Queste riflessioni nascono da un progetto collettivo che ha lo scopo di offrire, ai nostri concittadini che risiedono in Italia, alcuni spunti per comprendere meglio l’esperienza migratoria che molti italiani, di diversa connotazione anagrafica e sociale, stanno vivendo in questi anni.
Sebbene il nostro proposito sia quello di rendere maggiore giustizia ai fallimenti e alle conquiste che una tale esperienza può portare, ci teniamo comunque a sottolineare che i pensieri e le osservazioni qui riportate non possono rappresentare nella sua interezza un fenomeno di così vasta portata. Ogni esperienza migratoria è infatti anche personale e influenzata da una molteplicità di fattori, tale da rendere impossibile una sua semplice generalizzazione. I contributi qui riportati sono infatti frutto di un confronto e di riflessioni genuine di un insieme di persone che hanno vissuto la propria esperienza migratoria nella stessa zona geografica del mondo e sebbene possano essere, e siamo convinti lo siano, condivisibili da molti che vivono o hanno vissuto una simile esperienza, probabilmente potranno essere differenti dalla sensibilità di alcuni. Quello di cui siamo certi, è che anche coloro che non condivideranno pienamente, saranno tuttavia d’accordo sull’esigenza che ha ispirato il nostro lavoro: cambiare il racconto che si fa in Italia della recente emigrazione italiana.
C’è infatti un gran bisogno di riflettere meglio su questo fenomeno e il nostro contributo intende proporre alcune osservazioni per arricchire il racconto della nuova emigrazione italiana degli ultimi anni. Un racconto che fino a oggi è stato fortemente strumentalizzato da una parte e largamente banalizzato dall’altra, perdendo quasi completamente, complici soprattutto i media italiani, ma anche alcuni di coloro che di questa ondata migratoria fanno parte, la complessità della questione. Il danno che ciò ha recato a tutti noi non è stato semplicemente soggettivo, nel senso che ha costretto coloro che non avevano trovato «la terra promessa» a nascondere le proprie difficoltà e le proprie frustrazioni (ben presenti invece nell’esperienza di tutti quanti) ma anche collettivo, perché ha passato il messaggio che non ci fosse bisogno di un dialogo stretto con le Istituzioni che ci rappresentano e solo nell’alveo delle quali possiamo tutti vedere rispettati i nostri diritti.
Certamente non pretendiamo di esaurire con questi brevi spunti l’intera questione, anche perché riteniamo che un tema così ampio e complesso, necessiti di un dibattito il più possibile partecipato che possa coinvolgere più nel profondo l’intera opinione pubblica. Il nostro obbiettivo è dunque semplicemente quello di proporre alcune osservazioni che smontino la retorica mediatica e politica sviluppata attorno a questo argomento, in particolare con l’utilizzo di quella definizione tanto in voga dei «cervelli in fuga» che riteniamo «tossica» e «odiosa», ma anche che siano capaci di mostrare quanto sia superficiale il racconto che si fa dell’emigrazione. Cercheremo quindi di evidenziare la differenza, a noi tanto evidente ma che non emerge mai nel dibattito sul tema, tra chi si sposta all’interno dell’area Schengen e chi invece emigra al di fuori di essa e cosa questo significhi sul piano dei diritti sociali e politici; proveremo ad affrontare la questione del «ritorno» e del rapporto tra nuovi emigrati, istituzioni e organismi di rappresentanza; proveremo a raccontare ciò che non si è raccontato degli immigrati in questo difficile anno di pandemia; e infine tenteremo di offrire qualche suggerimento, sia ai decisori politici, sia a chi sta per intraprendere una esperienza di vita fuori dai confini nazionali.
Speriamo che il nostro sforzo possa essere apprezzato da coloro che davvero intendono comprendere meglio il fenomeno della più recente emigrazione italiana e che riesca a innescare un dibattito più serio e approfondito attorno a questo argomento così complesso.
Smontare la retorica mediatica che ci perseguita
Letta con gli occhi di vive all’estero, la storia che la maggior parte dei media italiani offre dell’emigrazione italiana contemporanea trasmette la sensazione spiacevole di quando si beve qualcosa che ha sapore diverso di ciò che ci si sarebbe aspettato e lascia sul volto una smorfia mista tra stupore e insoddisfazione.La maggior parte dei contributi, infatti, sembra essere fatta con lo stampino e si basa solitamente su stralci di interviste a qualche giovane che, almeno sulla carta, «ce l’ha fatta», realizzando all’estero tutto quel potenziale che in Italia era rimasto inutilizzato. E sebbene ogni storia abbia sicuramente un valore e il diritto ad avere spazio, questo rende la narrazione dell’emigrazione un esercizio aneddotico più che una seria e approfondita analisi del fenomeno. Senza contare l’immagine poco convincente e quasi mitologica resa di questa fantomatica entità chiamata «estero», che sembra connotare un unico, enorme, Paese della Cuccagna in cui confluiscono indistintamente tutti i territori al di là delle Alpi, del Tirreno e dello Ionio. «In Italia va tutto a rotoli, invece all’estero », come se in Svizzera, in Uzbekistan e in Malesia funzionasse tutto allo stesso modo e, soprattutto, alla perfezione.
Qual è l’obiettivo, viene da chiedersi, di questa narrazione? Raccontare e spiegare l’emigrazione, oppure «sgridare» l’Italia per qualche sua colpa?
Di certo c’è che il risultato di questa retorica è quello di banalizzare e di non offrire un’immagine corretta su molti aspetti dell’emigrazione. Quasi sempre, ad esempio, si parla dell’emigrazione solo per motivi di lavoro e poco ci si interroga su quali siano le altre ragioni che spingono gli italiani a emigrare, come ad esempio quelle legate ai diritti civili o al bisogno di indipendenza. Quale sia la condizione emotiva che accompagna la partenza. Quali le sfide psicologiche da affrontare quando si lascia il Paese di origine e si cerca di ricostruire la propria vita altrove. Come si trasformi la gestione dei rapporti familiari e di amicizia a distanza. Come vengano affrontati ed elaborati i lutti e le malattie di familiari e amici. Quali e che caratteristiche abbiano le dinamiche dei nuovi rapporti con l’Italia. Quali compromessi comporti il processo migratorio sul piano dei diritti sociali e politici.
Senza porsi le giuste domande, infatti, senza osservare davvero il fenomeno, ma parlandone avendo già in testa quello che è il messaggio che si vuole trasmettere, la visione che emerge non può essere altro che semplicistica e riduttiva, e questo sia che venga offerta da chi osserva dall’Italia, sia (purtroppo accade) da chi l’ha vissuta o la vive in prima persona. Cosa quest’ultima che lascia ancora più contrariati.
E per quanto i dati oggettivi, i numeri, siano generalmente riportati in maniera fedele e ottengano un adeguato livello di attenzione mediatica, il discorso sulla recente emigrazione italiana appare oggi ostaggio di una falsa dicotomia che ne offusca le reali dimensioni e le ripercussioni psico-sociali delle persone coinvolte, di chi lascia e di chi viene lasciato, dell’impatto che l’esperienza migratoria ha sulla salute fisica e mentale delle persone, delle conseguenze importanti sulla vita degli individui e dei loro cari.
Seguito da oltre confine, il filo narrativo proposto dell’ultima generazione di emigrazione italiana appare scorrere sempre su due sentieri, a volte convergenti, di compassione capziosa e di finta indifferenza, che sul piano retorico vengono variamente manipolati dai media a scopi politico-pubblicitari.
Il sentiero compassionevole è quello cosiddetto della «fuga», usato come veicolo di critica al sistema Italia, come la prova vivente che il nostro paese non funzioni. Senza che coloro che ne fanno uso ne siano necessariamente consapevoli, l’argomento della fuga si basa sul famoso ragionamento «exit-voice» dell’economista Albert Hoffman, il quale nei decenni dell’ultimo dopoguerra così classificò le uniche opzioni disponibili per coloro che dissentono di un determinato sistema di potere, sia pubblico che privato, sia democratico che autoritario. Per Hoffman, chi non trova adeguato spazio nel sistema ha due scelte che possono essere alternative o graduali: o protesta apertamente contro il sistema e cerca di cambiarlo da dentro; o esce dal sistema direttamente, o comunque dopo avere tentato invano, e quindi perso la speranza, di cambiarlo a proprio favore.
Il sentiero invece dell’indifferenza, della negazione, ha risvolti soprattutto di consenso politico. Si evita di evidenziare il problema dell’emigrazione e molto spesso lo si scherma con quello, molto meno grave per il Paese, dell’immigrazione. Ottenendo così non solo un appiglio per facili consensi, ma anche utilizzandolo per ripulire una coscienza che, con questo modo di fare, la politica ammette di avere piuttosto sporca. Siccome, infatti, sostanzialmente i giovani lasciano il loro Paese per cercare altrove le opportunità che la politica negli anni non ha saputo creare, raccontare correttamente il fenomeno dell’emigrazione metterebbe in luce le mancanze della classe dirigente.
Sono entrambi sentieri sbagliati, con il primo che non rende giustizia agli sforzi e alle difficoltà di chi emigra e fa una specie di pubblicità ingannevole che invoglia a lasciare l’Italia, scelta che non è affatto detto si riveli facile, o vincente, e che rischia di invogliare alla partenza persone che non ne avrebbero davvero bisogno, o che non sono adatte. E con il secondo che porta al rifiuto di prendere atto delle responsabilità che il Paese ha se tanti suoi giovani preferiscono lasciarlo, non iniziando quindi nemmeno la riflessione necessaria su cosa fare per evitarlo.
In sostanza, il dibattito sul tema della nuova migrazione è carente nell’evidenziare ciò che ogni emigrazione giovanile volontaria in tempi di pace è in ultima istanza, ovvero la rottura del rapporto fiduciario tra generazioni, che fa seguito a processi prima di differenziazione e poi di svalutazione interna del mercato del lavoro. Una graduale rottura che crea una breccia nella struttura portante del contratto sociale tra individui, istituzioni e corpi intermedi, preludio all’emigrazione di massa.
