Puoi raccontare la tua esperienza migratoria dagli inizi?
Sono nato in Inghilterra, ma sono cresciuto a Firenze dove ho abitato fino a 31 anni di età. Mi trovo in Australia per una combinazione di motivi. Mia madre era inglese e a Firenze sono cresciuto in un ambiente bilingue; andavamo tutte le estati in vacanza dai nonni a Londra. La lingua e la cultura inglesi sono quindi sempre stati importanti nella mia esperienza. Mi sono laureato in filosofia teoretica all’Università di Firenze nel 1993. La tesi è andata bene e il mio relatore mi ha incoraggiato a fare un dottorato di ricerca. A quel punto mi è venuta l’idea di fare un dottorato nel mondo anglofono. Ho contattato per lettera oltre 300 università in Gran Bretagna, Stati uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, ecc.; dall’Università di Melbourne ho ricevuto la risposta più favorevole. Erano interessati al mio progetto di ricerca, e avevano anche delle borse di studio. L’idea era allettante, anche se la distanza era un elemento di sfida. Mi sono quindi trasferito in Australia nel 1994 per fare la tesi di dottorato (PhD).
La mia esperienza migratoria, se la si confronta con quella degli italiani che sono emigrati in Australia nelle generazioni precedenti, è stata un’esperienza facile. Sono stato accolto calorosamente all’università e, tutto sommato, sono stato un “emigrante di lusso”. Nel 1994 in Australia, in ispecie a Melbourne e negli ambienti che ho frequentato, l’italianità era un qualcosa di positivo, che destava un interesse benevolo – un po’ come la mia inglesità in Italia negli anni precedenti. In entrambe le mie esperienze transculturali sono stato fortunato perché, anche se ovviamente ho vissuto delle difficoltà a livello personale, non ho subìto alcuna forma di razzismo e discriminazione.
Quindi sono arrivato a Melbourne e ho fatto il dottorato, sempre in filosofia. Il mio progetto era di tornare in Italia perché non avevo desiderio di sradicarmi e trasferirmi a tempo indeterminato in un altro paese. Però sussisteva un classico fattore push dell’emigrazione: la mancanza di sbocchi lavorativi concreti in Italia. Avrei potuto andare a lavorare in negozio con mio padre, ma non era il mio sogno. Fra i fattori pull, a parte la maggiore facilità di inserimento lavorativo, avevo trovato una compagna. Lei era già emigrata una volta da bambina, aveva una carriera già impostata qui in Australia, ed era difficile chiederle di emigrare di nuovo. In Italia, inoltre, non avrebbe avuto prospettive di lavoro. Poi sono nati i bambini e i figli ti ancorano.
Puoi parlarci dei bambini?
I nostri figli sono nati nel 2003 e nel 2005. Almeno fino al 2006 sognavo il ritorno in Italia, ma col tempo è diventato sempre più un sogno e sempre meno un progetto. Poi nel 2007 ho trovato questo lavoro al co.as.it., molto stimolante e molto interessante, che mi ha dato un ulteriore motivo di restare.
Nel 2013 mio padre ci ha raggiunto in Australia. Alla mia partenza, mio padre era rimasto solo. Lui aveva un negozio in centro a Firenze. All’inizio non c’erano problemi; poi a 79 anni ebbe un ictus, dopo il quale continuò a vivere da solo e a lavorare a tempo pieno, ma con maggiori difficoltà. Io e mia sorella, che abitava in un’altra città, lo abbiamo seguìto assiduamente, aiutandolo da lontano come potevamo. È stato difficile gestire, in buona parte a distanza, la fase finale della sua attività, la chiusura del negozio e così via. Poi, siccome mi pareva, anche in prospettiva futura, che non fosse una buona idea che continuasse a vivere da solo, mia moglie e io lo abbiamo invitato a venire ad abitare con noi in Australia. Nel 2013, all’età di 84 anni, si è trasferito da noi.
Ci vuoi parlare della tua famiglia multietnica?
Fino a poco tempo fa eravamo in 6 in casa: io e mia moglie con due figli giovanissimi e due genitori molto anziani. Poi, due anni fa, mio padre è dovuto andare a stare in una casa di riposo. Mia moglie è di origine cinese: proveniente da un piccolo paese del Guangdong, è arrivata in Australia all’età di 8 anni con sua madre e suo fratello, per ricongiungersi col padre che si era trasferito qua molti anni prima. Nel 2007 mia suocera è rimasta sola e allora le abbiamo chiesto di venire a stare a casa nostra. È stato buono anche perché ci ha aiutato molto in casa e con i bambini che erano piccini: avevano al tempo 2 e 4 anni.
