etnica percepita dagli italoamericani e da altri americani di diversa origine è tale da consentire loro di asserire la propria eredità pur mantenendoli saldamente collocati nella società americana. Tenendo presente che queste persone più spesso sposano partner di gruppi etnici diversi dal loro, che vivono in quartieri abitati da individui di varie etnie o comunque in aree molto eterogenee, che fanno parte di associazioni di volontariato senza finalità o principi riconducibili a questioni etniche e che sono pervenuti a un alto livello di assimilazione, allora in quale modo tali gruppi attestano la loro identità etnica? I funerali stanno forse diventando eventi privilegiati in cui queste persone possono riaffermare la loro etnicità, anche se nella vita quotidiana ne prendono le distanze?
Nello scritto in questione Alba ripetutamente dichiara che mentre noi ci avviamo verso il crepuscolo della nostra etnicità, gli italiani mantengono un senso della propria identità più forte rispetto a tutti gli altri gruppi etnici bianchi in Europa. Nel contempo, la loro assimilazione nella società americana è quasi ugualmente rapida e agevole di quella di altri immigrati europei. Ciò induce Alba a concludere che la teoria dell'assimilazione non necessariamente implica la scomparsa dell'identità etnica. Di fatto, può darsi che uno dei più importanti contributi che le etnie europee hanno da offrire alla nostra società sia proprio questo: noi possiamo essere integrati nella società nei modi (culturale e strutturale) che sono vitali per la salute e il benessere della società stessa senza dover negare la nostra etnicità e senza vederla denigrata da altri.
In retrospettiva, il fatto di essere stato ben consapevole della mia etnicità, italoamericano di terza generazione, quando ero matricola a Yale è una testimonianza delle tensioni e dei pregiudizi razziali degli anni trenta e quaranta. Il fatto che la mia figlia minore, studentessa a Yale, potesse manifestare apertamente la sua identità etnica con orgoglio e soddisfazione durante il rettorato di Bart Giamatti riflette quanto il processo di integrazione fosse progredito nell'arco di quarant'anni. Riflette anche quanto oggi il senso della propria identità etnica sia meno rilevante, se si è bianchi europei.
Dopo aver asserito l'avvenuta assimilazione nel più ampio gruppo di bianchi europei, Alba non esita a riconoscere che resistono alcune sacche di identificazione etnica basate sulla cultura tradizionale e sulle condizioni strutturali. Queste sacche continuano a produrre conseguenze nel comportamento. Ad esempio, Richard Gambino ha riscontrato una quantità di differenze tra gli studenti italoamericani e quelli di altre etnie iscritti alla City University di New York (Gambino, 1987). In particolare notava che le studentesse italoamericane si sentivano meno libere nei comportamenti sociali rispetto alle studentesse di qualsiasi altro gruppo etnico. Come conseguenza esse «soffrivano di stress e di ansia in misura maggiore rispetto ai maschi della stessa etnia e ai maschi e alle femmine in generale».
Una delle intuizioni più interessanti e convincenti nel contributo di Alba ha a che vedere con la relazione tra identità ed etnicità. Alba individua nell'identità etnica quella che definisce una «funzione di rifornimento»: le persone possono avvalersi di opportunità culturali e strutturali che forniscono le identità attraverso le quali le persone stesse possono esprimere o vivere la propria etnicità. Tra le più importanti vi sono le riunioni familiari, i pranzi o le cene, le feste, gli incontri presso i circoli e i quartieri abitati da individui dello stesso gruppo etnico.
Esiste un altro aspetto della «funzione di rifornimento» che Alba non cita e che riguarda le opportunità concrete di assimilazione attraverso l'assunzione degli usi e dei costumi americani. Sembra evidente che nell'arco di un secolo gli italoamericani, così come altri americani di origine europea, si siano trovati più spesso di fronte a opportunità finalizzate all'assimilazione e di genere culturale-strutturale erogate dalla «funzione di rifornimento» anziché a opportunità puramente interetniche. E continuerà a essere così, via via che ci avviciniamo inevitabilmente verso il crepuscolo della nostra etnicità. Inoltre, precisa Alba, la regione nord-orientale del paese resta importante per gli italoamericani in quanto dispone del maggior numero di opportunità della «funzione di rifornimento» atte a sostenere l'identità etnica italiana. Alba immagina un futuro in cui i bianchi europei manifesteranno le loro identità etniche con modalità prive di interferenze con la vita quotidiana e «senza ingerenze nella mescolanza etnica nel mondo sociale della maggior parte dei bianchi».