Sarebbe pertanto forse più fruttuoso inquadrare il tema dell’emigrazione come un problema di mobilità sociale intergenerazionale, inserito all’interno di un dibattito sul lavoro e sullo stato sociale a tutto tondo, piuttosto che farne un tema meramente di commercio estero e sviluppo economico, quindi diluendolo nel calderone del prodotto interno lordo e liquidando le sue implicazioni sociali in ambito individualistico.
Il primo punto, per cominciare a fare una analisi più profonda del fenomeno migratorio che sta colpendo la nostra generazione, passa dunque per la presa di coscienza delle sue ragioni sociali, ma anche di quanto esso sia talmente variegato e frastagliato che ridurlo con esempi di storie personali risulti fuorviante e rischi soprattutto di cancellare totalmente i suoi aspetti più complessi e interessanti.
Quando si analizza il fenomeno in termini macroscopici, infatti, l’accento viene posto sui numeri, e sulla presunta vocazione diasporica del popolo italiano che emergerebbe nelle situazioni di crisi globali. Nel microscopico invece, quando si analizza il caso specifico, la parola d’ordine diventa eccellenza assoluta, il che fa pensare a chi parte, come al membro di una classe elitaria di persone, fatta esclusivamente di imprenditori o intellettuali con uno spirito un po’ naif.
Questa combinazione retorica crea l’illusione di un mondo parallelo e fantastico, lontanissimo dalla realtà fatta di persone che, ricercando un minimo di stabilità per la propria vita e non trovandolo all’interno dei confini del proprio paese, hanno semplicemente deciso di superare quei confini, e continuare a cercare. Una massa critica, caratterizzata da una straordinaria normalità, ma che è chiaro sintomo di un fenomeno sociale grave e complesso, e che come tale andrebbe analizzato.
Infine, c’è una parte del fenomeno più delicata e più difficile da raccontare, che è quella di chi fallisce, di chi lascia il proprio Paese pieno di speranze, passa alcuni anni all’estero tra mille difficoltà, ma non riesce a trovare un nuovo equilibrio e, alla fine, è costretto a rientrare a casa frustrato, infelice, spesso più povero di quando è partito, oltre che pieno di risentimento. Queste sono le storie che non vengono mai raccontate, con il risultato che chi le vive si sente uno sconfitto. Invece, fare un racconto più onesto dell’emigrazione, comprendendo anche queste storie, sarebbe molto utile, perché aiuterebbe coloro che non ce la fanno a inquadrare la propria esperienza in modo diverso e a viverla più serenamente. Raccontiamo allora anche le esperienze negative e facciamo in modo che il rientro non venga vissuto come un fallimento, ma anzi come un possibile primo passo per contribuire al futuro dell’Italia. Raccontiamo allora anche di chi è tornato, magari perché l’Italia è la prossima tappa della sua vita, o magari perché all’estero non è andata così bene come ci si aspettava.
Capiamo che vivere in un altro Paese non significa solo trovare l’Eldorado e si è sempre un po’ stranieri, che usare la migrazione per criticare l’Italia senza aver mai avuto davvero una lunga e strutturata esperienza di vita fuori di essa è molto superficiale, che mettere su una famiglia lontano dalle reti di sostegno della propria famiglia di origine è impresa non da poco. Chiediamoci perché il sentimento purtroppo più diffuso tra chi lascia il nostro Paese sia quello della sfiducia nelle istituzioni, nel poter costruire un futuro almeno dignitoso in Italia, di profonda insoddisfazione e disillusione. Chiediamoci perché il proprio paese d’origine venga percepito come totalmente incapace di esaudire aspirazioni e sogni.
Chi è partito, si porta dietro tutto questo, prima di tutto. E seppur carico di entusiasmo, arriverà un momento nel corso della sua esperienza in cui l’avventura d’improvviso finisce e ciò che sembrava nuovo diventerà estraneo. È infatti molto spesso con questa disillusione che comincia davvero l’esperienza della migrazione.
Sebbene sia infatti indubbio il fatto che una esperienza di vita all’estero restituisca molto a livello di crescita personale, non è difficile incontrare spesso sui volti dei nuovi emigrati, al di là della proattività necessaria per continuare ogni giorno ad arricchire la propria esistenza, un velo di malinconia. Il segno indelebile di chi ha dovuto trattenere il respiro un po’ troppo a lungo, di chi convive con l’incertezza e l’instabilità, di chi con pazienza affronta i sacrifici, come fa ogni giorno anche chi è rimasto in patria. Di chi, pur avendo trovato il successo e una carriera, è provato dalle distanze, non solo geografiche ma anche sociali e culturali: come dei piccoli scalini che compaiono qua e là a complicare la vita di tutti i giorni.
Avviso ai naviganti: parlare di «cervelli in fuga» è ormai diventata una presa in giro
Sulla trovata retorica dei «cervelli in fuga» è necessario soffermarsi con particolare attenzione, perché nonostante le critiche di cui è stata oggetto negli ultimi anni –la più brillante delle quali è certamente quella di Samuele Mazzolini – viene rilanciata puntualmente con la ‘complicità’ di ricercatori universitari che lavorano all’estero e che sembrano essere spinti dalla disperata ricerca di una qualche forma di riconoscimento personale, piuttosto che dall’intenzione di dare una visione critica del fenomeno di cui fanno parte, come la definizione della quale si fregiano dovrebbe suggerirgli di fare. E quel che è peggio, è che questi «cervelli in fuga» e coloro che li portano ad esempio del fenomeno migratorio, non si rendono nemmeno purtroppo conto di come l’accettazione acritica di questo appellativo arrechi molti danni alla comprensione effettiva del fenomeno che sta investendo il nostro Paese. Per provare a spiegargli in che modo queste banalizzazioni siano deleterie, sia dal punto di vista della comprensione, che sul piano sociale, partiamo proprio dalle efficaci parole di Mazzolini (2017):
C’è un’ulteriore e ben più grave responsabilità da parte di chi orchestra e incasella il flusso delle notizie. All’opinione pubblica è stato infatti insinuato il discorso dei cervelli in fuga, una narrazione tossica che sposta l’attenzione dalla radice del problema. Secondo questa retorica, la questione si esaurirebbe in un drenaggio delle nostre migliori menti, ostacolate da baroni universitari nepotisti e aziende incapaci di valorizzare le abilità dei giovani più dotati. Si parla di quel merito che l’Italia, invece di mettere in luce, farebbe scontare come un peccato. Così facendo, si spaccia una parte per il tutto, ma senza che questa parte sia sufficientemente rappresentativa del tutto.
A migrare, infatti, non sono solo grandi menti spesso effettivamente boicottate, ma anche e soprattutto gente che pratica professioni comuni: baristi, infermieri, panettieri, muratori, giovani ancora alla ricerca della propria vocazione, così come tanti lavoratori cognitivi che non sono necessariamente dei fenomeni. Se c’è una cosa odiosa è quella di separare i destini dei primi dai secondi, cercando di imporre delle storie individuali su un fenomeno collettivo»1. finisce qui la citazione?
Oltretutto, a parte i pochi che ancora si sentono «cervelli in fuga», questa definizione sta stretta anche alla maggior parte delle persone «di intelletto»a cui dovrebbe riferirsi. Proprio gli accademici, i ricercatori, per i quali l’esigenza di formazione e confronto continuo è una parte essenziale della loro carriera professionale, vivono infatti l’esperienza all’estero non come una fuga, ma piuttosto come una necessità per continuare a formarsi e migliorare il proprio ‘status’ in quello che è ormai un contesto internazionale.Questo non significa certo che non subiscano come tutti gli altri le difficoltà insite in tale esperienza ma, proprio per questo, l’etichetta a loro assegnata risulta anche per loro stessi limitante e approssimativa. Non si emigra infatti portandosi appresso solo il cervello, ma anche la pancia, il cuore, le gambe, ogni parte di noi.
Di conseguenza tra i topoi della retorica migratoria, quello del «cervello in Fuga» è certamente il più noto e, allo stesso tempo, odioso. Di questa figura retorica, a nostro giudizio, non si salva neanche la preposizione semplice.
La sineddoche del «cervello», utilizzata per riferirsi al migrante italiano, implica un giudizio di valore duplice e doppiamente sbagliato: da un lato, sembrerebbe che chi parte sia più intelligente di chi resta, dall’altra non fornisce nessuna rappresentazione della stragrande maggioranza degli emigranti che lascia il proprio paese non aspettandosi di cimentarsi in una professione strettamente intellettuale.
Anche l’iperbole della «fuga», poi, è poco calzante. Data la struttura sempre più circolare della mobilità moderna, l’idea del ritorno, anche solo momentaneo, è sempre presente nell’esperienza dei nuovi italiani all’estero. Dall’Italia quindi non si fugge, ma si parte alla ricerca di condizioni di vita migliori di quelle che si sono lasciate, e qualora questo miglioramento non si riscontri, non è possibile escludere totalmente di riparare nuovamente nella Penisola.
Nei numeri dell’emigrazione italiana, dunque, come giustamente sottolineato da Mazzolini, ci sono accademici, ci sono globalisti, ma ci sono anche tante, tantissime, persone per cui spostarsi non è un’occasione, bensì una scelta semi obbligata. E questa definizione, ormai così banale, esclude chi non svolge professioni intellettuali o possiede titoli di studio superiori. Come pretenda di abbracciare un fenomeno migratorio ignorando le centinaia di migliaia di giovanissimi che lasciano l’Italia in cerca di un lavoro qualsiasi, spesso fuori da qualsiasi forma di welfare sociale, e con stipendi non certo astronomici, resta un enigma.
