Cucina, moda e cinematografia rappresentano da tempo presenze iconiche della cultura italiana negli Stati Uniti che sono state espresse anche attraverso gli immigrati italiani e i loro discendenti. In tali ambiti, infatti, gli italoamericani hanno svolto, e svolgono tuttora, molteplici funzioni quali fruitori nella veste di consumatori, soggetti e realizzatori della produzione (per esempio, nel settore del cinema) nonché mediatori culturali in generale tra la terra ancestrale e la società d’adozione. In particolare, la costruzione di un’immagine positiva dell’Italia agli occhi degli statunitensi, grazie all’apprezzamento del mercato americano per alcuni prodotti italiani, è servita di riflesso a conferire prestigio agli italoamericani, contribuendo in parte a riscattarli dai pregiudizi che per decenni hanno afflitto il loro gruppo etnico. Questi aspetti e le loro implicazioni hanno ricevuto ampio risalto nella conferenza annuale del John D. Calandra Italian American Institute, giunta alla sua quarta edizione.
Fin dalla relazione introduttiva di John Mariani sulla diffusione della cucina italiana nel mondo, il cibo è stato preso in considerazione soprattutto quale forma di espressione identitaria, tanto nel consumo quanto nella preparazione. Robert Oppedisano, per esempio, ha mostrato come l’impiego dell’olio d’oliva nell’alimentazione da parte degli emigrati siciliani abbia rappresentato un elemento di marcato richiamo alle radici isolane. Allo stesso modo, Peter Naccarato ha ricostruito come, per un gruppo di calabresi di Filadelfia, la preparazione rituale della soppressata rappresenti ancora oggi uno strumento per richiamare e rivitalizzare la propria identità etnica. Mary Jo Bona e Jennifer DiGregorio hanno evidenziato il frequente riferimento al cibo nella letteratura e nella produzione filmica italoamericana, in una prospettiva in cui l’abbondanza nell’alimentazione simboleggia la relativa prosperità raggiunta dagli immigrati negli Stati Uniti, mentre il rifiuto del cibo costituisce una manifestazione del ripudio della famiglia quale entità etnica. Alessandra Coccopalmeri ha offerto una lettura di Crazy in the Kitchen di Louise DeSalvo attraverso il rapporto del cibo con le tre generazioni di donne al centro del volume. In questo ambito, è stato studiato anche un altro elemento tipico dell’alimentazione degli italoamericani, il vino. In particolare, Marie-Christine Michaud ha illustrato la sua funzione nella costruzione e nel mantenimento dei legami familiari nella novella The Wine Cellar (1971) di Edward Bonetti.
Accanto alle relazioni che hanno messo in luce le valenze positive della cucina all’interno della comunità etnica, altre si sono invece richiamate alla dimensione degli stereotipi che in passato sono stati legati al cibo italiano. Così Joseph Cosco ha esaminato come la rappresentazione delle pratiche alimentari degli immigrati italiani della fine dell’Ottocento nelle pagine di How the Other Half Lives (1890) di Jacob Riis rientrasse tra quelle forme di stigmatizzazione del comportamento dei nuovi venuti quali elementi inassimilabili negli Stati Uniti che contribuirono al loro ostracismo sociale. Parimenti Rocco Marinaccio ha analizzato l’uso del cliché dell’italiano mangiatore di aglio in un contesto in cui la società statunitense criticava gli immigrati anche per il presunto cattivo odore associato alla loro presenza.
Altri aspetti dell’alimentazione sono stati affrontati negli interventi di Nancy Caronia e di George Guida. La prima ha offerto una interpretazione del film Fatso (1980) della regista Anne Bancroft, alias Anna Maria Italiana, presentando il cibo come una risposta psicologica ai problemi emotivi del protagonista a cui è in grado solo di fornire un conforto immediato senza però risolverli né riuscire a inibire i suoi impulsi violenti. Il secondo ha ripercorso le vicende del ristorante Tommaso’s di Brooklyn, la cui storia si è intrecciata con quella di Paul Castellano, il potente capo del clan mafioso Gambino, che ne fu assiduo cliente fino a quando non fu assassinato nel 1985. Invece, Simone Cinotto ha tracciato il ruolo della gastronomia italiana nella formazione di un gusto che, pur facendo riferimento all’Italia, ha assunto una dimensione transnazionale nell’America contemporanea.
Nell’ambito della cinematografia, Salvatore LaGumina ha riscontrato la scarsa presenza di rappresentazioni filmiche degli italoamericani nella produzione hollywoodiana negli anni del Secondo conflitto mondiale, attribuendone l’assenza alla contingenza storica che portava a identificare questa minoranza etnica con uno dei paesi che si trovavano in guerra contro gli Stati Uniti. Kirby Pringle ha tratteggiato la carriera di Gino Corrado, un attore di origine italiana del cinema muto americano che, a causa del suo accento, ebbe problemi a trovare scritture dopo il passaggio ai film sonori a tal punto che, pur ottenendo parti minori in pellicole celeberrime quali Via col vento e Casablanca, dopo la Seconda guerra mondiale preferì cambiare carriera e diventare un ristoratore. Dennis Barone ha richiamato alcuni momenti della carriera hollywoodiana di John Fante quale sceneggiatore, indicando i motivi tipici della sua sensibilità artistica in The Reluctant Saints (1962), il film sulla vita di S. Giuseppe da Cupertino, di cui scrisse il copione insieme a Joseph Petracca. Infine, Vito Zagarrio ha ridimensionato l’interpretazione secondo la quale il regista italoamericano Frank Capra avrebbe completamente rimosso la propria identità etnica e ha, invece, indicato alcune tracce della sua italianità a partire dal documentario Libia (1921), un ritratto coevo della comunità italoamericana di San Francisco.
Rispetto alle altre due tematiche principali del convegno, la moda quale arte e gusto dell’abbigliamento è stata largamente trascurata. Eppure l’esperienza di numerosi stilisti italiani attivi negli Stati Uniti avrebbe potuto offrire spunti per interventi in questo campo. La moda come stile di vita in senso più lato è stata, invece, affrontata in alcune relazioni di taglio sociologico. Donald Tricarico, per esempio, si è soffermato su una presunta accettazione parziale di comportamenti associati generalmente agli italoamericani – come volgarità nel linguaggio, sessualità sopra le righe ed ostentazione dell’aspetto fisico – che, dopo essere stati a lungo oggetto di riprovazione, hanno finito per riscontrare un’apparente popolarità nella sottocultura giovanile attraverso il successo d’ascolto del reality show Jersey Shore. Infine, Dominique Padurano ha delineato la carriera del culturista Charles Atlas, il nome d’arte di Angelo Siciliano, un immigrato italiano che negli anni venti del Novecento dette un significativo contributo alla promozione del body building quale atto estetico eterosessuale.
Stefano Luconi