Nel 2016, in occasione del trentesimo anniversario della sua fondazione, l’Associazione Ligure del Cile ha curato un’esposizione itinerante con alcune belle immagini fotografiche, preziosa testimonianza della quotidianità e del lavoro delle famiglie che all’inizio del secolo scorso partirono da Genova e dal suo entroterra per stabilirsi nella regione del Valparaíso, e segnatamente nel capoluogo omonimo, porto di grande importanza commerciale.
Presentate al pubblico in alcune città cilene, le fotografie, provenienti dall’Archivo Histórico Patrimonial di Viña del Mar, hanno poi raggiunto quegli stessi luoghi da cui partirono le persone che vi sono ritratte. Su iniziativa del Centro Internazionale Studi Emigrazione Italiana (cisei) sono state esposte tra il maggio e l’agosto del 2017 a Genova e poi a Valbrevenna, minuscolo comune montano dell’Alta Valle Scrivia, abbandonato da intere generazioni in cerca di migliori opportunità oltreoceano. A conferma di quanto grande sia stato il tributo pagato all’emigrazione da questa località, ad accogliere il visitatore presso il municipio è un emblematico monumento dedicato «ai figli della Valbrevenna nel mondo» che raffigura un migrante con il suo fagotto, in procinto di imbarcarsi.
Le foto accompagnano alla scoperta di vite comuni, in grado di offrire un piccolo ma rappresentativo campione della presenza italiana in territorio cileno e l’opportunità di conoscere uno dei frammenti meno noti del vasto panorama dell’emigrazione italiana nelle Americhe. Ancora oggi, gli studi in merito non abbondano (cfr. Luigi Favero et Al., Il contributo italiano allo sviluppo del Cile, Torino, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, 1993; Luciano Baggio e Paolo Massone, Presencia Italiana en Chile, Santiago, Presenza, 1996; Maria Clotilde Giuliani-Balestrino, Gli italiani in Cile, Genova, Bozzi, 2000), per cui si apprezza che il cisei richiami alcune specificità di questa particolare esperienza migratoria.
Il Cile fu destinazione di flussi esigui, rispetto ad altri Stati latinoamericani: difficilmente raggiungibile almeno fino a tutta la prima decade del Novecento per l’assenza di collegamenti diretti dall’Italia, il Paese non offriva vaste estensioni di terreni coltivabili né un apparato industriale in via di sviluppo. Tuttavia, la presenza ligure nella zona affonda le sue radici in un passato molto lontano: la felice posizione geografica e i porti strategici avevano infatti attirato fin dal Cinquecento i marinai genovesi, interessati a creare nuove rotte commerciali nonché «able to build socioeconomic networks and integrate into the colonial élite» [Matteo Salonia, Genoa’s Freedom. Entrepreneurship, Republicanism and the Spanish Atlantic, Lanham (md), Lexington Books, 2017, p. 151]. Tali elementi distintivi si ritrovano in parte anche nei secoli successivi, quando, dalla provincia di Genova, raggiunsero le coste cilene membri del ceto medio, aspiranti imprenditori con un piccolo capitale a disposizione. Così, quella che per un secolo era stata un’emigrazione dai «forti connotati marinareschi» si trasformò gradualmente finché non prevalse «il lavoro indipendente nel commercio e nell’artigianato» [Vittorio Cappelli, Nelle altre Americhe, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana. Arrivi, Roma, Donzelli, 2002, p. 98].
Le trenta fotografie d’epoca presenti nella mostra, scattate nell’arco del primo quarantennio del secolo scorso, riflettono in pieno questo aspetto. Rappresentano emporios e almacenes, dove gli immigrati vendevano generi alimentari (spesso di produzione italiana, come l’olio di oliva), ma anche caffè, circoli sportivi e ricreativi, librerie, scuole e cerimonie che scandiscono la vita familiare e coinvolgono più generazioni. Traspare la vivacità della colonia ligure – perfetto esempio di ethnic entrepreneurship – sotto il profilo economico e socio-culturale e si percepisce il suo impegno nel creare e vivere spazi associativi. Le immagini, perlopiù private, riescono a trasmettere l’orgoglio dei migranti per il proprio lavoro, il ruolo centrale della famiglia (la maggioranza delle imprese era di piccole dimensioni e a conduzione familiare) e la coesione di una comunità che condivideva i medesimi valori di riferimento. Le foto testimoniano anche l’importanza di istituzioni assistenziali e di presidio civico fondate dagli immigrati liguri, come la Società di Beneficienza Italiana, attiva fin dal 1856, e la Sesta Compagnia dei Pompieri, nata nel 1858. Purtroppo, le didascalie non valorizzano al meglio il materiale esposto, risultando spesso scarne e insufficienti a contestualizzarlo.
Merita una menzione il piccolo «tesoro» che apre la mostra, la riproduzione fotografica di una lettera di ringraziamento scritta da Giuseppe Garibaldi ai liguri di Valparaíso, che lo accolsero e lo ospitarono a varie riprese nel 1851 e nel 1853: una testimonianza d’eccezione del fatto che la colonia, già ben prima dell’inizio dell’emigrazione di massa, era abbastanza numerosa e radicata da costituire un importante punto di riferimento per l’«eroe dei due mondi» e che il legame con la madrepatria era profondamente sentito.
L’esposizione è degna di nota non solo per l’interesse intrinseco dei documenti, ma anche perché l’iniziativa costituisce di per sé un’eloquente dimostrazione del senso di appartenenza culturale dei discendenti degli emigrati – pure ampiamente assimilati alla società cilena – e, soprattutto, della loro esigenza di custodire e condividere la memoria storica della propria comunità: un aspetto fondamentale che accompagna l’esperienza migratoria e che la storiografia non deve lasciare in ombra.
Francesca Puliga