Laura Schettini, ha insegnato Gender history all’Università di Napoli l’Orientale. Nel 2017 ha curato, insieme a Simona Feci, La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (xv-xxi). La intervistiamo in occasione dell’uscita del suo ultimo libro Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali 1890-1940 (Biblink, 2019).
Questo numero è dedicato all’esplorazione delle varie forme di violenza subite dalle donne italiane nell’ambito dei fenomeni migratori. Fin dall’inizio tu cerchi di distinguere tra prostituzione per scelta, costrizione o inganno. Puoi spiegarci come sei riuscita a cogliere la differenza?
Quella che hai evocato è forse la questione più spinosa da affrontare quando si parla di prostituzione, tanto per le società del passato quanto in relazione ai fenomeni contemporanei. Quando ho iniziato a lavorare a questa ricerca, ormai molti anni fa, non avevo le idee chiare e forse avevo in testa pure qualche preconcetto indotto dal modo stesso in cui si presentavano le fonti. Sono approdata a questo tema, la nascita del mercato globale della prostituzione a partire dalla fine dell’Ottocento, mentre seguivo le tracce della polizia internazionale. Ero interessata a studiare la formazione del coordinamento tra le polizie dei diversi Paesi e in particolare la storia della schedatura e delle misure di sorveglianza della mobilità internazionale intorno alle quali questo collegamento ha preso forma. Andando all’Archivio centrale dello Stato e prendendo in mano il fondo intitolato all’Interpol [precisamente acs, Ministero dell’Interno. Direzione generale pubblica sicurezza, Interpol 1923 – 1961] mi sono accorta che questo era articolato in due serie, una intitolata Affari diversi e l’altra Tratta delle bianche e la cosa mi colpì non poco. Era una circostanza che, rafforzata anche da quanto suggeriva la scarsa storiografia che si era occupata della nascita della polizia internazionale, penso per esempio a Mathieu Deflem in Policing World Society. Historical Foundations of International Police Cooperation (2002) che diceva diverse cose insieme, da quel momento diventate il mio campo di ricerca. Diceva in primo luogo che un fenomeno chiamato «tratta delle bianche» aveva avuto un ruolo fondamentale nell’avvio e nel rodaggio della rete delle polizie, perché insieme all’eversione politica era stato uno dei primi fenomeni criminali di natura transnazionale; in secondo luogo offriva una precisa rappresentazione di quel fenomeno: si parlava di tratta delle bianche e non di prostituzione, riecheggiando la campagna mediatica che aveva infiammato Europa e Americhe dalla fine dell’Ottocento. «Tratta delle bianche» evocava immediatamente il destino di violenza subito da giovani donne, prevalentemente europee, costrette alla prostituzione o alla schiavitù sessuale in posti spesso molto lontani dai loro luoghi d’origine. Nella campagna mediatica era usata tanto per le giovani provenienti dalle aree rurali e finite nei bordelli delle grandi città di un Paese, quanto per le donne che percorrevano rotte molto più lunghe, attraversando mari e oceani e confini nazionali.
Quando ho iniziato a consultare la documentazione conservata nella serie «Tratta delle bianche» dell’Interpol mi aspettavo dunque di trovare inchieste, investigazioni, rapporti, casi relativi al rapimento e alle violenze subite da migliaia di donne in una fase di forte dilatazione del mercato del sesso, caratterizzato dall’impennata della domanda ma anche da una notevole espansione geografica. I documenti mi hanno restituito una realtà molto più complessa, che ha richiesto di prendere in considerazione almeno altri due elementi fondamentali in questo quadro: il sistema della prostituzione regolamentata, e quindi il circuito delle case di tolleranza «autorizzate», e i processi migratori in atto in quegli stessi decenni. Fattori, d’altra parte, già presi in considerazione da importanti volumi come Stephanie A. Limoncelli, The Politics of Trafficking (2010).