Si dirà: «questa è una definizione che vuole mettere l’accento sulle eccellenze intellettuali che l’Italia sta perdendo dopo aver formato, una emorragia che anche in termini economici è drammatica e per fermare la quale bisogna fare pressione sulla classe dirigente. Questo appellativo è dunque funzionale a tutto ciò». Eppure, con tale retorica, non solo si impone, come abbiamo detto, una banalizzazione del fenomeno, ma ci sono forti dubbi che sia utile a responsabilizzare una classe politica che si muove sul consenso. In un’Italia che sta vivendo una crisi sociale di vaste dimensioni non si capisce infatti come si possa pensare che la sorte di un numero più o meno ampio di intellettuali, ricercatori o accademici, i quali si spostano in università estere a continuare la propria professione in un contesto tutto sommato «protetto», possa muovere le coscienze di una maggioranza che sicuramente a questa esperienza non si sente affatto vicina. I media italiani appaiono così talmente presi dai propri intenti moralizzatori, che non solo mancano completamente la propria funzione di osservatori attenti della realtà, non solo sono carenti nella propria vocazione di spiegare quella realtà e renderla il più possibile intellegibile, ma finiscono pure per creare fratture in quell’insieme sociale che vive l’esperienza migratoria, e tra questi ultimi e coloro che invece hanno fatto scelte diverse, restando o tornando in patria. Sembrerà strano a chi non è all’estero, ma è forse per esorcizzarne questo risvolto così negativo, che quella del «cervello in fuga» è stata trasformata nelle nostre comunità in una vera e propria presa in giro. Forse sarebbe meglio che i media italiani e anche i pochi accademici che ancora ci si riconoscono, ne tengano conto.
La tirannia della geografia: emigrazione europea ed extraeuropea
Abbiamo già accennato di quanto sia superficiale questa definizione di «estero» come di un unico territorio uniforme che comprende tutto ciò che si estende oltre l’Alpe e Sicilia e che sembra accomunare chi vive a Lugano con chi emigra a Riad, chi apre una startup a Bombai con chi studia a Oxford, chi fa pizze a New York, con chi raccoglie frutta a Griffith, nel New South Wales.
Ecco, ancor prima di analizzare il fenomeno migratorio nella sua interezza e nei risvolti sociali che esprime, sarebbe molto utile capire che per un italiano esistono due macroaree delle quali è necessario comprendere le enormi differenze: quella Schengen e quella extra-Schengen.
La vita, principalmente a causa di un sistema di pensiero distorto che permette molta più libertà di movimento alle merci e ai capitali piuttosto che alle persone, e che di conseguenza assegna ai primi un diritto fondamentale che spetterebbe soprattutto ai secondi, è molto diversa se ci si trova all’interno dei confini dell’Unione Europea o al di fuori di essi. Possiamo dire con certezza che non si apprezza così tanto Schengen finché non se ne esce e ci si accorge di quanto quel confine delimiti uno spazio ideale. Perché nonostante le forti ed evidenti criticità dell’impianto e della direzione della Comunità Europea, non si può negare che all’interno di essa siano garantiti a un cittadino italiano quei diritti essenziali che non sono invece affatto garantiti altrove. Fuori da quel perimetro, infatti, non c’è nessun welfare sociale garantito, nessun sostegno alla disoccupazione, nessuna assistenza sanitaria, nessuna istruzione gratuita per i figli, nessun diritto politico. E per fortuna che esiste almeno il tanto bistrattato voto italiano all’estero, se no, a una grande fetta di giovani italiani sarebbe praticamente cancellato lo status di cittadino facente parte, da qualche parte, di una comunità politica democratica dove poter esprimere il proprio pensiero. Questo aspetto del sistema italiano, che rappresenta la punta massima dell’ideale di cittadinanza in un mondo sempre più globalizzato e in movimento, dovrebbe far riflettere molto attentamente i suoi numerosi detrattori.
Ma a parte i diritti, che a noi sembrano un punto centrale nel discorso migratorio, ma che sui media e nel dibattito politico sono completamente ignorati, la geografia esercita ovviamente la propria tirannide anche in altri modi. Il primo è certamente quello della distanza. Nonostante oggi infatti lo sviluppo tecnologico colmi di molto questo aspetto, è innegabile la grande differenza esistente tra chi si ritrova o si sceglie di vivere a un’ora e mezza di aereo dalla propria città, con voli low cost, magari la stessa valuta e un’indubbia vicinanza culturale (shock gastronomici a parte) o a venticinque ore di viaggio in aereo. Per coloro che sono molto lontani, o in contesti culturalmente parecchio differenti da quelli nei quali si è cresciuti, la percezione dell’esperienza migratoria è ovviamente molto diversa da chi ha deciso di spostarsi in Francia, Spagna, Germania o Svizzera.
C’è un lato di questa riflessione che è abbastanza scontato, ossia che non si sentirà una mancanza così forte se si può ritornare a casa ogni fine settimana, né il tema del ritorno in Italia sarà certamente percepito come una questione costante nella propria vita. Ma ce ne sono anche altri molto più sottili, che in pochi, tra i media, hanno preso in considerazione. Chi vive molto lontano, o in contesti culturalmente molto differenti da quelli italiani, finisce prima o poi per cominciare a rivalutare l’Italia, ad apprezzarne quelle cose semplici, ma importanti, che si davano per scontate. Spesso infatti vivere fuori dal nostro Paese ci aiuta anche a rivalutarlo, capirne la bellezza e la ricchezza sociale e culturale, apprezzarne il sistema educativo tra i migliori al mondo e il sistema sanitario aperto a tutti, mentre viverci per tutta la vita a volte ci fa vedere solo i problemi e ci scoraggia. La distanza dall’Italia insomma diventa un fattore determinante non solo nella percezione che si ha della propria esperienza all’estero, ma anche nella visione che si è sviluppata dell’Italia rispetto a quando ci si viveva. È per questo che la politica dovrebbe essere aiutata prima di tutto a comprendere come una esperienza all’estero non sia solo negativa, per chi vuole e ha la possibilità di affrontarla, ma molto negativo è il fatto che non ci siano, per coloro che escono, le possibilità reali, strutturate e serie, di poter rientrare. Facciamo dunque in modo che la politica si prenda in carico questa responsabilità e non diamogli la possibilità di utilizzare l’emigrazione come valvola di sfogo del malcontento sociale, ritardando i cambiamenti e le evoluzioni necessarie al Paese.
Il tema del ritorno
Collegato dunque alla condizione di chi per molto a lungo ha vissuto lontano da casa, fatalmente il tema del ritorno si fa pervasivo, seppure in dosi e dinamiche diverse lungo l’arco di ogni esperienza. Col senno di poi, infatti, si comprende che nei primi anni di vita all’estero il ritorno non è apertamente preso in considerazione, in quanto schizofrenicamente dato per scontato, o assolutamente negato, a seconda del contesto emotivo del periodo più intenso, difficile ed esaltante dell’emigrazione. Con il passare poi dei giorni, dei mesi e degli anni, cresce però anche la consapevolezza che più a lungo si rimane in un posto e più arduo diventerà lasciarlo, perché come una pianta, anche gli emigranti cominciano ad adattarsi sempre di più al nuovo habitat, mettendo lentamente radici.
Sebbene il tema del ritorno sia dunque assolutamente presente e con una parte di sé ognuno di noi guardi spesso indietro, il sentimento che prevale nei confronti di questo stato d’animo è spesso ambiguo. Da un lato si è consapevoli che, rispetto a una volta, emigrare non è più una strada a senso unico e che la possibilità di tornare resta sempre aperta. Anche perché, come già anticipato, vivere all’estero spesso ti fa apprezzare ancora di più i tanti aspetti meravigliosi del nostro Paese e magari ti fa dimenticare quelli negativi. Dall’altra, però, proprio perché vivere all’estero richiede grandi sacrifici, si guarda all’idea del ritorno cercando di mantenere una certa freddezza, si prova un senso di paura per ciò che potrebbe diventare un’illusione di cui pentirsi amaramente e spesso ci si trova a dirsi che non è ancora giunto il momento.
Inevitabilmente il ritorno resta tuttavia un aspetto presente nelle proprie riflessioni (quasi) quotidiane. Si sente dire tante volte che emigrare oggi non è come emigrare una volta perché è facile sentirsi, è più facile vedersi. Siamo d’accordo, ma non del tutto. Perché sebbene sia innegabile che la tecnologia abbia reso i contatti più facili, i trasporti siano più veloci e abbordabili di un tempo, resta il fatto che anche oggi emigrare significa non vivere più la quotidianità di chi si lascia nel proprio Paese. Inevitabilmente i legami si modificano. Sentirsi per telefono e vedersi una volta ogni 1-2 anni permette di nascondere tante piccole-grandi cose, cosa che avveniva con i migranti di una volta e avviene tutt’oggi.
Per molti, dunque, il desiderio di tornare fa capolino a fasi cicliche, più che altro dovuto al fatto che si è lasciata la famiglia d’origine in Italia. Per altri, nei confronti dell’Italia c’è un sentimento ambiguo e che alterna fasi di amore e odio profondi. Per altri ancora prevale l’esigenza di dare un senso all’esperienza che si è intrapresa, finché non ci si sente pienamente soddisfatti. Per alcuni, infine, questa esperienza si trasforma invece a un certo punto in un prezioso carico di conquiste volte ad arricchire il paese a cui vogliamo tornare. Per tutti o quasi poi l’esperienza migratoria va a fasi: c’è lo slancio iniziale in cui si è totalmente proiettati in avanti e non si pensa minimamente a guardarsi indietro. Quindi, arrivano dei momenti in cui anche la vita all’estero diventa vita quotidiana, con la sua routine e le sue magagne. Ci sono i rientri in Italia (in cui si è «a casa» o «via da casa» non si capisce bene) e le contrastanti emozioni che si provano ogni volta: da una parte l’amarezza di dire arrivederci a chissà quando a parenti e amici, dall’altra il sollievo di poter sfuggire a tanti problemi perché si vive lontani.
La precarietà, dunque, torna anche qui a essere tratto caratterizzante dell’esperienza di vita della nostra generazione e diventa anche l’insondabile misura del nuovo fenomeno migratorio che stiamo vivendo: precario è il percorso burocratico, precaria è la situazione emotiva, precaria è la rete di conoscenze, precarie diventano le amicizie e perfino i rapporti con i propri cari. Precaria è anche la situazione da cui partiamo: precaria l’esperienza lavorativa nel periodo post-laurea, precaria la fiducia nel futuro del Paese che lasciamo e precaria la possibilità di realizzarvi le proprie aspettative e potenzialità. Precaria è anche la capacità, o meglio la volontà, di comprendere il valore dell’esperienza vissuta all’estero e di quanto possa essere fondamentale anche al fine di migliorare il Paese che abbiamo lasciato. E quest’ultimo è un altro particolare importante che la politica stenta a capire, così come l’opinione pubblica, perché nessuno più di chi lo ha vissuto sulla propria pelle e con il sacrificio del proprio tempo, può comprendere e interpretare la differenza tra assimilazione e integrazione, la distanza tra respingimenti e solidarietà, l’abisso tra razzismo e accoglienza.
