Dal 14 dicembre al 17 marzo il Kreuzberg Museum di Berlino ha ospitato la mostra La face cachée des mots. Nata in occasione della 12th International Conference on Migration and Democracy svoltasi in Lussemburgo nel giugno 2012, la mostra è organizzata dal Centre de Documentation sur les Migrations Humaines di Dudelange in collaborazione con altri istituti di ricerca.
Il progetto di impaginare una mostra sul rapporto fra democrazia e migrazioni potrebbe suonare, di primo acchito, molto ambizioso. Come tradurre in immagini un tema tanto sfaccettato senza cadere nella banalità o, peggio, nella demagogia?
La pletora di mostre sul tema delle migrazioni che sta attraversando l’Europa solleva una serie di domande sul ruolo della rappresentazione, sul potenziale anticipatorio delle esposizioni rispetto alla presa in carico da parte di istituzioni per natura «statiche» come i musei, e anche, si potrebbe aggiungere, su un possibile rischio di assuefazione al tema. Resta, tuttavia, il fatto che storicamente le mostre rappresentano il luogo in cui sperimentare con libertà temi, possibilità espressive, forme di produzione che il museo, e la società nel suo complesso, accoglie spesso con ritardo, e con minore freschezza.
La mostra è anche il luogo in cui si esprimono le riflessioni dei molti centri di ricerca sulle migrazioni presenti in Europa, e in questo senso rappresenta uno strumento importante, condensando punti di vista spesso molto aggiornati e, in alcuni casi, mettendo a frutto i rapporti con le comunità di un determinato territorio attraverso forme di scambio e partecipazione.
La sfida, in questo caso, è stata quella di raccontare attraverso la fotografia non i luoghi di vita, ma le istanze di un certo numero di persone, accomunate fra loro dal fatto di essere cittadini migranti e artisti residenti in Lussemburgo. Il risultato è una mostra fotografica che si percorre come si leggerebbe un libro disponibile a vari livelli di ricezione, da quello più immediato, legato alla qualità delle immagini, a quello più profondo, in cui confluiscono contenuti biografici, artistici, politici.
Agli artisti è stato chiesto di portare un contenuto di parole (scritte, recitate, cantate, mimate) che, «messe in scena», sono divenute una serie di ritratti grazie all’obiettivo del fotografo di origine portoghese Paulo Lobo. Lo sfondo comune a tutti gli scatti – la piscina di Dudelange, destinata alla demolizione, metafora di un’Europa indebolita e invecchiata – uniforma visivamente la serie, accentuando la componente straniante e paradossale.
Le parole che accompagnano i ritratti non sono mai semplici «manifesti» o proclami. Il regista di origine egiziana Adolf El Assal, per esempio, ha scelto una frase di Orson Wells che ha ispirato un suo cortometraggio («We are born alone, we live alone, we die alone. Only through our love and friendship can we create the illusion for the moment that we’re not alone»); il poeta Antoine Cassar ha citato un passo della sua opera in forma di «anti-passaporto» («Il est à toi / ce passeport / pour tous les peuples / avec un drapeau arc-en-ciel»); il rapper Alain Tshinza si è fatto ritrarre contro un angolo della piscina sotto la scritta «Point de rencontre», mentre la performer Sascha Ley si è circondata di brevi frasi tratte da una canzone dedicata a New York, la più multiculturale delle città («Skyscraper scrapes sky’s paper / All blue paint all over you and all over me / We’re flying, we’re gliding / We’re free»).
Non siamo nell’ambito della street art o della comunicazione politica tout-court: si tratta piuttosto di sollecitazioni, ora più esplicite ora più sottili, a compiere la spola fra storia personale e fenomeni collettivi, fra il portato del singolo e la porzione di storia che questo evidenzia.
Anna Chiara Cimoli