Un interessante esempio delle forme di attuazione di questo processo è evidenziato in un articolo di Thomas Shaffer (1992), professore di giurisprudenza alla University of Notre Dame. Shaffer non è un italoamericano, ma si è occupato di italoamericani per motivi professionali. Le conclusioni a cui giunge nel suo studio sugli italoamericani laureatisi presso la Notre Dame Law School sono istruttive:
Riassumendo, dunque, distinguo tre effetti del seguire i corsi di giurisprudenza presso la Notre Dame Law School che ritengo essere tutti reazioni allo sforzo della Chiesa irlandese di assimilare gli ultimi immigrati sia nel patriottico melting pot americano (Dio, Nazione, Notre Dame) sia nella Chiesa irlandese stessa. Alcuni dei nostri avvocati italoamericani vennero assimilati o almeno vennero orientati qui alla direzione che seguirono una volta laureati. «Volevo far crescere i miei figli dove potessero avere ottime opportunità di istruzione. Buone possibilità di avere dei clienti, per me; mi piaceva trovarmi a metà strada fra le proposte culturali offerte da Boston e da New York, e, più in generale, l'atmosfera rurale... pensavo che queste fossero le cose di cui avevo bisogno... I miei geni sono quasi tutto ciò che è rimasto... quel poco che resta in me quasi certamente morirà con me. Con i miei figli, la trasformazione sarà completa. Tutto ciò che essi possiedono è il patrimonio genetico, ed è un patrimonio diluito... Mi sento un po' speciale perché appartengo a una specie in pericolo di estinzione.
Un secondo gruppo resistette all'assimilazione, sebbene non sempre in modo consapevole; rivendicavano una più ampia e comprensiva prospettiva derivante dall'aver studiato alla Notre Dame Law School, da cui però uscirono per diventare avvocati italoamericani.
Sono diventato più consapevole della mia eredità per essere più comprensivo nei confronti delle azioni di altri gruppi etnici e più critico nei confronti delle mie. Ho imparato ad apprezzare ciò che avevo e ciò che ero, ma in una prospettiva diversa... È stata una sensazione meravigliosa quella di ritornare nei panni di avvocato. L'aver studiato alla Notre Dame mi ha procurato molta influenza e molta considerazione in questo angolo del mondo, specialmente da parte degli italoamericani, dai quali ho ottenuto la maggior parte dei casi di cui mi sono occupato nei primi anni della mia carriera.
Il terzo gruppo, invece, impiegò la Notre Dame Law School come un rifugio contemplativo in cui scoprire, e in un certo senso scegliere, quella che viene definita la propria «italianità»:
L'interesse nell'etnicità, nelle nostre radici, non è soltanto un fatto di tendenza. Dimostra la crescente maturità dell'esperienza americana: rendere omaggio alla positività della tua eredità. Non c'è più alcun bisogno di fare lo spavaldo per difendersi dall'America. Ora puoi essere italiano senza per questo essere meno americano. Noi italoamericani al di sotto dei 50 anni «non sentiamo più il bisogno di essere protetti in terra straniera. Siamo felici di essere americani».
Un elemento potenzialmente rilevante citato da Alba, ma messo in luce dal resoconto di Shaffer, è l'influenza della Chiesa irlandese sugli italoamericani nel processo di assimilazione.