L’effetto di questa situazione di precarietà ti fa sempre sentire sospeso e genera una sensazione di isolamento con cui il migrante deve confrontarsi costantemente perché parte stessa dell’esperienza che sta vivendo. Così come lo è la solitudine. Un sentimento che, se chi l’emigrazione vuole raccontarla fosse capace di vedere davvero, si coglie sempre, celato dietro ai racconti edulcorati di una vita nuova, di un Paese pieno di opportunità. Perché nonostante un buon lavoro, o più spesso un umile lavoro ben remunerato, una casa, la relativa tranquillità economica, i piani per un futuro normale, isolamento e solitudine sono sempre dietro l’angolo. Generano amarezza e frustrazione, sentimenti che sono predominanti proprio in molti di coloro che con i propri racconti sono ansiosi di dimostrare invece il proprio successo personale, i traguardi raggiunti, ma che poi spesso in privato sono i più critici non solo con la nuova realtà in cui si trovano, ma anche con il Paese che hanno lasciato. E l’aspetto più triste è che queste difficoltà e ambiguità innescano perfino un sentimento di rifiuto per ogni forma di solidarietà con i propri connazionali espatriati, tanto che a volte si ha la percezione siano valutati a seconda del tempo in cui sono stati capaci di stare lontani da casa, come se ogni anno sia una stelletta da portare sul petto.
Il punto è che, volenti o nolenti, ci si trova tutti prima o poi a confrontarsi con una forte crisi di identità. Ci si trova in un certo momento a chiedersi a quale Paese si appartenga davvero. Finché non si arriva alla conclusione che non c’è l’obbligo di scegliere un’unica identità, ma che è anche possibile navigare attraverso diverse identità culturali in maniera fluida, perché uno dei tratti caratterizzanti dell’identità, come della cultura, è da sempre nella storia quello di realizzarsi nel confronto e nella fusione di mondi diversi. In tal modo accrescendone, invece che diminuendone, il potenziale espressivo e il significato più profondo.
Il lavoro di trovare lavoro
Tra le molte incongruenze nel racconto che si fa dell’emigrazione c’è anche quella che investe il mondo del lavoro all’estero. Proprio come in Italia, infatti, trovare un lavoro in un Paese straniero può essere una vera impresa. Prima anche solo di immaginare di trasferirsi è dunque fondamentale informarsi bene sulla reale situazione del mondo del lavoro locale, diffidando dell’immagine paradisiaca che è stata trasmessa e del pregiudizio positivo che spesso abbaglia.
Se ci si basa sulle storie di successo raccontate generalmente dai media si può infatti andare incontro a dure delusioni. Per la maggior parte, quelle storie raccontano di persone che sono partite con un lavoro già in tasca, con contatti o familiari nel Paese di destinazione, o con una educazione di alto livello che gli permetteva di inserirsi in settori particolari, come per esempio quello accademico. Come in Italia, ovunque nel mondo, l’unico modo di trovare più facilmente un lavoro è infatti essere altamente specializzati in un campo molto preciso e in cui scarseggino le professionalità, oppure di essere disposti a svolgere mansioni che altri non vogliono svolgere, generalmente poco qualificate e localizzate in aree disagiate del Paese. Chi non ha qualifiche professionali particolari, all’inizio si arrangia e cercando lavoretti che spera siano temporanei, come quelli offerti dalla gig economy o in settori dove gli italiani sono comunemente presenti, come ad esempio quello della ristorazione. Inoltre, appena si esce dall’Italia e dalla bolla del diritto dei Paesi Schengen, ci si scontra con ostacoli come la necessità di un visto, la diversità delle regole, il non riconoscimento del titolo di studio, la mancanza di rete sociale, la differenza linguistica e culturale, il pregiudizio etnico, e tanti altri.
Dunque, l’unico modo per avere un percorso chiaro davanti a sé, è quello di ricevere un’offerta di lavoro da un’azienda qualificata quando si è ancora in Italia, e quindi partire con un visto solido e il lavoro assicurato. Come si intuisce facilmente, si tratta di una dinamica estremamente rara. Inoltre «percorso chiaro» non significa facile, e nemmeno che porti di sicuro a un visto permanente: significa solo che ci si mette relativamente al sicuro dalle brutte sorprese più comuni.
In Australia, ad esempio, quella dei visti è una vera e propria corsa a ostacoli. Il sistema australiano è costruito sulle esigenze del Paese e delle sue imprese, non certo dei lavoratori e tanto meno dei lavoratori stranieri. Inoltre, le regole cambiano – a volte radicalmente – due volte l’anno, richiedendo spesso il ricorso alla consulenza di costosi agenti d’immigrazione. Insomma, se non si ha tra le mani un’occasione lavorativa solida come quella descritta in precedenza, spesso è meglio non illudersi sulle proprie reali possibilità e prepararsi a una battaglia non facile.
La trafila più comune è un percorso quasi obbligato e difficilmente a lieto fine, una trappola in cui le aspirazioni si scontrano con le leggi, le aspettative con la dura realtà. Tipicamente si arriva in Australia con tanti sogni, ma un semplice working-holiday visa, che obbliga a cambiare lavoro ogni 6 mesi, impedisce esperienze durature e costringe ad affrontare le famigerate farm (esperienza che alcuni raccontano come il periodo migliore della propria vita, altri come il peggiore). A quel punto si conquista l’agognato diritto a un secondo anno di working-holiday visa, ripetendo semplicemente la trafila del primo anno. E ancora niente sponsor… A quel punto pur di rimanere nel Paese, in genere si passa allo student visa, iscrivendosi a qualche corso di formazione spesso estremamente costoso e dalla dubbia utilità, con in più il problema di poter lavorare per legge solo 20 ore a settimana. Per arrotondare si lavora in nero, passando nell’illegalità esponendosi a situazioni di sfruttamento.
Il caso australiano è tipico per comprendere che nella ricerca di lavoro all’estero ci sono aspetti che non vanno sottovalutati.Tra questi, per chi ha studiato, c’è il non riconoscimento del valore legale del titolo di studio italiano che anche se lo fosse, sarebbe utile solo in parte, visto che come in Italia la maggior parte dei datori di lavoro considerano il «pezzo di carta» solo un indizio sulle nostre capacità, non una garanzia di ciò che sappiamo fare.
Paradossalmente poi, alcune delle lauree più «pesanti» in Italia, le più tecniche, che dovrebbero essere valide per tutto il mondo, all’estero potrebbero risultare deboli, perché richiedono esami integrativi, costosi test di accesso agli albi locali o perfino l’iscrizione da zero a un corso di laurea nel Paese in cui si decide di emigrare. Al contrario, professioni poco valorizzate in Italia potrebbero essere molto ricercate e mediamente, anche ben pagate. Cruciale, dunque, è bene ripeterlo, la conoscenza del contesto.
Spesso si arriva all’estero con il falso mito della meritocrazia, credendo che in Italia le nostre doti non siano state riconosciute e che invece altrove troveremo giustizia. Poi, le difficoltà iniziali ci fanno rendere conto che in realtà tutto il mondo è paese e la meritocrazia un’invenzione per la coscienza di chi parte avvantaggiato. Senza un network di contatti o esperienze sviluppate localmente, infatti, è molto difficile entrare in un mondo del lavoro diverso da quello che siamo stati abituati a conoscere.
Nei Paesi anglosassoni, ad esempio, contano moltissimo le referenze, il giudizio positivo di chi ha avuto a che fare con te nel lavoro precedente. Il networking diventa quindi la referenza 2.0. Per trovare lavoro è importante conoscere persone che conoscono persone, scambiarsi informazioni, entrare in una cerchia di professionisti che possano metterti in contatto con chi cerca qualcuno col tuo profilo. ÈÈ difficile e ci vuole tempo, ma ogni altra strada sembra meno efficace. In alcuni Paesi, un dato molto differente rispetto all’Italia, è quello della mobilità nel mondo del lavoro, per cui il secondo lavoro dovrebbe arrivare più facilmente del primo e in generale sarà più semplice fare carriera.
Al di fuori dell’Europa, tuttavia, bisogna sempre tenere a mente che per accedere a posizioni più qualificate, o a contratti stabili, resterà comunque discriminante il tipo di visto inizialmente a disposizione. È necessario dunque essere consapevoli che trovare un’azienda disponibile ad assumervi rispetto a un lavoratore locale, e soprattutto alle stesse condizioni contrattuali, è statisticamente un’eccezione e se ad esempio il sogno australiano raccontato superficialmente parla di camerieri italiani che diventano rapidamente manager di ristorante, i dati dicono che sono molti di più i laureati italiani che fanno i camerieri.
Questo aspetto ha a che fare con la nostra percezione di noi stessi, col metterci veramente a confronto con un nuovo mondo del lavoro, con l’accettare che anche il nostro valore – come l’ambiente che ci circonda – è radicalmente cambiato dopo l’emigrazione. Spesso questa nuova consapevolezza inizia con un gelido bagno di umiltà e con lo scendere a compromessi col nostro orgoglio, ma anche con il prendere coscienza che al di fuori del tuo Paese tu sarai sempre e comunque uno straniero. Il che non è sempre un aspetto negativo, anzi, perché come italiani abbiamo la fortuna di avere la nostra cultura che ci precede, e che è apprezzata in tutto il mondo, e le generazioni di emigrati precedenti alla nostra che hanno aperto la strada. Tuttavia, è una condizione con la quale bisogna saper fare i conti e che in alcune occasioni può essere più limitante di quanto possiamo immaginare.
Un problema che invece di solito si intuisce in anticipo è quello della diversità linguistica e culturale. Ma forse, anche qui, se ne capisce davvero la portata solo quando ci si trasferisce e si comincia a confrontarsi con il mondo del lavoro. Non a caso si parla di cultural-shock.