Le storie e le esperienze che ci sono raccontate dalle fonti di polizia conservate nella categoria «tratta delle bianche» sono estremamente diversificate e impongono che la ricostruzione storica sfugga alla tentazione di offrire letture semplificanti. Accanto a ingenue ragazze di provincia indotte ad emigrare con la promessa di lavori «rispettabili» (nei servizi domestici e nel mondo dello spettacolo per lo più) e poi imprigionate in una spirale di debiti, violenze e sfruttamento sessuale nei luoghi di arrivo, troviamo nei documenti molteplici tracce di donne che svolgevano già da molti anni il mestiere regolare di prostituta in patria e che si sono spostate da un Paese all’altro, spesso dal Sud Europa all’altra sponda del Mediterraneo (in Tunisia, Egitto, Turchia, Grecia, Libia, a Malta, Creta) ma anche fino in India, per lavorare nelle case di tolleranza gestite dagli europei oltremare e che sembravano mostrare un certo grado di controllo sulla propria vita. Allo stesso tempo, verbali di interrogatorio e inchieste raccontano di donne che si sono prestate ad un periodo di prostituzione, considerata come uno dei pochi lavori sempre disponibili per le donne, anche in tempi di crisi, ma che poi si sono ritrovate intrappolate in una «carriera» che era impossibile abbandonare, che da occasionale diventava permanente e irreversibile, i cui fili erano mossi da tenutarie e sfruttatori che le privavano di qualsiasi libertà e della quasi totalità dei guadagni, protetti da una disciplina delle case di tolleranza che per lo più faceva delle prostitute delle donne senza diritti, libertà e tutele. Tutto questo per dire che credo che il confine/differenza tra scelta, costrizione o inganno sia estremamente mobile e sfumato e che forse non è la prospettiva più utile da cui partire. In questa direzione si è anche mosso un importante lavoro collettivo, che mi è stato molto utile nel corso delle mie ricerche, e che rappresenta forse una delle più ricerche e complesse riflessioni storiografiche sulla prostituzione a disposizione: Selling Sex in the City: a Global History of Prostitution, 1600s-2000s (a cura di Magaly Rodriguez Garcia, Lex Heerma van Voss, Elise van Nederveen Meerkerk, 2017).
Dalla lettura delle fonti d’archivio, a ogni modo, emerge come ci siano state donne che probabilmente si sono prostituite per scelta, ma che certo non erano consenzienti ai livelli di sfruttamento fisico ed economico esercitati nelle case di tolleranza; ci sono state molte donne che sono state costrette alla prostituzione da mariti, padri e fratelli e per le quali semmai la violenza subita non andrebbe registrata tanto sulla soglia della prostituzione, quanto prima e di più in un sistema di relazioni di genere e familiari improntata al principio della subordinazione/dominio delle donne, della quale la costrizione alla prostituzione è solo una delle manifestazioni. Non ci troviamo di fronte, inoltre, solo a donne differenti che hanno vissuto diverse esperienze di prostituzione, ma anche alla compresenza in una stessa biografia di esperienze molteplici in relazione al grado di violenza/sfruttamento subito, che andavano da periodi di pieno controllo sulla propria vita e il proprio lavoro e periodi di subordinazione e sfruttamento intensivo. In questo quadro non possiamo non prendere in considerazione il fatto che spesso a fare la differenza erano variabili quali l’esperienza accumulata, il capitale sociale, la provenienza nazionale, il colore della pelle, la condizione economica.
La prostituzione precede o è una conseguenza dell’emigrazione? Da dove emigrano le prostitute?
La storia della prima globalizzazione della prostituzione mostra a mio avviso in modo chiaro come prostituzione e migrazioni siano in un rapporto di reciproca influenza, l’una ha contribuito a costruire la storia delle altre e viceversa, come d’altra parte anche gli studi dedicati ai secoli precedenti hanno mostrato (utili a questo proposito le riflessioni di Eithne Luibhéid in Sexualities and international migration (2013) o quanto ricostruito da Tessa Storey in Carnal Commerce in Counter-Reformation Rome, 2008). Per un verso le prostitute hanno rappresentato un gruppo di lavoratrici che al pari di altri sono ricorse massicciamente all’emigrazione per ragioni di lavoro, ingrossando in questo modo le fila delle emigranti e incidendo sulle politiche migratorie intraprese dai diversi Paesi (di partenza, di transito e di arrivo).
