Le brevi riflessioni che seguono sono state sollecitate dalla lettura consecutiva di due libri molto vicini tra loro per scelte tematiche e metodologiche; o meglio, dovrei dire che queste letture sono state l’occasione per provare a mettere in forma riflessioni che mi occupano da qualche tempo. I due libri sono Lavoro in movimento di Michele Colucci (Donzelli, 2008) e Il prezzo della ricostruzione di Andreina de Clementi (Laterza, 2010). Entrambi sono già stati recensiti, in questa sede e in altre; non tornerò pertanto sui contenuti, che suppongo già noti ai lettori.
Mi ha molto interessato un aspetto della metodologia comune a entrambi i testi, aspetto che offre interessanti prospettive sul piano dello scambio interdisciplinare tra storiografia e antropologia. Personalmente pratico da sempre un’antropologia culturale orientata a indagare su basi empiriche e documentali i processi di produzione e riproduzione delle diversità e delle somiglianze che caratterizzano i gruppi umani, mentre lascio ai filosofi (che hanno la competenza necessaria) la ricerca delle costanti o addirittura delle invarianti, dotate se mai di consistenza ontologica, che distinguono l’homo sapiens sapiens. Data questa opzione iniziale, ho sempre «profittato» dei lavori degli storici, utilizzandoli (mi si perdoni l’irriverenza del termine) come fonte inesauribile e preziosissima di documenti relativi ai processi di produzione delle diversità e delle somiglianze. Naturalmente, essendo antropologa culturale, mi interessa sempre, specificamente e prioritariamente, quello che convenzionalmente chiamiamo «il punto di vista dei nativi» e che, più tecnicamente , può essere definito il senso, inteso come significato e valore, che il loro agire ha per i soggetti che agiscono. Normalmente l’antropologo va alla ricerca di questo senso (il significato umano degli accadimenti, come lo chiamava Ernesto de Martino) tra i «nativi» stessi, con il lavoro di campo. Dunque, tu, antropologo, se vuoi sapere che cos’è l’emigrazione per chi emigra, vai a chiederlo a chi emigra; magari seguendolo/a nel suo viaggio, nel suo soggiorno, nel o nei suoi ritorni. I due libri di cui stiamo parlando, suggeriscono che c’è qualcosa d’altro da studiare, anche per gli antropologi.
Come chiariscono i sottotitoli, i due volumi in questione hanno scelto entrambi come oggetto di ricerca l’emigrazione italiana nella prima decade del secondo dopoguerra. Si tratta di un periodo che ha richiamato scarsamente l’attenzione degli studiosi, schiacciato com’è, per così dire, tra il precedente grande esodo transoceanico a cavallo dei due secoli e quello successivo, non meno imponente, diretto dal Sud al Nord della Penisola e verso l’Europa negli anni cosiddetti del boom. Dall’ indagine dei due studiosi emergono alcuni fatti di tutto rilievo. In primo luogo i riferimenti agli anni del fascismo e della guerra e l’analisi del primo periodo del dopoguerra, evidenziano che, a onta delle affermazioni ufficiali, in realtà in Italia l’eccedenza di forza-lavoro rispetto alle possibilità d’impiego è un dato costante, come conseguenza del quale disoccupazione, sottoccupazione e ricerca di opportunità di lavoro altrove, si configurano come caratteri strutturali del mercato del lavoro nazionale. Attraverso tutte le variazioni quanti-qualitative dei flussi nel tempo, la presenza all’interno dei nostri confini di un’offerta di lavoro notevolmente più alta della domanda resta un dato costante. Mi pare che esso suggerisca una constatazione: l’emigrazione non sembra essere rimedio a se stessa. Malgrado le dimensioni dell’esodo transoceanico durato fino al 1914 e malgrado le perdite provocate da due guerre mondiali in termini di vite umane, alla fine degli anni quaranta la disoccupazione è ancora e di nuovo uno dei più preoccupanti problemi del Paese. Osservazione, quest’ultima, che ribadisce una volta di più la bontà della recente svolta degli studi sulle migrazioni, che non possono essere «spiegate» se non all’interno e come parte integrante della storia nazionale.
Nel primo decennio postbellico questa centralità dell’emigrazione è accettata e teorizzata dai Governi repubblicani (e questa è una novità): non tanto con lo scopo di eliminarla – obbiettivo magari rivendicato pubblicamente, ma di fatto raramente perseguito concretamente – quanto invece per governarla e renderla funzionale al perseguimento di obbiettivi di politica interna. Entrambi i testi in esame sottolineano la novità che la cosiddetta emigrazione assistita rappresenta; ed entrambi producono una ricca documentazione che non è solo quella prodotta «dal basso», tradizionale negli studi sulle migrazioni fin dai tempi del Contadino polacco di Thomas e Zaniecki. Colucci e soprattutto De Clementi pubblicano i documenti ministeriali, rapporti, comunicazioni, pro-memoria oltre che decreti e circolari; e lettere e appunti che uomini politici, funzionari, ambasciatori e ministri si scambiano.