L’apparenza infatti inganna. A un’occhiata superficiale o a una visita come turista, tutto sembra relativamente facile, ma quando si tratta di stabilirsi e cercare lavoro, ci si scontra con una realtà ben diversa. La sensibilità delle persone, ciò che danno per scontato, il substrato culturale che li accomuna fin dalla nascita e che li differenzia da noi stranieri, sono fattori invisibilelementoi e inattesi, che creano inciampi quando meno te lo aspetti.
La lingua e la capacità di esprimersi diventa dunque un elemento centrale. Per poter lavorare in un Paese estero e integrarsi nella società, conoscere bene la lingua è fondamentale e può determinare la riuscita dell’intera esperienza migratoria.
Insomma, trovare lavoro in Australia, come in altre parti del mondo, non è impossibile, ma di certo è meno facile di come viene in genere raccontato. Per intraprendere questa avventura bisogna informarsi molto, avere forti motivazioni e capacità di mettersi in gioco. Si tratta di un’impresa che va affrontata con consapevolezza, senza caricarla di aspettative irrealistiche. È importante essere determinati, ma al tempo stesso essere pronti ad accettare un eventuale insuccesso e avere un piano b.
I nuovi emigranti, le comunità tradizionali, gli organismi di rappresentanza e le istituzioni diplomatiche
Quando la nuova emigrazione italiana entra in contatto con quella che è la comunità italiana all’estero tradizionale, figlia delle migrazioni del passato e ormai pienamente inserita nella nuova realtà, il primo sentimento che si prova è quello di uno shock spazio-temporale.
Ci si rende conto immediatamente della distanza, non solo generazionale, ma anche culturale e valoriale che ci separa come un abisso. Inizialmente questa situazione crea inevitabilmente un allontanamento da entrambe le parti. Tra i nuovi immigrati emerge una diffidenza dovuta, da una parte, al riattivarsi di alcuni di quei sentimenti che hanno fatto maturare l’idea di lasciare l’Italia, perché nel relazionarsi con i connazionali di passata emigrazione si riscontrano atteggiamenti e sensazioni tipiche di una realtà italiana che si è voluto abbandonare; dall’altra si ha una aspettativa, per certi versi ingenua, che la comune nazionalità spinga i vecchi emigrati a offrire un supporto o un aiuto per l’inserimento nel nuovo contesto sociale in cui ci si trova, in particolare dal punto di vista del lavoro. Molto spesso però questo non accade, o non è così automatico come qualcuno si aspetterebbe, e pertanto si sviluppa quella reciproca distanza difficile poi da colmare. Sebbene infatti tra nuovi e vecchi emigrati i punti di contatto e comunanza non siano pochi, il problema è che, di fatto, si appartiene inevitabilmente a due classi sociali molto distanti. Con il tempo però questa distanza si va attenuando, anche se il processo è molto lento e complesso. A favorirlo dovrebbero essere soprattutto le associazioni o gli organismi di rappresentanza, ma da un lato le nuove generazioni di italiani sono affette da una grande sfiducia, maturata in Italia, rispetto a tutte le forme di aggregazione sociale, politica e sindacale causata da quella rottura del patto sociale di cui abbiamo già parlato in precedenza. Dall’altra le stesse organizzazioni di rappresentanza, o le associazioni locali, si dimostrano difficilmente permeabili e poco attente alle esigenze della nuova migrazione, anche in quei rari casi in cui i migranti di recente arrivo esprimono una volontà di coinvolgimento o apertura. Strutture come quelle dei com.it.es. o dei cgie, ad esempio, restano sconosciute alla stragrande maggioranza dei nuovi emigrati, mentre il loro ruolo principale dovrebbe essere proprio quello di favorire l’integrazione dei connazionali all’interno della società di adozione. Questo non solo fa emergere un’esigenza di profondo rinnovamento di queste realtà, ma dovrebbe allo stesso modo far riflettere le istituzioni italiane sulla necessità di sviluppare un sistema di informazione riguardo a esse, rivolto a coloro che vogliano intraprendere l’esperienza migratoria, da implementare prima di tutto in Italia.
Per una emigrazione tradizionale che ormai è ben inserita nel tessuto locale, e che ha a disposizione forme di espressione politica e sociale legate al contesto territoriale, grazie all’acquisizione della cittadinanza nella nazione in cui risiede, è ovvio che le organizzazioni di rappresentanza italiane all’estero assumano una importanza molto marginale. Al contrario, per coloro che sono all’inizio della propria esperienza migratoria e soprattutto per coloro che si trovano a risiedere al di fuori dello spazio Schengen, le strutture di rappresentanza come i com.it.es e i cgie diventano invece un importante strumento di espressione politica e un essenziale canale nel dialogo con le Istituzioni e l’opinione pubblica italiana. Oggi, tuttavia, non rivestono affatto tale ruolo ed è per questo che una loro riforma, per renderle davvero efficaci in questo senso, è estremamente necessaria. Una riforma che, ad esempio, dovrebbe tendere a incrementare l’accesso alle cariche nei com.it.es. e cgie a coloro che non hanno ancora la cittadinanza del Paese di accoglienza, ma possiedono solo ed esclusivamente quella italiana, incentivando in questo modo la partecipazione degli emigrati più recenti. Finché questa e altre riforme non verranno implementate, non stupisce come il giudizio espresso dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani di nuova emigrazione riguardo a queste strutture risulti spesso fortemente negativo, o al massimo indifferente, vista la poca conoscenza che c’è di esse e del loro ruolo nel contesto delle comunità italiane all’estero.
Un giudizio che invece è molto più positivo di quanto ci si aspetterebbe rispetto alle strutture diplomatiche o culturali che lo Stato italiano mette a disposizione in maniera capillare in tutto il mondo è che sono una assoluta peculiarità. Nonostante la disaffezione sempre presente nei nuovi migranti nei confronti delle Istituzioni in generale, si nota una più attenta vicinanza e un crescente apprezzamento per le istituzioni diplomatiche man mano che l’esperienza migratoria dei nuovi migranti si fa più strutturata e lunga nel tempo. Le iniziative degli Istituti di Cultura e il supporto della rete Consolare offrono un servizio in netto miglioramento e svolgono una funzione nei territori che ha un ruolo molto importante non solo per quanto riguarda la materia burocratica, ma sempre di più anche a supporto delle iniziative imprenditoriali della nuova migrazione e di un suo più generale inserimento all’interno del contesto locale. È forse nella direzione di un maggiore coinvolgimento delle strutture diplomatiche e culturali nella gestione della nuova migrazione che dovrebbe tendere lo sforzo della politica italiana, assegnando a più ministeri, non solo a quello degli Affari esteri, ma ad esempio anche a quello dei Beni culturali e dell’Istruzione, del Lavoro e dello Sviluppo Economico, il compito di creare sinergie strutturate che permettano alla nuova migrazione non solo di inserirsi nei contesti locali, ma anche di sviluppare rapidamente le proprie potenzialità. Ad esempio, attraverso percorsi volti alla diffusione della cultura e della lingua italiana, del gusto e dei costumi italiani in tutto il mondo, favorendo così l’export e il turismo, ma prevedendo anche uno scambio tra territori esteri e madrepatria molto più intenso su diversi livelli, in un mutuo rapporto di reciproco vantaggio e promozione. Ricostruendo così anche quei legami tra l’Italia e i tantissimi giovani italiani all’estero e invertendo quella tendenza di diffidenza e sfiducia, per trasformarla in un comune sforzo di riavvicinamento, teso persino favorire il rientro di molti che, con la propria esperienza internazionale, potrebbero contribuire in modo sostanziale alla crescita del Paese in termini non solo economici, ma soprattutto sociali, civili e politici.
Dove sono finiti tutti: ovvero la pandemia e gli emigrati oltre i confini
La pandemia iniziata nel 2020 sta cambiando molti aspetti delle nostre vite. Per noi emigrati ha cambiato la prospettiva sui confini, sul futuro, e sul ritorno. I confini sono improvvisamente tornati rigidi, il ritorno sospeso tra un presente difficile e un futuro sempre più incerto. Molti di noi hanno sempre viaggiato e costruito la loro vita all’estero con la certezza, però, di poter tornare dalla propria famiglia e nel proprio Paese in ogni momento e con relativa facilità.
Da questo punto di vista l’Australia rappresenta un caso estremo di riferimento, in quanto i confini internazionali sono stati chiusi per oltre un anno e ancora oggi non c’è alcuna imminente prospettiva di riapertura, con forti limitazioni alla libertà di movimento e alla possibilità di lasciare il Paese. A questo si aggiunge l’estrema difficoltà nel poter rientrare in Australia dall’estero, con liste di attesa e incertezza sui voli e sui costi. Mentre le ondate migratorie continuano a infrangersi sugli scogli eretti a difesa dei confini, l’esperienza dell’emigrato e il racconto che se ne fa rimane paragonabile proprio a un’onda. Ciò che traspare sono i riflessi spumeggianti sulla cresta dell’onda, con esperienze di successo estremo o estrema drammaticità. All’attenzione dei media risalta l’eccellenza dello scienziato che scopre un vaccino in un centro di ricerca all’estero, oppure la traumatica anabasi del ricongiungimento familiare attraverso le chiusure delle frontiere.
Ma la di là della spettacolarità di queste storie ci sono le migliaia di esperienze di coloro che hanno deciso, o sono stati costretti, a rimanere dall’altra parte dei confini. Per la maggior parte di questi, per la maggior parte di noi, questo periodo ha accresciuto le increspature e il carico di conflitti che si accavallano nel corpo dell’onda.