Dagli interrogatori di polizia raccolti al momento dell’iscrizione in una casa di tolleranza apprendiamo, per esempio, che molte prostitute partirono dall’Italia per recarsi in Egitto o Libia perché lì avrebbero guadagnato di più – in virtù di un rapporto favorevole tra domanda e offerta – ma anche perché fare la prostituta lontane dalle proprie comunità di provenienza era utile per aggirare lo stigma sociale che inevitabilmente colpiva le meretrici. Analogamente molte francesi interrogate negli anni venti e trenta dichiararono di essere venute in Italia e nelle sue colonie a prostituirsi per le stesse ragioni: in Libia c’era penuria di «bianche» e quindi più lavoro e in una posizione contrattuale più forte, così come l’Italia era una piazza sufficientemente vicina da permettere di alternare periodi di lavoro nelle case di tolleranza con periodi di «riposo in famiglia» come molte ebbero a dichiarare. Per un altro verso e per altre donne, è stata l’esperienza dell’emigrazione ad aprire le porte delle case di tolleranza o dei bordelli clandestini. Partite per fare le balie, le domestiche, le artiste o cameriere nei locali di intrattenimento, è stato lo statuto di fragilità del lavoro femminile (salari più basi, precarietà, informalità), ma anche la posizione subordinata occupata nelle relazioni coniugali e familiari, a far scivolare molte donne nei giri della prostituzione. Non in pochi casi, intercettati in archivio, sono i mariti o altri familiari a fare della prostituzione delle donne nei luoghi di arrivo una risorsa per la sopravvivenza o un business familiare.
Riguardo le provenienze credo sia utile precisare che la mia è una ricerca che ha seguito le donne emigrate in molti e diversi contesti: principalmente a Malta, in Egitto, in Libia e poi in Argentina, negli Stati Uniti e a Panama. L’Italia è nella prima parte del libro il luogo di provenienza o solo di transito/imbarco (di donne rumene, francesi, austriache), mentre nella seconda parte del libro ho guardato all’Italia principalmente come luogo di arrivo di prostitute provenienti da altri Paesi europei (ancora Francia, Russia, Austria, Romania) Questo vuol dire che le provenienze geografiche delle donne delle quali ho intercettato informazioni sono le più disparate e dipendono da quale prospettiva si assume. Forse proprio questo complesso reticolato fatto di fili che uniscono paesi di provenienza e di arrivo restituisce l’immagine della natura globale della prostituzione dei primi decenni del Novecento.
Nell’Italia meridionale in quegli anni a causa dell’emigrazione degli uomini si aveva una sex ratio 10 donne per uomo. È per questo che emigrano le donne sole?
