In quest’opera, l’autore si pone l’obiettivo di unificare i suoi due studi precedenti sull’evoluzione della mafia in Sicilia (Storia della mafia, Roma, Donzelli, 1993) e negli Stati Uniti (Quando la mafia trovò l’America, Torino, Einaudi, 2008). La narrazione storica comincia durante i decenni immediatamente precedenti l’Unità d’Italia, quando la mafia si configurò quasi come una setta segreta meridionale finalizzata al sovvertimento delle istituzioni borboniche in Sicilia e come supporto all’ideologia liberale di stampo repubblicano. Una volta rivelatisi i primi conflitti con il governo centrale sabaudo, la mafia cambiò il proprio nemico continuando a combattere le istituzioni, attingendo agli antichi principi della cosiddetta fratellanza degli «stupagghieri» (p. 43) nella provincia di Palermo. Proprio uno di questi gruppi criminali fu il primo nucleo di mafia siciliana a emergere nel Nuovo Mondo, in particolare a New Orleans, in un periodo immediatamente precedente la prima ondata migratoria italiana di massa.
A cavallo tra Ottocento e Novecento un altro gruppo mafioso, proveniente da Corleone e guidato da Giuseppe Morello e Ignazio Lupo, costituì il primo nucleo della Mano Nera a New York, intesa come un’associazione di «banditi di campagna malamente trapiantati nel luogo più moderno del mondo» (p. 79), secondo le parole del tenente del Dipartimento di Polizia di New York Joe Petrosino. Il punto di svolta economico della mafia a New York fu raggiunto quando gli ex estorsori dinamitardi della Mano Nera si trasformarono in contrabbandieri di alcolici durante l’epoca del proibizionismo. Da questo momento, le originarie organizzazioni criminali italiana, irlandese ed ebraica cominciarono a non essere più relegate all’interno dei rispettivi quartieri etnici e costituirono molto spesso veri e propri «enterprise syndicate» multietnici che divennero «power syndicate» (p. 88) in seguito all’appoggio di Tammany Hall, la macchina politica del partito democratico a New York.
Se in America il proibizionismo garantì affari remunerativi e costanti per l’intera malavita, in Sicilia il fascismo e specialmente la repressione del prefetto di Palermo Cesare Mori condussero a un inasprimento dei controlli contro il potere mafioso. Di conseguenza, una seconda ondata migratoria mafiosa cominciò a svilupparsi, sebbene l’autore sottolinei che la nuova mafia di Castellammare del Golfo fosse emigrata negli Stati Uniti non tanto «per espulsione» fascista quanto «per attrazione» (p. 94) da parte del lucroso racket del contrabbando degli alcolici. New York divenne così il campo di battaglia principale per lo scontro definitivo tra le due fazioni mafiose degli «young Turks» di Charlie «Lucky» Luciano (gangster americanizzati) e dei «mustache Petes» di Salvatore Maranzano (mafiosi legati dai vincoli di parentela alla Sicilia) nella Guerra Castellammarese (1930-31), che si concluse con la vittoria di Luciano e, in sostanza, con la nascita di un’inedita criminalità organizzata, «Cosa Nostra», non più soltanto siciliana ma americana, ovvero campana, calabrese, irlandese ed ebraica (p. 147).
Da quel momento in poi, la mafia italoamericana dei gangster non manifestò più comportamenti di sudditanza verso il suo nucleo gemello proveniente dalla Sicilia, ma anzi si riappacificò con quest’ultimo attraverso gli affari illeciti del traffico internazionale di sostanze stupefacenti dagli anni cinquanta e sessanta. Come nel 1963 le rivelazioni del collaboratore di giustizia Joe Valachi furono essenziali per definire quell’onorata società siciliana a cui era stato affiliato nel 1930 (pur essendo d’ascendenza napoletana), così la testimonianza del «boss dei due mondi» (p. 235), Tommaso Buscetta, risultò fondamentale per sostenere l’accusa contro la mafia corleonese di Salvatore Riina nel maxiprocesso di Palermo nel 1987.
Pur riuscendo a spiegare in maniera chiara ed esaustiva il secolare contesto storico in cui la mafia siciliana si sdoppiò alla fine dell’Ottocento attraverso una sorta di diaspora malavitosa verso le metropoli statunitensi, l’autore cade in alcuni refusi e inesattezze temporali: Petrosino fu intervistato dai giornalisti del «New York Herald» non nel 1903, ma nel 1909 (p. 79, nota 7); la Conferenza di Cleveland non si tenne nel 1927, bensì nel 1928 (p. 114); il proibizionismo fu abolito negli Stati Uniti nel 1933, non nel 1932 (p. 151); l’imprenditore edile Generoso Pope non acquistò il quotidiano «Il Progresso Italo-Americano» nel 1931, ma nel 1928 (p. 174); il miliziano di Salò Mauro De Mauro si rifugiò in Sicilia a seguito della Liberazione, non dopo il 25 aprile 1943 (p. 230). Oltre a ciò, la consistente ricerca archivistica effettuata dall’autore sul versante italiano (soprattutto presso l’Archivio Centrale dello Stato e gli Archivi di Stato di Palermo e di Trapani) non trova una corrispondenza sul versante statunitense dove, ad esempio, si sarebbero potute consultare ulteriori preziose fonti primarie (come, per esempio, i Criminal Trial Transcripts of New York County, presso la Lloyd Sealy Library del John Jay College, che contengono gli atti processuali di procedimenti contro affiliati alla Mano Nera o alla mafia ) in merito al cosiddetto intreccio intercontinentale che per oltre un secolo ha collegato le due sponde atlantiche nella malavita. Tali osservazioni, tuttavia, non tolgono all’autore il merito di aver svolto una ricerca pionieristica, avanzando tesi originali su questioni ancora oggi poco esplorate sia dalla storiografia italiana sia da quella estera.
Francesco Landolfi