Infine, vorrei spendere qualche parola sulla privatizzazione dell'etnicità, per usare un'espressione di Alba, il quale si riferisce al fatto che le etnie bianche possono ormai decidere in quale misura vogliono essere etniche. Intesa in questo senso, l'etnicità è diventata parte di quell'individualismo che ha permeato in modo preminente la vita degli americani nel corso degli ultimi dodici-quindici anni. Si tratta di un individualismo privo del vecchio significato di responsabilità sociale e di interesse per il bene comune e per la comunità in senso più ampio.
Tutto ciò mi porta alle seguenti considerazioni. In primo luogo, gli italoamericani delle aree periferiche condividono gli stessi valori e gli stessi stili di vita degli irlandesi e degli altri americani che vivono nello stesso territorio; accettano il valore della tolleranza e del diritto del prossimo in quanto individuo di fruire di ciò di cui essi stessi sono beneficiari; accettano le strutture della società nell'ambito dell'occupazione, della politica e soprattutto della giustizia e dell'ordine pubblico; inoltre, per quanto riguarda la partecipazione alla vita della comunità parrocchiale, gli italoamericani non si differenziano dagli altri americani, il che è in certo modo un chiaro segnale della loro assimilazione. In secondo luogo, mi pare di poter affermare che gli italoamericani appartenenti al ceto medio residenti nelle aree periferiche sono culturalmente e strutturalmente più simili ai loro vicini territoriali che agli italoamericani che vivono nei quartieri a forte concentrazione di individui dello stesso gruppo etnico e nei ghetti delle città principali.
Ciò che dobbiamo fare è valutare le conseguenze dell'assimilazione degli italoamericani nella società americana nella misura in cui questo processo si è attuato. Non può forse darsi che, nell'osservare noi stessi sempre più da vicino, abbiamo perso di vista il significato dei mutamenti che hanno reso possibile la realizzazione delle aree suburbane americane? Inavvertitamente o no, può darsi che siamo diventati parte di un sistema che rende sempre più difficile agli abitanti dei ghetti delle città principali un accesso adeguato alle opportunità offerte dalla «funzione di rifornimento» che hanno permesso la nostra integrazione.
Per quanto mi riguarda, dunque, una delle preoccupazioni principali conseguenti al diventare parte della grande mescolanza etnica di bianchi europei è la perdita del senso di responsabilità verso la comunità allargata. Forse l'identità etnica italiana è sempre stata strettamente limitata alla famiglia e al paese, e non si è mai del tutto ben integrata all'interessamento cattolico, universale, nei confronti del prossimo. In questo senso, la privatizzazione del «sé» che domina le nostre vite non ci attrezza in modo adeguato per affrontare il futuro.
Che cosa possiamo imparare dalla nostra esperienza etnica? In qual modo utilizziamo la nostra storia per aiutare noi stessi a collocare contestualmente i viaggi di Colombo? Dopo tutto, le popolazioni indigene americane erano già qui al suo arrivo; i neri sono qui da molto più tempo rispetto agli europei; gli ispanici sono arrivati assieme a lui, e spesso sono il risultato della mescolanza con le popolazioni native; soltanto gli americani di origine asiatica sono approdati qui in tempi più recenti.
Secondo Michael Novak i bianchi europei sono resistenti alla fusione. Sarebbe un'amara ironia della sorte se la storia dovesse documentare che le etnie bianche europee si sono rivelate le più pronte a fondersi, ma hanno inizialmente ignorato la condizione degli indiani d'America, dei neri, degli ispanici e degli americani di origine asiatica nella lotta per integrarsi nella società e per unirsi a loro nella creazione di un popolo interdipendente. La sfida che ci viene lanciata, dunque, è quella di sollevarci al di sopra dell'angusta visione dei nostri conseguimenti in quanto etnie assimilate, e di tendere una mano per aiutare altri a godere dei frutti di questa società tanto composita..
Riferimenti bibliografici
Gambino, Richard, «Italian-American Studies and Italian-Americans at the City University of New York: Report and Recommendations», New York, Italian American Institute, City University of New York, 1987.
Shaffer, Thomas, Outsider, manoscritto non pubblicato, Notre Dame (Ind.), University of Notre Dame Law School, 1992.