Riprendendo alcune cose appena accennate, a me sembra, ma spero che seguiranno altri studi così da avere più ricerca a disposizione, che se guardiamo al movimento delle prostitute o alle donne emigrate che finiscono nei bordelli legali o clandestini, queste partenze non necessariamente rispondono alla logica che le vuole una conseguenza dello spopolamento delle realtà meridionali. Napoli rimane uno dei porti di imbarco più ricorrenti, così come le città costiere della Sicilia, e questo aveva fatto già pensare agli osservatori contemporanei che gran parte delle donne quindi provenissero dalle regioni meridionali e le loro partenze fossero anche orchestrate da soggetti in odore di camorra. In realtà credo che il quadro sia più articolato. Certamente la miseria del Meridione ha rappresentato un motore decisivo nella crescita del mercato della prostituzione, sia a livello locale che globale. Ma Napoli e la Sicilia sono stati anche luoghi di imbarco per donne provenienti da altre regioni di Italia e da altri Paesi europei che qui giungevano per andare in Nord Africa, ad esempio, dopo essere già state a Torino, Milano, Roma e così via. Allo stesso tempo era chiaro già nei primissimi anni del Novecento che le fasce sociali più deboli, spesso di nuova immigrazione, delle realtà urbane del centro e del Nord rappresentavano un serbatoio senza fondo di prostitute e sfruttatori che nella prima metà del Novecento iniziarono anche a spostarsi su scala internazionale. Aggiungiamo pure il fatto che uno dei filoni più longevi e corposi di emigrazione femminile «autonoma» della prima metà del Novecento è quello delle «alessandrine», donne provenienti dai comuni del goriziano che per decenni hanno costruito catene migratorie che le conducevano ad Alessandria d’Egitto per impiegarsi nei servizi domestici e che, qualche volta, si intrecciavano con traffici legati alla prostituzione, come racconto e ipotizzo ad un certo punto nel libro. Mettendo insieme tutti questi elementi, e altre traiettorie ricostruite nel libro, mi sembra si possa ipotizzare che le dinamiche che stanno dietro questo genere di partenze femminili siano da riferire tanto alle condizioni di vita nei luoghi di partenza (sex ratio, spopolamento, miseria economica) quanto al potere attrattivo esercitato da un mercato della prostituzione in notevole espansione, dinamico e che è forte soprattutto in alcune nuove piazze che si trovano fuori dal vecchio continente.
Dal tuo racconto emerge una grande differenza tra paesi mediterranei e le mete transoceaniche. Ce la puoi riassumere?
La cifra distintiva dei paesi del Mediterraneo in relazione al mercato della prostituzione è rappresentata in questi decenni sicuramente dall’esistenza di un circuito di case di tolleranza gestite da europei, in buona parte autorizzate, legali, che rappresentano gli snodi principali dei traffici. La storiografia internazionale ha già ampiamente messo in evidenza come la stagione dell’espansione commerciale e coloniale europea abbia portato con sé non solo un considerevole aumento della prostituzione, ma soprattutto una sua diversa organizzazione nei paesi coloniali (per alcune riflessioni di sintesi a questo proposito si veda Prostitution and Colonial Relation di Liat Kozma, (2017). Qui vennero esportati, e in parte adattati a precise politiche razziali, i sistemi di regolamentazione della prostituzione esistenti in gran parte del vecchio continente. L’apertura di case di meretricio a Tripoli, Bengasi, Alessandria d’Egitto, Il Cairo, a Creta, Malta, Tunisi, Sfax, ha rappresentato un affare redditizio per tenutarie ed ex prostitute italiane, ad esempio, che qui hanno avviato attività che erano vere e proprie succursali di case di tolleranza primigenie di Napoli, Roma, Genova, Catania, Milano, e che con esse erano in rete. Questo ha influito in diversi modi sulle forme di mobilità femminili nei decenni presi in esame. Come ho già detto non poche prostitute italiane, donne cioè che già esercitavano il mestiere nella penisola e – come affermano le stesse forze dell’ordine – soprattutto quelle che avevano un po’ di anni di esperienza alle spalle, presero a muoversi all’interno di questo circuito transnazionale. Partivano da Napoli, Trieste, Catania, Siracusa, ad esempio, e poi si recavano a Malta, Tripoli, Costantinopoli o Smirne oppure a Sfax, Tunisi, Alessandria d’Egitto, per poi tornare in Italia. Nelle carte di polizia e nella documentazione che riguarda la corrispondenza tra agenzie consolari, dunque, in riferimento all’area del Mediterraneo troviamo in prevalenza vicende di donne che si spostano tra case di tolleranza, di tenutarie che avviano nuove attività in colonia, di procacciatori che svolgono funzioni di mediazione e coordinamento, di catene migratorie femminili che è lecito ipotizzare avessero un carattere «artigianale», basandosi sul passaparola negli ambienti della prostituzione. Non mancano ovviamente casi di giovani donne capitate in questo circuito con l’inganno e inconsapevolmente, ma sembrano una quota esigua rispetto al resto.