Alcuni hanno provato a tornare, affrontando spese enormi per prenotare diversi voli poi cancellati. Molti hanno perso il lavoro durante il lockdown e da queste parti chi aveva un visto temporaneo non è stato compreso negli aiuti governativi, ritrovandosi così in breve tempo in situazioni di grave indigenza, soffrendo più che mai la mancanza di una rete sociale e familiare di supporto; molti hanno fatto sforzi enormi per resistere, cercando di sopravvivere, e si sono sentiti abbandonati dalle istituzioni locali. Il racconto dei media si è concentrato molto su chi ha tentato di rientrare in Italia, mentre poco si è parlato dei tanti che hanno scelto di non farlo, magari perché non se la sono sentita di abbandonare i nuovi affetti senza sapere se avrebbero avuto l’opportunità di tornare. Altri perché per anni hanno combattuto per ricavarsi un proprio posto nella nuova società di adozione e hanno cercato di resistere, spesso senza alcun tipo di aiuto. Tanti hanno sofferto, combattuti tra il bisogno di tornare per stare vicini ai propri cari in Italia o rimanere al fianco di una nuova famiglia costruita fuori confine. Di storie come queste ce ne sono moltissime. C’è stato però poi anche un lato di questa pandemia che in qualche modo ha riavvicinato chi è rimasto in Italia, costretto in casa e chi era all’estero nella stessa situazione di reclusione. Il nuovo ruolo degli strumenti digitali si è fatto largo in modo preponderante nella vita di tutti e in fondo, guardati attraverso lo schermo di un computer, che è stato il principale mezzo di comunicazione, la distanza per un momento si è come annullata.
E tuttavia, sebbene questa pandemia abbia segnato la vita di tutti, per noi emigrati il peso e lo stress legato all’incertezza ha invaso la nostra intera esistenza. Qui in Australia, dove il sistema dei visti e le regole rigide sono esacerbate dalle distanze, la precarietà della nostra generazione è diventata concreta come un grande scoglio. L’impatto del Covid in Australia è stato contenuto e limitato in termini numerici, ma il lungo e rigido lockdown ha contribuito a spingere molti emigrati ai margini della società, provando le conseguenze dell’esclusione sociale e di una mancanza di considerazione da parte del governo locale. Molti hanno dovuto rivedere i loro progetti, risvegliandosi bruscamente dai loro sogni. C’è chi si è ritrovato a dormire in un parco, chi ha trovato ospitalità da parte di sconosciuti; chi ha dovuto affrontare da solo, in un paese così lontano, gravi problemi di salute che gli hanno impedito di prendere un volo per tornare in Italia. Non sono pochi i genitori venuti a trovare i loro figli e nipoti prima della pandemia e che sono stati impossibilitati a tornare in Italia all’indomani del blocco dei voli. C’è chi ha perso tutti i risparmi nel tentativo di rientrare. Famiglie appena sbarcate che si sono ritrovate senza reddito, costrette a cambiare un alloggio dopo l’altro, a fare enormi sforzi e compromessi per resistere. E c’è il dolore dietro ai silenzi di chi, lontano dalla sua famiglia, ha perso i propri cari senza la possibilità di poter tornare per elaborare il lutto. È difficile spiegare cosa si prova quando un genitore se ne va e tu sei intrappolato a migliaia di kilometri di distanza.
Tutti, ognuno nella propria esperienza, ci siamo sentiti almeno un po’ più lontani del solito, ma in alcuni casi, in questo pressante vuoto al di sotto dell’onda, non sono mancati episodi di solidarietà comunitaria. A Melbourne, come in altre città dell’Australia, sono emerse iniziative di supporto a livello locale e trasversali a tutte le comunità, in opposizione alle roboanti narrazioni nazionalistiche. Le necessità di supporto e assistenza hanno trovato momentaneo sollievo nell’incontro con la solidarietà comunitaria, scoprendo legami e reti sociali che si tendeva a evitare, per pregiudizio o per diniego. Anche le istituzioni italiane all’estero hanno riattivato il loro ruolo di assistenza per agevolare il rientro, ma sebbene il governo italiano avesse prontamente stanziato finanziamenti per assistere i connazionali all’estero in situazioni di indigenza, da questo punto di vista in Australia gli interventi sono stati poco efficaci e certamente poco tempestivi.
Anche per questo la vicinanza e il supporto psicologico forniti da tante associazioni di volontariato sono stati cruciali. La distanza, la malattia, l’esclusione sociale, la perdita del lavoro, il maltrattamento e la marginalizzazione sono esperienze diffuse e con un grande impatto psicologico che è stato per lo più ignorato o nascosto, tanto dalle istituzioni quanto dai principali media italiani. Il fatto di poter contare su istituzioni e comunità attive, e soprattutto consapevoli delle sfaccettature e delle criticità dell’esperienza migratoria delle nuove generazioni, è invece fondamentale per non lasciare i nostri emigrati a se stessi, in balia degli imprevisti che ogni percorso migratorio presenta.
Durante questa pandemia ha prevalso una narrazione di globalismo e unità che ha mascherato una realtà di chiusure e conflitti. Al di sotto del racconto mediatico, l’esperienza dell’emigrazione si è concretizzata nel distacco, nell’abbandono, nella sospensione generata dalle domande interiori e dall’incertezza sugli spostamenti ma anche, più profondamente, dalla questione dell’appartenenza. Per una generazione mobile la questione dell’appartenenza è stata acutizzata dalla forzata immobilità geografica e dal parziale immobilismo e distacco delle istituzioni. Ognuno di noi si è interrogato sull’appartenenza, in sospeso tra il Paese che si è lasciato, e dov’è improvvisamente difficile rientrare, e quello in cui, alla ricerca di una nuova esperienza, ci si ritrova a lottare in un vuoto di indifferenza.
Mentre tutte le nazioni cercano di arrabattarsi tra visioni univoche e soluzioni parziali, gli emigrati sono invece rimasti incastrati nella loro dimensione multilaterale, rappresentando sulla loro pelle le sofferenze e le soddisfazioni della ricerca, del superamento dei confini e della sintesi delle differenze. L’avamposto della speranza per un futuro migliore, un’opportunità da ascoltare, supportare e valorizzare, ora più che mai.
Dentro l’onda: un mare di straordinaria normalità
Walter era in Australia già da qualche anno. Aveva due bambine e meno di 35 anni quando ha aperto la sua ditta di traslochi con la quale, faticosamente, stava cercando di recuperare un po’ dei soldi spesi negli anni precedenti, pagando quegli student-visa necessari a proseguire la sua vita downunder2. Non era il massimo dover lavorare in nero per aggirare il limite bisettimanale delle quaranta ore lavorative che il visto gli imponeva, ma lui e Carla dovevano resistere solo fino al post graduate visa, per poter poi trovare un impiego full-time (solo per 18 mesi, poi si sarebbe valutato) e dare cosi alle loro figlie la speranza di un futuro in Australia. Un futuro prossimo, prossimissimo, praticamente poco più che un presente.
Ce l’avevano fatta Walter e Carla, ma poi era arrivato il covid. L’inverno del Victoria li aveva colti durante la seconda maternità di Carla, naturalmente non retribuita, in quanto Carla era ancora titolare di un contratto precario. A quel punto i due non hanno trovato niente di meglio che il numero di telefono di nomit per far presente che nella loro casa non c’era neanche il riscaldamento, che le stufe elettriche avrebbero fatto impennare i prezzi di quella bolletta che non sapevano più come pagare, in quanto entrambi a causa delle restrizioni messe in atto dal Governo per contenere il covid, avevano perso il lavoro.
Avevano trovato solo il numero della nomit per dire che esistevano anche loro.
Tomaso invece non aveva trovato neanche quello, in quanto non aveva più modo di connettersi a internet. Da una settimana non aveva più credito nel telefono e da tre viveva in un parco vicino Frankston. Una signora però aveva trovato lui e commossa dalla sua storia, subito prima che si inasprissero le politiche anti- covid anche nelle aree regionali del Victoria, lo aveva invitato a stare gratis nella sua depandance. Era stata lei a parlargli di questa associazione di Melbourne che «aiutava gli italiani» e quando era riuscito a contattarne i volontari, si era subito premurato di chiedere «ma è sicuro che non c’è nessuno messo peggio di me da aiutare prima?».
Ed effettivamente, per quanto strano, qualcuno messo peggio c’era eccome. Giusto un paio di giorni prima aveva contattato nomit Alessandro, pizzaiolo di St Kilda che aveva perso il lavoro a causa della chiusura del ristorante dove lavorava al nero. Anche lui per via delle restrizioni dello student visa aveva passato la sua vita australiana nella cosiddetta «pool of exploitable3» e perciò era facilmente sacrificabile, volutamente invisibile dal, e al, Governo australiano. Aveva dovuto lasciare la casa Alessandro, non potendo più pagare l’affitto. Si era trasferito sul divano di amici e aveva detto che se la sarebbe cavata, ma quando i volontari di nomit lo avevano ricontattato un paio di settimane dopo, avevano scoperto che era finito in ospedale, a sottoporsi come cavia umana a dei test farmaceutici. In questo modo si sarebbe garantito vitto, alloggio, e un rimborso «non male, di ‘sti tempi». Se ne sarebbe stato lì «fino alla fine della crisi» Alessandro, sul lato oscuro di quella luna che è il contributo italiano alla ricerca medica all’estero.
Tutte queste, insieme ad altre 260 simili, sono le storie della straordinaria normalità dei primi cinque mesi di vita degli italiani in Australia, ai tempi del covid. La vita di «quelli più giovani» almeno, ma non in termini strettamente anagrafici. La vita all’estero, infatti, non è scandita solamente dai tempi biologici. Fuori dallo Spazio Schengen, troppo spesso dato per scontato, sono i visti sempre più temporanei il vero metronomo dell’esistenza. Ecco quindi che, quasi inconsciamente, ci si ritrova a definire «giovani», «ragazzi», coloro i quali non sono in possesso di una cittadinanza australiana, o di un visto permanente, quasi a volerli tranquillizzare per fargli affrontare in maniera più serena la propria tribolazione, come nei film di guerra si dice al soldato ferito che» starà bene», che «ha ancora tutta la vita davanti».
Invece non si sta bene fuori dai confini sociali e spesso davanti c’è solo un altro salto nel vuoto verso il prossimo visto provvisorio, fatto di limitazioni ingiuste e incertezze. Ed è spesso in questo modo, strettamente empirico che la nuova diaspora italiana fa la conoscenza di un concetto, ben prima di averne conosciuto il nome: la glocalizzazione.