Mia suocera ha 88 anni. Come succede a molti, a distanza di più di 40 anni dall’immigrazione, non ha imparato l’inglese ed è rimasta fedele ai suoi valori, alla sua cultura e alle sue tradizioni. Ad esempio, si trova a suo agio con la cucina del suo paese: per lei un pasto senza riso e senza le bacchette sarebbe come per un italiano tradizionale un pasto senza pane e senza forchetta e coltello. Quindi dobbiamo tenere presente queste sue preferenze: mia moglie lo fa volentieri. Come cucina mangiamo un misto con forti influenze asiatiche e italiane. Quando c’era il babbo ogni tanto mia moglie faceva i crostini toscani o la trippa alla fiorentina, le cose che piacevano a lui e che gli ricordavano Firenze. È sempre un po’ complicato accontentare tutti.
La nostra è una situazione un po’ complessa dal punto di vista linguistico. Mia suocera parla solo cantonese. Mio padre parlava inglese bene, ma con l’avanzare degli anni trovava più semplice l’italiano. Con i figli ho sempre parlato italiano, al 100% fino a pochissimi anni fa: adesso qualche volta scivolo nell’inglese. La lingua franca in casa è l’inglese. Con mia suocera mia moglie parla in cantonese; i nostri figli ed io comunichiamo con lei usando le parole di inglese che conosce, e molto anche a gesti. Non sempre ci si riesce a capire: a volte mia moglie traduce.
Tua moglie, ti sembra che parli bene italiano?
Sì, anche senza averlo studiato molto in maniera formale. Venendo in Italia con me 25 volte in Italia per vacanze di un mese o cinque settimane, la full immersion nella lingua italiana con parenti e amici le ha dato una conoscenza della lingua sufficiente a gestire le conversazioni quotidiane senza problemi. Da una lingua europea all’altra il salto non è tanto grosso. Invece da una lingua europea al cantonese il salto è, almeno per me, così grosso che dopo 25 anni di quasi full immersion (mia moglie e mia suocera parlano fra di loro in cantonese, e poi quando vengono i parenti, minimo una volta la settimana, la conversazione è tutta in cantonese) ho orecchiato pochissime parole: si contano veramente sulle dita di una mano.
I tuoi figli lo parlano il cantonese?
No, ma lo capiscono meglio di me. Il più giovane studia mandarino alle superiori, che non è la lingua parlata nella nostra famiglia, anche se la scrittura è la stessa. Mio figlio è bravo: si esercita un po’ con gli zii che, avendo fatto le scuole superiori in Cina, parlano bene il mandarino.
In Australia insegnano il mandarino?
Sì: il mandarino è la lingua nazionale in Cina, mentre il cantonese è parlato solo in certe regioni.
Definiresti i tuoi figli bilingui per quello che riguarda l’inglese e l’italiano?
Direi che i miei figli sono bilingui, anche se ovviamente, come a suo tempo con l’inglese per me, l’italiano è diventato una seconda lingua: gli amici, la scuola, le letture, la televisione, il computer, è tutto in inglese. Il maggiore parla fluentemente, quasi come un ragazzo italiano della sua età. Il minore fatica un po’ di più. Tende a rispondermi in inglese; a volte mi dice «babbo, non ho capito» e allora per facilitare la comuncazione anch’io a volte passo all’inglese. Quando sono nati i figli, decidemmo che avrei parlato con loro al 100% in italiano. Inizialmente la avvertivo come una scelta artificiale, ma mi ci sono attenuto e sono contento di averlo fatto. Fra la fine del 2019 e l’inizio del 2020 i nostri figli hanno passato 4 mesi a Firenze, dove hanno frequentato un liceo linguistico. Penso che sia stata un’esperienza molto formativa, oltre che buona per la loro conoscenza dell’italiano.
In casa parlate inglese?
La conversazione fra mia moglie e mia suocera è al 100% in cantonese. Mia moglie parla inglese con me e con i nostri figli. I ragazzi parlano in inglese fra di loro e in italiano con me e con mio padre.
In casa con tua madre parlavi in inglese o italiano?
In inglese. I miei genitori parlavano fra di loro in inglese e fino a 5 anni non conoscevo l’italiano. Poi, dopo che sono andato a scuola, l’inglese è diventato per me una seconda lingua, proprio come lo è l’italiano per i miei figli e per i figli degli emigranti che crescono qua.
A tavola quando siete tutti insieme parlate in inglese?
La conversazione è mista. Mia moglie e mia suocera parlano fra loro in cantonese. Io e i nostri figli parliamo fra di noi (e con mio padre quando c’era) in italiano e in inglese con mia moglie. Con mia suocera, i miei figli ed io cerchiamo di utilizzare le parole di inglese che sa. Nonostante le difficoltà facciamo delle lunghe conversazioni – a volte lunghissime. Certamente non capisco tutto, ma tutto sommato comunichiamo bene.
