Come è noto, gli italiani giunti negli Stati Uniti nei decenni dell’immigrazione di massa, tra la fine dell’Ottocento e l’immediato primo dopoguerra, soprattutto nel Sud furono frequentemente equiparati agli afroamericani e si videro spesso negata la piena appartenenza alla razza bianca. Sulla base di questa esperienza originaria, la storiografia ha teso a porre l’acquisizione di un’identità «bianca» da parte degli italoamericani in relazione alla loro condivisione di stereotipi razzisti e a una presa di distanza dalla comunità nera che, manifestatasi già durante la Seconda guerra mondiale, si sarebbe accentuata alla metà degli anni sessanta del Novecento come reazione al diffondersi di Black Power. Tranne alcune eccezioni, tale interpretazione ha generalmente lasciato insoddisfatti soprattutto i cultori di storia etnica di ascendenza italiana. Costoro, da un lato, hanno messo in discussione il presunto patto faustiano per il quale gli italoamericani avrebbero dovuto diventare razzisti per integrarsi nella società statunitense, sottolineando in particolare che la sopravvivenza di stereotipi anti-italiani perfino ai nostri giorni attesterebbe la permanenza dei membri di questa minoranza nazionale in una condizione di marginalità. Dall’altro hanno rilevato come la risposta a Black Power abbia provocato un risveglio del senso dell’appartenenza etnica, che avrebbe tratto ispirazione dall’orgoglio e dalle rivendicazioni degli afroamericani, anziché rappresentare un ulteriore stimolo per sentirsi parte del mainstream «bianco» degli Stati Uniti.
Il convegno svoltosi al Calandra Institute ha rappresentato un’importante occasione non soltanto per dibattere su queste teorie, ma anche per presentare ipotesi alternative. Sono soprattutto queste ultime a meritare particolare attenzione. Per esempio, le relazioni di James Tracy e di Gil Faggiani hanno ricostruito casi di collaborazione nella prima metà degli anni settanta del Novecento tra gruppi radicali animati da italoamericani, come il White Lightning del Bronx, e la comunità afroamericana. In modo simile, Lynn Lewis ha affermato che le attività dei movimenti di difesa degli inquilini dimostrerebbero ancora oggi come la whiteness crei un falso senso di solidarietà tra gli epigoni degli immigrati di ceto operaio che troverebbe, in realtà, una reale espressione solo nell’appartenenza di classe. Invece Danielle Battisti ha messo in discussione la tesi che sia stato il Black Power a stimolare la presa di coscienza etnica degli italoamericani e ha suggerito che la rinascita dell’orgoglio per l’ascendenza nazionale tra i membri delle Little Italies sarebbe riconducibile alla campagna contro la legislazione restrittiva sull’immigrazione condotta da organizzazioni come l’American Committee on Italian Migration già all’inizio degli anni cinquanta.
Un intervento di taglio più convenzionale è stato quello di James S. Pula. Constatato che italiani, ebrei e polacchi, al pari dei neri, erano il bersaglio di accordi contrattuali che impedivano ai membri di tali gruppi di affittare o acquistare proprietà immobiliari in determinati quartieri residenziali nello upstate New York ancora negli anni cinquanta del Novecento, Pula ha posticipato i tempi dell’ingresso nel mainstream «bianco» da parte delle minoranze etniche europee di ascendenza non anglosassone.
Altre relazioni si sono occupate di come le rielaborazioni della categoria della razza siano state utilizzate, da un lato, dagli italoamericani per farsi accettare dalla società statunitense e, dall’altro, dall’élite anglosassone per rifiutarli. Peter Vellon ha esaminato l’immagine dei Native Americans negli articoli del Progresso Italo-Americano alla fine dell’Ottocento e si è soffermato su come questo quotidiano abbia rappresentato le popolazioni autoctone quali selvaggi in modo da costruire, per contrasto, un’immagine positiva degli immigrati italiani. Di contro, Bénédicte Deschamps ha evidenziato come, nello stesso periodo, l’attenzione della stampa etnica italoamericana per i fatti di cronaca nera nella Little Italy di New York abbia contribuito alla diffusione di stereotipi negativi sugli immigrati italiani quali individui violenti e dediti al crimine che, enfatizzati dai giornali in lingua inglese, concorsero ad alimentare la tesi della loro affinità con gli afroamericani, un’altra minoranza di cui si sosteneva la predisposizione a commettere delitti.
Nel momento in cui, secondo alcuni commentatori, la presidenza di Barack Obama avrebbe segnato l’avvento di un’America «post-razziale» (si veda per esempio, Enrico Beltramini, L’America post-razziale. Razza, politica e religione dalla schiavitù a Obama, Torino, Einaudi, 2010), sono state quasi inevitabili alcune relazioni sull’odierna rilevanza dell’appartenenza razziale. In questo ambito, per esempio, Donna M. Chirico ha mostrato come a New York gli italoamericani rivelino oggi di privilegiare l’etnia quale carattere identificativo personale, anziché la razza, a tal punto che quest’ultima risulta sopravanzata anche dal genere e dal ceto sociale.
È stata pure in parte curata la prospettiva comparativa. Andonis Piperoglou ha ricordato come anche in Australia l’indesiderabilità degli italiani, in quanto individui di ascendenza mediterranea in una società dominata dagli anglosassoni, condusse a mettere in discussione il loro essere «bianchi», in particolare nel periodo tra i due conflitti mondiali. Invece, Krysta Pandolfi ha sostenuto che in Canada, dove l’immigrazione italiana ha assunto una dimensione particolarmente rilevante solo dopo la Seconda guerra mondiale, gli italocanadesi manifestino soprattutto un’identità etnica piuttosto che un senso dell’appartenenza legato alla razza.
Nel contesto della comparazione, un’attenzione consistente è stata rivolta agli statunitensi di ascendenza greca, con relazioni – tra gli altri – di Yiorgos Anagnostou, Dan Georgakas e Constantine G. Hatzidimitriou. Il caso della trasformazione dell’identità razziale dei grecoamericani ha, in effetti, presentato numerose analogie con l’esperienza degli italoamericani. Non per nulla, nel testo che può essere considerato uno dei manifesti dell’ethnic revival (The Rise of the Unmeltable Ethnics. Politics and Culture in the Seventies, New York, Macmillan, 1972), Robert Novak fece riferimento alle similitudini nelle esperienze di questi due gruppi per incitare i loro membri a farsi gli iniziatori – insieme a slavi e polacchi – di una coalizione di americani originari dell’Europa Orientale e Mediterranea che avrebbe dovuto contrapporsi all’America bianca, anglosassone e protestante. Tuttavia, nel convegno, le vicende dei grecoamericani sono state esaminate come un qualcosa di a sé stante, anziché venire analizzate nelle loro interazioni con gli italoamericani, secondo il suggerimento – neppure troppo implicito – dato a suo tempo da Novak. Tale compartimentazione della ricerca è purtroppo un esempio a suo modo emblematico delle attuali difficoltà degli studi etnici statunitensi, che stentano a superare gli steccati della storia delle singole minoranze nazionali per aprirsi a un approccio pienamente comparativo.
Stefano Luconi