Non è vero che «tutto il mondo è paese», ma
La signora Innocenza vive a Melbourne da più di quarant’anni e tutti gli anni, quando va al Patronato per firmare le carte per la dichiarazione dei redditi, tira fuori di nascosto un bigliettino dove c’è scritta, con una calligrafia stentata, la sua firma. Quel fogliettino le serve perché Innocenza, anche se nata nel ‘37, è analfabeta e la firma la può solo ricopiare, come se fosse un disegno. «Mia mamma mi ha premiato così per essere la prima. Ero la più grande e dovevo badare ai miei fratelli più piccoli, quindi non c’era tempo, per me, di andare a scuola. Ti faccio ridere eh?», dice all’operatore trentenne che si è accorto del trucco. Ma l’operatore non ci trova nulla da ridere, perché la sua di generazione, anche se «proverbialmente altamente formata», sconta un analfabetismo un po’ meno grave ma certamente più colpevole: quello socio-istituzionale.
E l’operatore lo sa bene, perché durante i primi mesi di emergenza, fu tra i volontari nomit che risposero alle prime richieste di assistenza. Tra queste c’era quella di Sofia, la cittadina di Forse.
Sofia si era registrata per richiedere il supporto del progetto «Risposta Comunitaria Emergenza Covid19» il giorno 27 agosto 2020. Venne contattata telefonicamente dai volontari nomit il giorno stesso, e dalle prime intercessioni emerse che si trattava di una cittadina australiana, nata e cresciuta in Italia,trasferitasi in Australia nel dicembre 2018, ma che non lavorava dall’inizio del primo lockdown (marzo 2020), e che aveva intenzione di tornare in Italia per motivi familiari. Il board, su proposta di Enrico e Anna, due membri nomit di lunga data che avevano trattato il caso direttamente, anche loro appartenenti alla stessa generazione millenials dell’operatore di patronato, ovvero la prima delle generazioni digitali, decise di cercare di approfondire la situazione di Sofia. Sembrava paradossale infatti che in Australia, una cittadina australiana solo (solo?) culturalmente italiana, durante una crisi mondiale, non avesse altra formazione sociale a cui rivolgersi che una piccola associazione no-profit, animata da cittadini italiani emigrati.
Anna ed Enrico, quindi, provarono ad aiutarla a ottenere dei fondi di supporto dal Centrelink, l’agenzia governativa australiana che si occupa di sicurezza sociale. Si adoperarono inoltre per farle ottenere un passaporto, in quanto Sofia non ne deteneva alcuno in corso di validità. Nelle due settimane successive i contatti furono ripetuti e a volte difficili, Sofia infatti non aveva più credito nel telefono e l’unico modo in cui riusciva a comunicare, era con messaggi vocali via Instagram quando riusciva ad accedere a una rete Wi-fi. Con l’aiuto di Anna, si riuscì a completare una richiesta di fondi straordinari sul sito di Centrelink il 7 di settembre, dato il fatto che Sofia non aveva diritto ai sussidi federali.
La situazione cominciò a rivelarsi particolarmente complicata siccome Sofia, oltre a parlare un inglese alquanto stentato, non aveva alcun documento originale valido. Il passaporto australiano era scaduto, così come la tessera sanitaria australiana.Quest’ultima l’aveva ottenuta a gennaio 2019, ma solo perché cittadina italiana ed era quindi valida solo per 6 mesi, in quanto concessa sulla base del Reciprocal Health Agreement tra Italia e Australia e non come cittadina australiana per cui avrebbe avuto diritto. E fu a questo punto che Enrico e Anna capirono che Sofia era inconsapevolmente italiana.
La cittadinanza può essere intesa come status del cittadino, come rapporto giuridico tra il singolo e lo Stato, o può assumere una delle tante sfaccettature sociologiche ancora oggi discusse in dottrina, ma è grave pensare che inizi e finisca con un passaporto, soprattutto per un nativo digitale, che comunica solo via Instagram in situazione di emergenza e che quindi è in grado di accedere in meno di una frazione di secondo alla pagina di Wikipedia, dove quanto sopradetto è ben esplicitato nelle prime quattro righe della definizione di cittadinanza.
È questa un’altra realtà fattuale della nuova diaspora poco rappresentata. Mentre Innocenza da sempre preoccupata dei suoi limiti ha per tutta la sua vita di emigrata provato a sovracompensare rivolgendosi con fiducia a patronati sindacali, la sfiducia nelle istituzioni e nelle formazioni sociali sussidiarie di Sofia, e dei molti post-millenials all’estero, è così radicata che li porta spesso scientemente a ignorare tutto ciò che riguarda la cosa pubblica. Così facendo, spesso finiscono per non conoscere alcuni dei diritti che possono esercitare in quanto cittadini italiani all’estero, rinunciando così di accedere anche a quel poco di assistenza che c’è a disposizione, e non concorrendo perciò alla richiesta di approntarne una più adeguata, necessaria in un mondo glocale che però così finisce per non conoscere sé stesso. In questo modo, finiscono spesso per giustificare la difficoltà (alle volte colpevole) nell’accedere ad alcuni servizi, ricorrendo alla mai vera espressione popolare, che dice «tutto il mondo è paese». Questo è falso, ma il mondo diventerà tale se tutti si comportano come se fossero ancora in quel paese, che fu orfano di una adeguata partecipazione sociale e politica, e che per questo si è attorcigliato su sé stesso, soffocando l’esercizio dei diritti del cittadino.
Il caso di Sofia è stato brillantemente risolto da Anna ed Enrico, che una volta intuita la doppia cittadinanza della ragazza, sono riusciti ad aiutarla a ottenere un passaporto italiano dal Consolato Italiano di Melbourne, l’exemption dal Department of Home Affairs australiano, necessario per lasciare il paese, nonché l’accesso ai fondi comunitari per coprire spese di viaggio e amministrative. A oggi di Sofia, capace di inviare un vocale via Instagram da ogni parte del mondo, nel solo tempo necessario a registrare il messaggio stesso, nessuno alla nomit ha più notizie. Innocenza invece, sicuramente, finché potrà tornerà al patronato, con quel pezzettino di carta nascosto nel deambulatore da dove ricopiare la sua stessa firma, per accedere a servizi che anche lei ha concorso a rendere possibili, facendo parte di quelle statistiche utilizzate per scrivere e far approvare accordi internazionali, resi possibili da lotte politiche e sindacali, e ufficializzate negli anni da diverse revisioni di legge. Perché tutto il mondo è il paese che ci costruiamo.
Glocalismo di pancia
Questo è il contesto in cui bisogna cercare di capire, come l’infinitamente piccolo sociale ha interagito e interagirà con l’infinitamente grande sovranazionale.La «comunità degli italiani in Australia», per ciò che riguarda la nuova diaspora, in realtà non è più tale, o almeno non lo è in modo totalizzante. Quello che omogeneizza una formazione sociale che vive oggi in uno Stato senza esserne cittadino, è il visto più che la sua radice culturale. Il visto regola il rapporto tra lo Stato e il (non) cittadino, individuando così una precisa (non) classe sociale. Il (non) infinitamente piccolo, si semplifica nell’infinitamente grande sovranazionale dando vita alle classi glocali, in cui istintivamente ci si rifugia sia per empatia che per ricercare informazioni.Guardando all’infinitamente piccolo, il (non) rimane, impedendo un’organizza della stessa o rendendola oltremodo difficile.Questo è il grande ostacolo con cui si è scontrata nomit durante la pandemia, esattamente come in tutti gli altri anni della sua attività. Un problema che affligge l’infinitamente piccolo, ma riscontrabile e risolvibile solo nell’infinitamente grande, da grandi attori. Questi «grandi attori», a oggi non sono riusciti neanche a definirlo correttamente questo problema, lasciando l’infinitamente piccolo e suoi piccoli attori, a muoversi in maniera poco più che istintuale, dando vita a un «glocalismo di pancia».
nomit, come chiunque operi nel terzo settore a livello internazionale dovrebbe fare, da sempre prova a porsi come cuscinetto tra il piccolo e il grande, in ossequio ai principi di sussidiarietà, solidarietà e mutualità, tipici della Costituzione italiana ma che forse dovrebbero essere internazionalizzati, introducendo così un terzo piano che dovrebbe includere e muovere tutti e due: il piano dei principi, appunto.
Per un nuovo rapporto tra l’Italia e i suoi cittadini all’estero
Suggerendo un fine positivo invece che negativo del racconto dell’emigrazione, sarebbe dunque importante parlare del fenomeno innanzitutto con più realismo, con maggiore rispetto per la verità e per chi vive la fatica quotidiana di lasciarsi alle spalle il mondo in cui è nato e cresciuto. Bisogna allora capire che cos’è che spinge così tante persone, soprattutto giovani, a lasciare il proprio Paese. Cosa cercano all’estero che in Italia non trovano. Che misure potrebbe mettere in atto l’Italia per farli rientrare. Sarebbe molto utile in questo senso instaurare un dialogo tra chi emigra e le istituzioni, domandandosi cosa possiamo noi offrire all’Italia dopo tanti anni all’estero e cosa può offrire a noi l’Italia.
A livello prettamente istituzionale, abbiamo detto che sarebbe funzionale se le politiche sull’emigrazione facessero parte anche dei vari portafogli ministeriali che si occupano a vario modo di assistenza sociale, lavoro e patrimonio culturale, pur mantenendo i portafogli commerciali e diplomatici. Meglio ancora, potrebbe essere previsto un ministero della mobilità sociale che comprenda l’intero ciclo migratorio socio-geografico degli italiani di nascita e non, ovvero emigrazione, rientro e immigrazione di stranieri. Sarebbe utile se i ministri italiani viaggiassero molto di più all’estero per vedere con i loro occhi la realtà dell’emigrazione, come si faceva in passato.
Ma c’è anche un altro aspetto che non va dimenticato. Il 4 settembre del 2019, viene reso pubblico il programma del nuovo Governo «Conte bis»4. Per garantire il proseguimento della xviii Legislatura, il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico si sono accordati su una serie di linee programmatiche. Tra le priorità del nuovo Governo «giallo-rosso», compare al tredicesimo punto, l’esigenza di riformare l’aire, ovvero l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero. Per coloro che sanno di cosa si tratta, l’inserimento di questa riforma nel programma di governo è stata una boccata d’aria fresca.