Le fonti relative a casi di prostituzione che mettono in relazione le Americhe e l’Italia, invece, restituiscono altri scenari. Per gli Stati Uniti una prima grande differenza la fanno le politiche federali nei confronti della prostituzione che sono state per tutto il periodo preso in esame decisamente proibizioniste e che per di più identificavano nella «prostituta straniera» una minaccia alla morale e ai costumi nazionali. Nello stesso periodo cambiano anche le politiche immigratorie nelle Americhe, che si sbilanciano progressivamente verso la chiusura delle frontiere. Tale intreccio di elementi ha fatto sì che il movimento spontaneo o organizzato di prostitute di mestiere verso queste destinazioni, oltretutto molto più lontane e costose da raggiungere, sia quasi del tutto assente nelle fonti. Questo non significa che la prostituzione, e quella delle «straniere» in particolare, sia stata assente o poco sviluppata in questi paesi. Nel secondo capitolo del libro ho preso in esame in particolare tre casi di studio, Stati Uniti, Argentina e Panama, e per tutti e tre questi contesti si registra nei primi decenni del Novecento e fino alla Seconda guerra mondiale un costante allarme delle autorità e dell’opinione pubblica nei riguardi della crescita impetuosa, e sregolata, della prostituzione. Le straniere, e tra queste le italiane, erano tra le più numerose secondo le inchieste istituzionali e di studio e le attività di polizia. Tuttavia, laddove le fonti permettono di avvicinarsi alle vicende personali sembra che le loro fossero prima di tutto storie di immigrate finite in questi giri e nel mestiere in seguito all’arrivo, non di rado per iniziativa di neo-mariti o altre figure maschili, connazionali, che avevano nello sfruttamento della prostituzione il loro business. Proprio la maggiore nitidezza con cui emerge il profilo degli uomini coinvolti negli affari di prostituzione e migrazioni se si guarda alle Americhe, mi sembra sia una peculiarità di grande interesse storiografico.
Nel libro mostri con chiarezza come l’interesse dello stato e delle istituzioni italiane nel periodo coloniale fossero rivolti a impedire la mescolanza di razze attraverso l’esportazione di prostitute italiane che peraltro si scontrava con quello di tenere alto il nome della patria attraverso la morigeratezza dei costumi. Puoi approfondire il rapporto tra colonialismo e prostituzione?
Il rapporto tra colonialismo e prostituzione è molto complesso e sicuramente necessita di essere indagato ancora. Lavori importanti come quelli di Francesca Biancani ( 2018), Giulia Barrera (2004, pp. 157-72); o anche Sessualità e segregazione nelle terre dell’impero (2007, pp. 31-49), e di Liat Kozma (2017), ne hanno illuminato aspetti e nodi cruciali, mettendo a fuoco naturalmente soprattutto l’intreccio tra politiche razziali e politiche di genere e sessuali. Nel corso della mia ricerca mi sono fatta guidare da questa storiografia, alla quale ho aggiunto il lavoro su fonti originali che riguardano la Libia. Anche in questo caso, come tu sottolinei, emerge una grande attenzione – quasi ossessione direi – per la reputazione nazionale che sarebbe stata infangata dalla presenza di prostitute italiane in regioni che l’Italia avrebbe dovute «civilizzare» e, allo stesso tempo, la preoccupazione nei confronti delle relazioni interrazziali, che la mancanza di donne «bianche» in colonia sembrava rendere inevitabile. Tale ambivalenza ha generato una successione di politiche in materia, da parte del governo italiano, altrettanto ambivalenti, In un primo momento, dall’occupazione al 1923, il Governo ha impedito l’impiego di donne italiane nelle case di tolleranza in Libia, così come l’apertura di bordelli italiani nell’area. In questo frangente le autorità cercarono di invogliare l’arrivo di prostitute europee di altri Paesi, ma egualmente «bianche», per garantire un’offerta adeguata ed etnicamente concordante al numero crescente di uomini «soli» in colonia. Dopo il 1923, a fronte dell’insuccesso dell’iniziativa, venne autorizzata la registrazione di italiane nelle case di tolleranza, che in effetti aumentò via via nel corso degli anni successivi. In questo quadro, tuttavia, bisogna aggiungere uno sguardo alle donne. Le fonti, infatti, raccontano che anche in presenza del divieto di impiego delle italiane, non poche meretrici provenienti dalla penisola provarono e riuscirono a lavorare in Libia, ricorrendo a diversi stratagemmi. Questo ci dice che il loro arrivo non fu solo voluto e guidato dall’iniziativa governativa, ma che è stato anche il frutto di scelte e progetti individuali o che rispondevano prima (o anche) alle logiche del mercato, oltre che delle politiche razziali.