Cosa succede nelle famiglie tra i tuoi conoscenti?
Dipende molto dalle persone. L’emigrazione di massa italiana in Australia risale agli anni Cinquanta e Sessanta. Negli anni molti hanno conservato, o addirittura imparato l’italiano, essendo in origine dialettofoni. Questo implica aver preso una decisione e aver fatto negli anni degli sforzi di mantenimento e di apprendimento. In molte famiglie, talora anche fortemente italiane dal punto di vista culturale, con il passare delle generazioni l’inglese ha preso il sopravvento, soppiantando l’italiano o il dialetto.
Quali sono gli altri elementi culturali italiani che hai passato ai tuoi figli? La religione?
Veniamo da una famiglia laica, quindi non la religione. La lingua è importante, la cucina pure. Dico sempre scherzando che i crostini toscani sono fondamentali all’inizio del pasto rituale etrusco, che non si possono non mangiare. Ma a entrambi i miei figli non piacciono.
Mi piacerebbe dare loro degli elementi della formazione culturale italiana: libri, film, ecc. Ma per ora con i libri ai ragazzi succede come a suo tempo successe a me con l’inglese. Prima dei vent’anni ero refrattario: leggendo trovavo molte parole che non capivo e mi scoraggiavo. Poi sui vent’anni mi sono deciso: mi sono messo d’impegno e da allora leggo molto in inglese: mi sono abituato presto e adesso non ho difficoltà a comprendere i testi scritti. Abbiamo visto con i miei figli dei film italiani, ma in generale non gli piacciono e preferiscono guardare film in inglese. Per me, forse anche come toscano, è importante il senso dell’umorismo: anche questo cerco di trasmetterlo ai figli.
Fondamentale, e certamente legato all’impostazione culturale italiana anche se non a un discorso identitario, mi pare l’importanza della conoscenza della storia. Qui la scuola è carente a questo riguardo: studiano degli episodi, dei temi isolati. Per me è importante che i miei figli comprendano la storicità della loro esperienza, il collegamento di questa esperienza con i grandi movimenti della storia. Da quando sono piccoli, ho cercato di familiarizzarli, a grandi linee, con la preistoria, il mondo greco-romano, il medioevo, il rinascimento, la Rivoluzione francese, l’Illuminismo, la rivoluzione industriale, ecc. E poi penso che sia molto importante che conoscano qualcosa del passato più recente, anche per quello che ha voluto dire per i loro nonni e genitori: la dittatura fascista, la Seconda Guerra mondiale, la Resistenza, la guerra fredda; la rivoluzione cinese e la nascita della Cina moderna ecc. Fra l’altro, a scuola i miei figli sono fra i pochi ad aver studiato qualosa della cultura aborigena (la loro scuola elementare offriva questa materia): anche questo penso che sia importante.
Che viaggi avete fatto in Italia?
Siamo stati molto fortunati: siamo andati tutti gli anni fino al COVID, per 4-5 settimane. Eravamo sempre legati a mio padre, sia quando lo andavamo a trovare sia più tardi quando lo portavamo a casa dopo che era venuto a stare da noi: non volevo lasciarlo da solo a Firenze, e quindi abbiamo girato poco, soprattutto in Toscana. Mia moglie ha portato i figli a Napoli e Pompei e anche a Venezia e Ferrara. Alla fine del 2019, mia moglie è stata 4 mesi a Firenze con i ragazzi, per consentire loro di approfondire la lingua e la cultura e per stare con la famiglia. Hanno frequentato un liceo linguistico che li ha accolti veramente benissimo, poi hanno fatto sport e musica.
E rispetto al legame con le origini cantonesi?
Il legame dei nostri figli con le origini cinesi è molto bello e molto forte. Mia suocera forse si sentiva insicura del valore del suo dialetto e per questo non l’ha insegnato ai ragazzi. Per mia moglie, arrivata qui a 8 anni, il cantonese era diventato una seconda lingua e quindi ha parlato con loro in inglese. Mia suocera vive secondo un sistema di valori tradizionale, incentrato sulla famiglia, che secondo me richiama quelli dell’Italia contadina (e sicuramente anche di molti altri posti); ascolta l’opera classica cantonese, osserva le tradizioni e i riti buddisti, ecc. Naturalmente i nostri figli sono esposti a tutto ciò, alla vita in famiglia con gli zii, i grandi pasti cinesi per le feste e le ricorrenze. I ragazzi sono stati in vacanza in Cina con mia moglie, la nonna e degli zii: sono stati al paese d’origine, in campagna, e anche a Canton, dove abitano alcuni parenti; sono andati anche a Pechino; hanno visto la Grande Muraglia, ecc. Penso che sia molto importante che stiano facendo queste esperienze.