Che l’aire sia perfettibile è infatti palese a tutti. È praticamente impossibile per questo registro tenere traccia dell’attuale mobilità delle persone, sempre meno orientata, per forza di cose, verso una dimensione permanente. Il «caso australiano» in tal senso, è considerabile emblematico. Tra gli italiani in possesso di un Working Holiday Visa, uno Student Visa o uno qualsiasi dei nuovi visti temporanei, è infatti raro trovare qualcuno che sia iscritto all’aire. I motivi sono molteplici: dalla difficoltà a reperire informazioni a riguardo, allo spauracchio della perdita del diritto all’assistenza sanitaria in Italia, data dalla contestuale uscita dall’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente in caso di iscrizione all’aire. Quest’ultimo fattore è fonte di grande preoccupazione tra coloro i quali non sono titolari di un visto permanente, ovvero la stragrande maggioranza. Preoccupazione comprensibile, considerando che per gli italiani in Australia, una convenzione bilaterale tra i due Paesi prevede una copertura sanitaria solo per i primi 6 mesi di permanenza sul suolo australiano, mentre secondo il testo dello studioso dell’emigrazione Peter Mares, «Not Quite Australian»5, chi si cimenta in un’esperienza migratoria in Australia, volta al raggiungimento di un visto permanente, rimane titolare di visti temporanei mediamente per un periodo di 7 anni. La riforma dell’aire è quindi una necessità, ma da sola non sarà assolutamente sufficiente a creare un impatto positivo sulle condizioni di vita dei nuovi italiani all’estero.
Il caso sopracitato, riguardante la copertura sanitaria, ci insegna quanto siano importanti gli accordi di reciprocità. Occasioni di confronto tra vertici dei due Governi non sono mancate in questi anni, ma purtroppo non sono state ottimizzate. Il 23 luglio 2018 per esempio, il Sottosegretario agli Esteri Ricardo Merlo, riceveva alla Farnesina il Ministro per lo sviluppo internazionale e del Pacifico del Governo australiano, Concetta Fierravanti-Wells6. Lo stesso Merlo definiva la comunità italiana «perfettamente integrata», a dispetto di tutte le complicazioni a cui sono soggetti i titolari di visto temporaneo, prime fra tutte, le limitazioni legate al mondo del lavoro che generano sfruttamento. Si premurava però di mettere sul tavolo della discussione l’estensione del working holiday visa per i cittadini italiani, un visto che in Australia è al centro di un aspro dibattito e che una commissione del Senato federale ha attestato essere uno dei fattori principali nel costringere i lavoratori migranti temporanei in condizioni di vulnerabilità definite una «disgrazia nazionale»7. A cosa è dovuto questo disallineamento tra la percezione che ha la politica italiana del fenomeno e le reali esigenze della nuova mobilita?
Sicuramente, ancora una volta, la retorica della stampa nostrana in materia, più incline alla letteratura che alla cronaca, non aiuta. Anche nel caso dei working holiday makers, infatti, si raccolgono le testimonianze dei pochi avventurieri entusiasti, e non quelli della maggioranza succube della pratica degli «88 giorni», periodo da dover trascorrere lavorando nei campi, per avere l’estensione del visto. Questa però non può essere una scusante per la politica italiana, che dovrebbe affrontare la questione migratoria come la tematica nazionale che nei fatti è. Secondo le Elaborazioni Fondazioni Leone Moressa, fatte su dati istat e Eurostat, l’emigrazione degli ultimi 10 anni è costata all’Italia 16 miliardi, ovvero più di un punto percentuale del pil8. Un’emorragia del genere, non può certo essere risolta dal lavoro individuale dei 18 Deputati e Senatori eletti nella Circoscrizione Estero, i quali tra l’altro sono espressione di una legge elettorale che, ancora una volta, fa del suo bacino elettorale di riferimento le comunità integrate, tagliando fuori di fatto coloro i quali non sono iscritti all’aire e che in quanto protagonisti della nuova mobilita hanno più bisogno di essere rappresentati. Questo è reso ancora più grave dalla divergenza di interessi tra le varie generazioni migratorie, come ben documentato anche dalle ricerche raccolte nel volume «Autopsia di un Diritto Politico»9, che lasciano pesantemente sottorappresentati i nuovi migranti italiani, i quali non si riconoscono affatto nelle istanze della vecchia emigrazione (fortemente orientate a livello locale), ma anzi pongono sfide a livello transnazionale10. Sfide che possono essere raccolte solo dal corpo politico centrale e in tal senso la riforma dell’aire diventa fondamentale, ma non come fine, bensì come mezzo, ovvero come «punto zero» di un totale ripensamento della dinamica migratoria e della sua formazione sociale. E pertanto dovrà essere centrale, nella riforma della legge, tenere in grande considerazione la maggior mobilità delle nuove migrazioni, che passano più facilmente rispetto a quelle precedenti da un Paese all’altro, cosa che rende difficile il trasferimento dell’iscrizione all’aire, oltre che, come abbiamo notato più volte e come ci fa notare Maddalena Tirabassi nella premessa al libro di Luconi e Battiston, «disincentivare tout court l’iscrizione».
Sul piano puramente socio-politico, siamo giunti al momento in cui bisogna prevedere un sistema di welfare transnazionale, accessibile magari attraverso servizi approntati di comune accordo con i sindacati e le loro espressioni internazionali, ovvero i patronati. E sebbene inserire «Riforma aire» in un elenco puntato sia già qualcosa, come si è visto, la riforma di cui si ha veramente bisogno è di ben più ampio respiro.
Prima di tutto sarebbe dunque fondamentale che le istituzioni si impegnassero a creare le condizioni per una emigrazione informata, affrontando anche nell’ambito dei rapporti bilaterali tra Paesi alcuni dei temi più importanti che riguardano i connazionali all’estero, come quelli del lavoro, del welfare e del riconoscimento dei titoli professionali e accademici. Il rispetto dei diritti dei cittadini italiani, anche all’estero, dovrebbe essere il fulcro delle relazioni bilaterali, pur senza dimenticare i doveri che ogni persona che si sposta in diversi contesti sociali e culturali dovrebbe conoscere e rispettare.
In troppi e troppo spesso infatti ci si trova ad affrontare difficoltà e sofferenze che si potrebbero evitare con una pianificazione e un sistema di sostegno alla migrazione e al rimpatrio. L’epidemia ha evidenziato all’estremo questa necessità. Le istituzioni preposte al governo dell’emigrazione, sia in Italia che all’estero, dovrebbero pertanto impegnarsi per rendere costruttiva questa nuova migrazione: è dirimente sapere di poter contare su un sostegno nel caso di necessità, che offra aiuto burocratico, protezione contro le difficoltà di ambientamento, supporto all’isolamento sociale, difesa contro i mille vincoli e regole.
Si potrebbero estendere le opportunità di tirocinio e brevi esperienze di lavoro al periodo post-universitario, il più delicato in assoluto per il futuro di carriera dei laureati. Si potrebbero attivare le istituzioni rappresentative all’estero per raggiungere ed estendere accordi bilaterali e creare opportunità di inserimento lavorativo dei nuovi arrivati, invece di lasciarli in balia del sistema dei visti e di questo o quel datore di lavoro. Dovrebbe essere nell’interesse di uno Stato, che su questi giovani ha investito per oltre 20 anni della loro vita, aiutarli a rendere più effettiva e produttiva l’esperienza migratoria, invece di lasciare ciascuno al proprio tortuoso percorso, alla ricerca di un incerto successo, giorno dopo giorno, di fronte a una distanza sempre più incolmabile e a un ritorno sempre più incerto.
L’emigrazione è una scelta, ponderata in silenzio. Una scelta che richiede coraggio per essere presa, sacrifici per essere portata avanti, ma sempre nella solitudine di un generale abbandono e di un cinico distacco. La consapevolezza della scelta individuale non esclude però la responsabilità di politica e istituzioni. Chi lascia il paese paga il prezzo della mancanza di prospettive adeguate. Abbandonare i singoli migranti nella loro esperienza all’estero, invece di prevederla e inquadrarla in una prospettiva costruttiva, incrementa, piuttosto che ridurre, il costo sociale di questo esodo.
Progetto realizzato da nomit Inc. a cura di Luca M. Esposito
Si ringraziano Enrico Moscon e Fabrizio Venturini per le parti che riguardano la pandemia, Matteo Salvadego per la sezione sul mondo del lavoro e Alessandro Achilli, Margherita Angelucci, Giovanni Di Lieto, Roberta Gottardo, Carlo Guaia, Serena Olivieri, Elvio Sinopoli, Maria Azzurra Tranfaglia, Francesca Valdinoci per la loro partecipazione.
Note
1 Mazzolini Samuele, Migranti italiani altro che cervelli solo cuori in fuga, «Ilfattoquotidiano.it», 12 giugno 2017.
2 Walter, come tutti gli altri, è un nome di fantasia, ma le storie sono fedelmente quelle che sono state raccontate ai nostri volontari durante la «Risposta Comunitaria».
3 Così in un documento redatto in occasione del Congresso annuale del 2018, l’Australian Council of Trade Unions definisce quella parte dei lavoratori sottoposti al ricatto dello sfruttamento a causa della loro condizione di vulnerabilità. Tra questi, in Australia, ci sono tutti i lavoratori emigrati con visti temporanei
4 Redazione Rep.it, Governo Conte bis, il programma in 29 punti, «la Repubblica.it», 4 settembre 2019.
5 Mares Peter, Not Quite Australian, How Temporary Migration is changing the Nation, Text Publishing Co., 2016.
6 Redazione Agenzia Nova, «Italia-Australia: sottosegretario Esteri Merlo riceve ministro Fierravanti Wells», Agenzia Nova, 23 luglio 2018.
7 Parliament of Australia, A National Disgrace: The Exploitation of Temporary Work Visa Holders, Commonwhealth of Australia, 2016.
8 Carli Andrea, «In 10 anni l’Italia ha perso 250mila giovani: la fuga all’estero costa 16 miliardi», «Il Sole 24 ORE», 8 ottobre 2019.
9 Luconi, Stefano e Battiston, Simone, Autopsia di un diritto politico: il voto degli italiani all’estero nelle elezioni del 2018, Torino, Accademia University Press, 2019.
10 Ruberto, Laura E., Sciorra Joseph, «Real Italians, New Immigrants», New Italian Migrations to the United States. Politics and History since 1945, 1, Chicago, University of Illinois Press, 2017, pp. 1-32, p. 9.