Le donne invece che testimoniare una moralità superiore e portare civiltà, recavano un danno di immagine e disonore all’Italia. La prostituzione venne tollerata dallo Stato per proteggere i maschi italiani nelle colonie che altrimenti si sarebbero rivolti al mercato locale? Ma non tutti la pensavano così come illustra la figura di Paulucci Di Calboli.
Raniero Paulucci di Calboli, delegato dal governo italiano al Comitato contro la tratta delle donne istituito dalla Società delle Nazioni, è una figura esemplare, che ha mantenuto rispetto alla diffusione dell’era «industriale» della prostituzione, come descrissero quei decenni alcune osservatrici, una postura di notevole spessore e acutezza. Incarna a mio avviso in modo efficacie quella spinta all’inchiesta e all’intervento sociale che ha caratterizzato diversi momenti della Società delle Nazioni e che recentemente è al centro di riscoperta e valorizzazione storiografica (Pedersen, 2007). In questo senso lui è certamente un uomo del Governo, ma è soprattutto un uomo di questa prima organizzazione internazionale, che si nutre di dibattiti, inchieste, studi che si sviluppano ben oltre i ristretti confini nazionali e che ha alle spalle una formazione positivista fortemente sensibile alla dimensione del sociale. Mentre il Governo italiano difende e propaganda con veemenza la necessità della regolamentazione della prostituzione, Paulucci di Calboli non esita a denunciare il ruolo che il circuito delle case di tolleranza ha nell’aumento della prostituzione internazionale, lo sfruttamento, le violenze, la privazione di libertà che in esso si consumano, ma anche l’urgenza di affrontare la natura sociale della prostituzione. È tra i più convinti a denunciare pubblicamente come dietro il massiccio scivolamento delle donne nella prostituzione ci siano inferiorità giuridica, disparità salariale, diseguaglianze sociale tra uomini e donne. Così come rappresentò un vero e proprio pioniere quando tentò di uscire dalla strettoia costituita dalla dicotomia abolizionismo/regolamentazione (ancora attuale) invitando a usare come metro per valutare la condizione e il benessere delle prostitute non la presenza o meno di una cornice legale al mestiere, quanto la possibilità per le donne di controllare il proprio lavoro e di essere indipendenti, vale a dire di non essere sfruttate, costrette, private dei propri guadagni.
Passando a una dimensione più etnica, tu parli di un importante coinvolgimento delle figure familiari mariti e padri. Parli di uomini che ritornano in Italia per procurarsi una moglie poi avviarla negli USA alla prostituzione. Ci puoi parlare del ruolo degli uomini nei traffici?