A una prima lettura tutti questi documenti mi hanno fortemente sollecitato a mettere a fuoco un tema da sempre saputo, ma mai compiutamente esplicitato: un punto di vista sull’emigrazione non lo producono solo i lavoratori migranti, ma anche tutti coloro che con le migrazioni hanno a che fare; e il punto di vista di costoro è tanto più importante ai fini della comprensione dei processi migratori, quanto maggiore è il potere decisionale che essi esercitano sui processi stessi. In altri termini: scelte governative di politica migratoria, emanazione di leggi e provvedimenti, procedure per la loro applicazione, modalità concrete della loro applicazione, insomma tutto l’assetto giuridico e politico-amministrativo per mezzo del quale si attua ilgoverno (e anche quello che può apparire unnon-governo) delle migrazioni, tutto questo assetto si fonda e si sviluppa su una base culturale, su una concezione del mondo e della vita, su un sistema di significati e valori che dà senso ai provvedimenti adottati agli occhi di coloro che li hanno adottati. Ovviamente, l’esistenza di questa base culturale è sempre stata data per scontata dagli storici e dagli antropologi che si sono occupati di migrazioni; la lettura dei due volumi di cui ci stiamo occupando, suggerisce che questa base culturale sia indagabile attraverso gli atti ufficiali e tutti quei documenti d’archivio che sono la materia prima del lavoro dello storico.
Applicando sistematicamente questa chiave di lettura alla ricca documentazione dei due libri in esame, sembra già di poter individuare in prima approssimazione alcuni tratti culturali di fondo persistenti al di sotto delle diverse scelte di politica migratoria dei governi italiani (il laissez-fairedel periodo post-unitario e il dirigismo dell’emigrazione assistita del secondo dopoguerra ) e al di sotto delle posizioni assunte e difese o osteggiate all’interno della classe politica italiana, di destra, di centro e di sinistra.
In primo luogo sembra comune a tutta la classe dirigente italiana quella che chiamerei una visione strumentale e partigiana dell’emigrazione, misurata sempre sul principio della convenienza per la propria parte politica: dunque, emigrazione buona se contribuisce a mantenere la pace sociale diminuendo la disoccupazione e la povertà; emigrazione cattiva se diminuisce il potenziale combattivo o anche solo il bacino dei consensi per la propria parte politica; emigrazione assistita buona se può essere usata come elemento di scambio per risolvere il problema energetico, emigrazione individuale cattiva se comporta un minor controllo sui comportamenti e le convinzioni religiose e politiche dei migranti. Non che questa concezione strumentale non potesse essere, e in buona fede, giustificata agli occhi di coloro che la professavano, mediante il suo inserimento in orizzonti di maggior respiro: entrambi i testi rimandano alla concezione europeista di De Gasperi che già nel 1943 poteva affermare che con l’emigrazione «[ si accordava ] a ogni popolo la libertà delle vie internazionali di comunicazione» o a quella elaborata da esponenti del pci quando fu chiaro che opporsi agli espatri era inutile, secondo la quale i contadini meridionali emigrando si emancipavano perché si proletarizzavano. Questa costante preoccupazione di salvaguardare per un verso la propria quota di poteri e di influenze, e per un altro verso di non alterare gli equilibri interni del Paese, spiega probabilmente anche la mancata unificazione delle competenze migratorie in un unico organismo statale.
Da molti dei documenti presentati dai due autori, in particolare da De Clementi, affiorano, anche se mai esplicitamente messe in forma, altre due idee comuni a tutta la classe politica italiana: quella secondo la quale chi emigra è un essere umano di seconda categoria, che può sopportare qualsiasi disagio materiale e qualsiasi offesa alla dignità; e quella che le critiche e le resistenze dei paesi di immigrazione che pretendono di selezionare gli italiani scegliendosi solo quelli «buoni», hanno una qualche giustificazione nelle reali caratteristiche dei nostri migranti. Di conseguenza alle pretese dei paesi di immigrazione si deve opporre una blanda resistenza, giusto per salvaguardare la dignità della nazione, non perché gli emigranti italiani sono cittadini che hanno diritto di essere tutelati dal proprio paese. Insomma, direi che nei documenti appaiono tracce, indizi, di una sorta di razzismo di classe, se mi si passa l’espressione; ma anche di uno stile politico che già da subito, negli anni del primo dopoguerra, accumunava forze di governo e forze di opposizione: quello basato sull’idea che il mantenimento degli equilibri politici del paese e della posizione dei gruppi che li incarnano, faccia aggio sull’esigenza di risolvere i problemi che riguardano comuni cittadini.
Naturalmente, queste prime osservazioni andrebbero sostenute e suffragate da una ricerca rigorosa da condurre sulle fonti documentali. Mi premeva segnalare l’interesse, anche in termini di attualità, di una indagine antropologico-culturale sistematica sulle generali concezioni del mondo e della vita (dunque sulle culture, non solo sulle ideologie!) che hanno ispirato decisioni e pratiche politiche le cui conseguenze hanno condizionato vite e destini di molte italiane e italiani, nelle case signorili di Belgravia, nelle miniere del Belgio e dovunque nel resto di Europa sono andati per guadagnarsi da vivere.