La tematica scelta per la XLIII conferenza annuale dell’American Italian Historical Association – propugnazione e attivismo – si è rivelata particolarmente indicata alle circostanze in cui si è svolta l’assise. Il convegno, coordinato da Josephine Gattuso Hendin della New York University, si è tenuto a pochi giorni dall’elezione del democratico Andrew Cuomo alla carica di governatore dello Stato di New York, dopo una campagna monopolizzata dai candidati italoamericani. Oltre a Cuomo, infatti, appartenevano a questo gruppo etnico sia il suo avversario nelle elezioni generali, Carl Paladino, sia lo sfidante di quest’ultimo nelle primarie del partito repubblicano, Rick Lazio. È ovvio che la politica non esaurisca le forme dell’impegno etnico degli italoamericani, così come quello di altre minoranze. Tuttavia, ha rappresentato in passato, e può costituire ancora oggi, una delle sfere principali di espressione militante del senso dell’appartenenza di gruppo.
La rilevanza e la non unicità della dimensione della politica sono state messe in luce fino dalla prolusione di Gerald J. Meyer sulle campagne progressiste condotte da tre rilevantissimi leader italoamericani di New York – Fiorello H. La Guardia, Vito Marcantonio e Leonard Covello – negli anni trenta e quaranta. La Guardia e Marcantonio manifestarono il loro impegno principalmente in politica, sia come legislatori sia come amministratori. Entrambi ricoprirono più mandati al Congresso e La Guardia fu anche uno dei più apprezzati sindaci di New York. Covello, invece, privilegiò l’attivismo comunitario, stimolando soprattutto la mobilitazione dei residenti del distretto di East Harlem, nella sua veste di preside della Benjamin Franklin High School. Tuttavia, nella carriera di questi tre personaggi, gli ambiti dell’impegno si intersecarono spesso. Le mobilitazioni promosse da Covello ebbero come interlocutori le istituzioni locali e federali, mentre La Guardia e Marcantonio si impegnarono pure come organizzatori nella loro comunità.
L’aspetto più specificamente elettorale dell’attivismo è stato affrontato in una sessione dedicata alle campagne in cui si sono affrontati candidati italoamericani. Partendo dall’attualità, Ottorino Cappelli ha analizzato le implicazioni etniche della sfida tra Cuomo e Paladino. In particolare, ha mostrato come l’etnia abbia avuto un peso importante nella loro carriera, non in funzione della conquista dei voti dei membri della loro minoranza, ma perché – soprattutto nel caso di Paladino – la composizione dell’entourage dei candidati ha rivelato un marcato carattere italoamericano. Jerome Krase si è concentrato sulla ripartizione del voto e ha messo in luce come le circoscrizioni con una forte concentrazione di italoamericani abbiano espresso una maggioranza per Paladino. Però, la ragione di questo esito contrastante con il risultato nel complesso dello Stato, sarebbe attribuibile non tanto all’identificazione etnica con Paladino, quanto al conservatorismo dell’elettorato italoamericano che lo ha portato a preferire il candidato repubblicano. Invece, gettando uno sguardo retrospettivo al passato, Salvatore LaGumina ha rievocato la campagna elettorale del 1950, quando i tre contendenti per la carica di sindaco di New York – il repubblicano Edward Corsi, il democratico Ferdinand Pecora e l’indipendente Vincent Impelliteri, uscito vincitore dal responso delle urne – furono tutti di ascendenza italiana.
Le poliedriche articolazioni dell’attivismo italoamericano sono state discusse anche in altri contesti. Dennis Barone si è occupato del proselitismo della chiesa battista italiana nella cittadina di Monson in Massachusetts. Michael L. Mullan ha tratteggiato l’associazionismo degli abruzzesi a Filadelfia. Un video di Rossana Del Zio ha presentato l’emigrazione come l’unica alternativa al brigantaggio nel Meridione postunitario.
Come è accaduto in passato per altre conferenze dell’American Italian Historical Association, il convegno ha affrontato pure aspetti collaterali o non necessariamente legati al tema principale in discussione. Per esempio, James Periconi ha esaminato l’industria editoriale statunitense del libro in lingua italiana prima della Seconda guerra mondiale. Anthony D. Cavaluzzi ha analizzato le opere del pittore Joseph Stella. Simone Cinotto ha trattato della politica dei consumi tra gli italo-americani. Maria Protti ha ricostruito la vicenda di «Papa Coppa», il ristorante italiano della North Beach aperto dall’immigrato piemontese Giuseppe Coppa, che fu luogo di ritrovo per artisti e letterati del movimento bohemien di San Francisco all’inizio del Novecento.
Più in ombra è rimasta, invece, la questione della militanza sindacale degli italoamericani. La relazione di Bénédicte Deschamps sulla condizione della donna secondo Arturo Giovannitti – uno dei più influenti e carismatici organizzatori del movimento operaio nelle Little Italiesnegli anni a cavallo della Prima guerra mondiale – ha, ovviamente, toccato alcuni aspetti della sindacalizzazione delle lavoratrici italoamericane. Tuttavia, mentre l’esame dei rapporti di genere è stato sviscerato anche in altri interventi (come quello della psicologa Elizabeth G. Messina sull’atteggiamento della comunità italoamericana riguardo alla parità tra uomini e donne), l’attivismo degli italoamericani nei sindacati avrebbe meritato un maggiore approfondimento nelle sessioni del convegno, alla luce dell’ampio interesse che ha da sempre suscitato tra i cultori degli Italian American studies come il compianto Rudolph J. Vecoli.
Stefano Luconi