Il modo in cui gli uomini hanno partecipato ai traffici e più in generale all’espansione del mondo della prostituzione è un tema difficile da indagare, per il modo stesso in cui si sono formate le fonti e, infatti, sono molto rari gli studi dedicati a questo tema come quello di Julia Laite, Traffickers and Pimps in the Era of White Slavery (2017). Dal momento che gran parte delle politiche contro la tratta e i traffici hanno preso la forma del controllo e della sorveglianza delle donne e della loro mobilità, a noi sono arrivate scarse tracce delle presenze maschili, che pure in questa storia hanno un ruolo di primo piano. Nondimeno, soprattutto con il passare degli anni, emerse già agli occhi degli osservatori coevi il ruolo che gli uomini avevano nei traffici, soprattutto rivestendo funzioni di intermediazione e organizzative. Sono le agenzie consolari dei primi anni del Novecento, ad esempio, a denunciare come a Malta e Alessandria d’Egitto le prostitute minorenni italiane riuscivano ad aggirare i controlli e a essere impiegate nelle case di prostituzione locale grazie alle garanzie e alle false dichiarazioni offerte da padri e fratelli, che in non pochi casi le accompagnavano fino a destinazione. Due decenni dopo, a metà anni venti, è la Società delle Nazioni ad avviare un’inchiesta su larga scala sul ruolo dei souteneurs, in Italia conosciuti anche come sfruttatori, procacciatori, trattieri, vale a dire su quella composita galassia di figure, – presumibilmente maschili, ma non solo – che guadagnavano a ridosso dei traffici svolgendo le nuove funzioni che l’espansione del mercato richiedeva: procacciamento delle donne, intermediazione, svolgimento pratiche burocratiche, accompagnamento nei viaggi. È da sottolineare, inoltre, che già la Società delle Nazioni e molti osservatori del tempo avevano riconosciuto il legame particolare, sentimentale, che molto spesso univa la prostituta con il suo sfruttatore e/o lenone. Negli Stati Uniti era diffusa la convinzione che non pochi emigranti italiani, ma non solo, tornassero in patria a prendere moglie per poi sfruttarla come prostituta e alcune vicende che ho intercettato nelle fonti e raccontate nel libro rientrano perfettamente in questo schema. In generale, non sono pochi i casi nei quali le figure maschili compaiono come amanti, compagni, mariti delle prostitute, che vivono del loro lavoro. È per questo che accanto alla figura storica del lenone, presente nei codici penali già da molti secoli, è nei primi decenni del Novecento che giuristi e politici si interrogano su come disciplinare gli «sfruttatori» delle prostitute, vale a dire quegli uomini – spesso uniti a loro da relazioni sentimentali, asimmetriche – che vivevano dei loro guadagni.
Quali fonti hai usato per la ricerca?
Come dicevo all’inizio gran parte della ricerca si è basata sulla serie «Tratta delle bianche» che compone il fondo Interpol all’Archivio centrale dello Stato. È in sostanza una raccolta di fonti molto ricca e variegata che permette di indagare il tema della prostituzione internazionale a partire da diverse prospettive. Una parte importante della documentazione è prodotta dalle questure o dagli uffici di P.S. e raccoglie indagini, spesso in collegamento con le polizie di altri paesi, o verbali di interrogatorio di prostitute e di qualche uomo coinvolto nei traffici. Altra parte considerevole di documentazione è quella prodotta intorno alla partecipazione dell’Italia ai congressi internazionali contro la tratta delle bianche e poi ai lavori della Società delle Nazioni: oltre ai resoconti di questi momenti, sono consultabili i materiali preparatori alla relazione dei delegati italiani, costituiti da report e inchieste varie. Un terzo nucleo di documenti riguarda le attività delle associazioni di volontariato che si sono mobilitate intorno alla tratta. Infine, nella serie si trovano anche articoli sparsi di giornale e corrispondenze consolari.
Si può fare una stima di quante fossero le prostitute?
Si possono avere delle stime e dei dati solo approssimativi, tenendo conto che molta parte del fenomeno della prostituzione, anche di quella all’estero o straniera, non era regolare e quindi sfuggiva a forme di rilevazione ufficiale. Nelle fonti da me utilizzate, inoltre, i dati spesso vengono forniti per singoli contesti e manca una quantificazione generale delle prostitute italiane all’estero. Sappiamo dalle corrispondenze consolari e dalle inchieste della Società delle Nazioni che le italiane erano tra le prostitute straniere le più numerose nei paesi del Mediterraneo, ma anche dell’Europa continentale. Quello che le fonti restituiscono chiaramente è una forte preoccupazione per una prostituzione percepita in crescita vertiginosa e che in alcuni contesti urbani e centri occupa e connota intere aree o quartieri. Per fare solo qualche esempio, la Regia Agenzia consolare de Il Cairo sostenne che nel 1903 in città c’erano 66 prostitute e 37 case di tolleranza italiane, tutte concentrate in un solo quartiere, mentre ad Alessandria d’Egitto le italiane che esercitavano il meretricio erano 112. A Tripoli negli anni Trenta arrivavano circa 15-20 nuove prostitute italiane al mese. Si trattava di presenze temporanee, perché le donne ogni 2-3 settimane tendevano a spostarsi in altri centri e questo rende ancora più difficile quantificare il fenomeno.