Che appartenenza hanno, come si sentono?
Probabilmente australiani. Penso che si sentano anche in parte cinesi e italiani. Crescono in un ambiente multiculturale e molto aperto. Hanno amici i cui genitori o nonni sono algerini, cinesi, egiziani, etiopi, greci, inglesi, irlandesi, nepalesi, serbi, sudanesi, tailandesi, ecc. Non li ho mai sentiti parlare di episodi di razzismo o intolleranza.
Frequenti italiani qua?
Sì, soprattutto il mio lavoro mi porta a frequentare persone di origine italiana.
Cosa pensi dell’esperienza degli italiani arrivati in Australia nel secondo dopoguerra, rispetto alla tua?
La loro esperienza è in generale diversa dalla mia. Non ho vissuto le loro difficoltà dal punto di vista sociale e linguistico. Il mio è stato un inserimento facile nella società australiana.
Chi frequenta il co.as.it?
Il settore dei servizi sociali del co.as.it. offre prevalentemente servizi “linguisticamente e culturalmente adeguati” agli anziani della nostra comunità. Io mi occupo della programmazione culturale, che è parte del Dipartimento Lingua, Cultura e Storia Italiana del co.as.it. Questo Dipartimento sostiene l’insegnamento dell’italiano, che è diffusissimo nelle scuole di tutto il Victoria; offre corsi di italiano per bambini, ragazzi e adulti; gestisce la Società Storica Italiana e il Museo Italiano, e organizza il programma culturale. Il programma culturale (mostre, conferenze, tavole rotonde, cineforum, teatro, concerti, ecc.) è incentrato sulla storia e la cultura italo-australiane. Il pubblico che partecipa alle sue iniziative è molto vario come estrazione socioculturale: si tratta di una comunità interessata e informata, molto partecipe.
Se dovessi individuare un gruppo rappresentativo all’interno di questa comunità, forse direi le persone di seconda generazione (nate qua o arrivate qua da bambini), di mezza età, istruite e inserite con successo nella società australiana, accomunate dall’origine italiana e dal desiderio di riscoprire l’italianità in vari modi, spesso molto creativi: ad esempio ripercorrendo le vicende dei genitori o dei nonni, facendo ricerche di storia familiare, oppure partecipando alla vita comunitaria o prendendo parte alle molteplici espressioni artistiche della comunità, ecc. Questa generazione è cresciuta in buona parte in anni precedenti al multiculturalismo, che decolla in Australia come politica ufficiale a partire dagli anni Settanta. Si tratta quindi di anni in cui il ricordo della guerra (in cui l’Italia era un paese nemico) era relativamente fresco – e questi ragazzi si trovavano a metà fra un mainstream australiano ancora molto legato alle origini britanniche e l’italianità spesso molto tradizionale delle famiglie. La pressione ad assimilarsi era ovviamente molto forte. Arrivati alla mezza età e ormai sicuri di sé, in una società anch’essa molto cambiata in direzione di apertura multiculturale, in particolare nel senso del prestigio crescente di cui comincia a godere l’Italia a partire dagli anni Settanta-Ottanta, queste persone mantengono, e spesso riscoprono le radici italiane. Si tratta di un ricollegarsi alla memoria migrante dei genitori e dei nonni, che rimane, a livello esistenziale, valoriale e di narrativa comunitaria, un momento cardine; ma si tratta spesso anche di una scoperta dell’Italia di oggi attraverso l’apprendimento della lingua, le letture, la cultura, il viaggio, e così via. La forte creatività della comunità permette di fondere questi diversi filoni in una nuova, originale cultura italo-australiana, non fenomeno di nicchia, ma parte integrante della moderna cultura australiana.
Queste seconde generazioni hanno appreso l’italiano?
La comunità italiana, molto grande (circa un milione di persone in tutto il Paese) e ormai alle soglie della terza e quarta generazione, ha un po’ di difficoltà nel mantenimento della lingua. Un po’ c’è il discorso del dialetto che purtroppo, ma comprensibilmente, veniva e viene talora percepito come una lingua di serie B in confronto all’italiano (“proper Italian”). In molte famiglie c’è, o c’era, un bilinguismo inglese-dialetto o inglese-italiano, dove con il passare degli anni e soprattutto delle generazioni l’italiano, e a maggior ragione il dialetto, tende naturalmente a passare in secondo piano rispetto all’inglese.
Nei paesi anglofoni l’inglese è la lingua del riscatto
Sì, è la lingua della società in cui si vive e si lavora. Il mantenimento dell’italiano richiede uno sforzo. Come emigrato mi fa molto piacere contribuire a questo sforzo collettivo di mantenimento e riscoperta della lingua e della cultura italiana.