L’iscrizione della pietra tombale di Edward I. Koch, l’ex sindaco di New York recentemente scomparso, riporta la citazione delle ultime parole di Daniel Pearl, il giornalista del «Wall Street Journal» decapitato da terroristi islamici nel 2002: «My father is Jewish, my mother is Jewish, I am Jewish». Sarebbe difficile trovare un’analoga esternazione della propria identità sulla sepoltura di un italoamericano. A differenza dell’esperienza degli ebrei statunitensi, infatti, la popolazione americana di origine italiana ha sempre avuto un rapporto complesso e persino contrastato con il proprio senso dell’appartenenza. Se gli ebrei sono ormai convinti da tempo che la loro cultura sia parte integrante e imprescindibile di quella statunitense, sebbene abbiano subito manifestazioni mai del tutto sopite di antisemitismo nella loro patria di adozione, spesso gli italoamericani risultano ancora oggi affetti da un’ansietà di status che li induce a rifugiarsi nel mimetismo etnico, oppure a denotare una marcata ipersensibilità nei confronti di presunte forme di intolleranza e di pregiudizio anti-italiane. Così, da un lato, rivendicano una completa confluenza – attestata, tra l’altro, da una serie di parametri socio-economici quali reddito medio, livello di istruzione e attività professionale – in quell’America «bianca» di indistinta ascendenza europea che li aveva inizialmente rifiutati o marginalizzati almeno fino alla Seconda guerra mondiale; dall’altro, per esempio, danno vita a periodiche campagne contro gli stereotipi che continuano ad associarli alla criminalità organizzata. Tale ambivalenza ha trovato un’ampia eco nel campo degli Italian American studies, dove l’ipotesi del definitivo superamento di un’identità legata alla terra d’origine nel corso della seconda metà del Novecento, sostenuta da sociologi come Richard Alba e Herbert Gans, è stata contestata da storici quali Rudolph J. Vecoli e Matthew Frye Jacobson. Questi ultimi, infatti, per citare un’espressione proprio di Jacobson (Roots Too. White Ethnic Revival in Post-Civil Rights America, Cambridge, Harvard University Press, 2006), hanno dimostrato la sopravvivenza di forti radici etniche tra gli italoamericani anche dopo la polarizzazione degli Stati Uniti sulla base della collocazione razziale in coincidenza con la radicalizzazione delle lotte degli afroamericani attorno alla metà degli anni sessanta dello scorso secolo.
Alla luce di tale dibattito è parsa quanto mai opportuna la scelta della Italian American Studies Association di dedicare la propria quarantacinquesima conferenza annuale a una riflessione su cosa sia l’America «italiana» e su come si articoli in una società pluralista quale quella statunitense. Coordinata da Stanislao Pugliese, l’assise ha affrontato la questione da un ventaglio di prospettive (storica, sociologica, antropologica, letteraria), che – pur senza aver ancora raggiunto l’interdisciplinarietà nell’approccio alla ricerca, salvo in pochi casi sporadici – riflette la molteplicità degli ambiti disciplinari che è andata sempre più caratterizzando i membri di questa organizzazione negli anni più recenti, a tal punto da indurla a mutare la propria denominazione rispetto all’originaria American Italian Historical Association.
Particolare interesse ha destato l’America «italiana» contemporanea, con le relazioni di William Egelman sul consolidamento della presenza degli italoamericani nei sobborghi di New York City (contee di Nassau, Suffolk e Worcester) a partire dagli anni novanta del Novecento, di Madeline Crocitto sul loro inserimento nei vertici delle corporation e dell’imprenditoria, di Angelyn Balodimas-Bartolomei sul senso dell’appartenenza in un campione di individui di seconda e terza generazione a Chicago, nonché di Denise Scannell-Guida sulle numerose variabili della formazione dell’identità in una lettura teoretica ispirata a Jean Gebser e Hans-Georg Gadamer. Di impianto prettamente storico sono stati, invece, i contributi di Salvatore LaGumina su come gli italoamericani della parrocchia di St. Lucy a Brooklyn vollero dimostrare la propria lealtà agli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, di Edward Marucci sull’inserimento nella società d’adozione da parte di Joseph Biaggio, il primo immigrato italiano a giungere nella zona di Rochester, e di Teresa Fava Thomas su Sarah Wood Moore (1846-1911) e sul suo metodo basato sull’offerta di istruzione – soprattutto linguistica – agli adulti quale strumento per favorirne l’assimilazione, sottraendoli al controllo e allo sfruttamento dei «padroni» che ne ostacolavano l’inserimento nella società statunitense.
Altre relazioni hanno messo in luce le articolazioni interne alle collettività italoamericane in conseguenza dei diversi tempi di arrivo dei loro membri. Per esempio, Marie Saccomando Coppola ha mostrato come la sopravvivenza dei dialetti natali tra gli immigrati giunti all’inizio del Novecento e il ricorso all’italiano standard da parte di coloro che si trasferirono negli Stati Uniti nel secondo dopoguerra abbiano portato allo sviluppo di una identità diversa in base alle differenze linguistiche. In modo analogo, Maria Susanna Garroni si è soffermata sui dissimili canali di americanizzazione degli immigrati insediatisi a Buffalo dopo il Secondo conflitto mondiale rispetto alle modalità di chi li aveva preceduti prima della guerra.
Una conclusione comune alla maggior parte degli interventi è stata ribadire come l’identità degli italoamericani sia stata in passato e resti tuttora l’esito di una costruzione socio-culturale le cui caratteristiche sono mutate nel tempo. Ciò è risultato non solo dalle relazioni di taglio storico, come l’intervento di Tommaso Caiazza sul ricambio della leadership nella comunità di San Francisco in coincidenza con l’ingresso degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale e il contributo di Bénédicte Deschamps sull’uso della lingua nei giornali italoamericani quale specchio dell’identità etnica del pubblico dei lettori e del tentativo di forgiarla da parte dei responsabili dei periodici. Tale dinamica è emersa anche dalle relazioni di impostazione letteraria, come quella di Dennis Barone sulla fluidità identitaria nelle protagoniste femminili in Umbertina di Helen Barolini e Vita di Melania Mazzucco.
La rielaborazione dell’identità italoamericana è avvenuta anche nel contesto dell’interazione con altri gruppi etno-razziali. Da questo punto di vista, sarebbe stata auspicabile una maggiore attenzione per i rapporti degli immigrati italiani e dei loro discendenti con membri di altre minoranze. Invece, pochi interventi – come nel caso degli accenni alle relazioni tra italoamericani e irlandesi nel contributo di Judith Pistacchio Besette sulla comunità di North Providence negli anni quaranta del Novecento – hanno denotato questo approccio. Infatti, come nel caso dell’interdisciplinarità, anche la prospettiva interetnica e interrazziale continua a restare poco sviluppata nell’ambito degli Italian American studies.
Stefano Luconi