Nel libro racconti la storia di Mariella, costretta dal marito Beniamino a prostituirsi incinta nella provincia statunitense all’inizio del Novecento, quali altri tipi di violenze sono emerse e dalla lettura dei documenti ufficiali? E dalle testimonianze delle donne?
Il caso di Mariella e Beniamino è uno dei casi dove la documentazione è più esplicita rispetto alle violenze subite dalla donna e il suo allo stesso tempo sembra un caso da manuale. È una giovane calabrese che si sposa con un uomo conosciuto solo un mese prima, già emigrato negli Stati Uniti e rientrato sembra proprio con lo scopo di trovare moglie. A tre mesi dal matrimonio i due emigrano insieme e da subito, appena arrivati negli Stati Uniti, lui la costringe a prostituirsi, derubandola pure dei suoi guadagni, fino a quando lei non lo denuncia al servizio immigrazione. Tra le altre tipologie di violenze registrate o ravvisabili nelle fonti un posto altrettanto importante lo occupano quelle che per molte donne hanno rappresentato l’anticamera della carriera da prostituta. Mi riferisco alle violenze sessuali subite da domestiche o cameriere ad opera dei loro «padroni», seguite magari da gravidanze illegittime, che per molte hanno rappresentato ad un tempo la perdita del lavoro e l’esclusione dal «mercato» matrimoniale. Non di rado quando le prostitute che facevano domanda di iscrizione in una casa di tolleranza venivano interrogate sulla loro «caduta» nella prostituzione, raccontavano queste esperienze.
Nel corso della tua ricerca, hai trovato testimonianze di violenze nei confronti delle donne che non hai riportato nel libro?
Non ho utilizzato tutte le fonti sulle quali ho lavorato e diversi casi che ho dovuto sacrificare per motivi di spazio e coerenza dei capitoli possono offrire spunti interessanti rispetto alla vostra messa a tema, molto importante, delle intersezioni tra violenza e migrazioni. In particolare, vorrei richiamare una vicenda, in verità di violenza «scampata», dei primi anni del Novecento, che prende avvio con un rapporto redatto dal comandante del piroscafo Liguria dal porto di Aden (nell’attuale Yemen) e indirizzato al reggente l’Autorità consolare locale datato 29 agosto 1907. Il comandante raccontò che la sera prima si erano rivolte a lui, in lacrime, due giovani italiane che erano in viaggio da Messina, per chiedere di essere poste sotto la sua protezione, fatte sbarcare e infine rimpatriate. Le due, Rosa G. e Concetta C., di 19 e 23 anni, entrambe della città siciliana, riferirono di essersi imbarcate per emigrare a Bombay in seguito ad accordi presi con un uomo, Rosario C., che aveva promesso loro onesto ma remunerativo lavoro all’estero e che le accompagnava nel viaggio e ne aveva pagato le spese. Da altra documentazione, prodotta man mano che le autorità cercarono di ricostruire i fatti, apprendiamo che le due giovani, che già si conoscevano in città, avevano entrambe pochi legami familiari (Concetta era orfana di entrambi i genitori, Rosa di padre ignoto) e vivevano modestamente, l’una con il lavoro di sarta e l’altra con quello di «incastatrice di agrumi». Prima dell’estate erano state avvicinate da Rosario C., che si era presentato come un impresario teatrale e in compagnia di una donna che spacciava per sua moglie. La sua era stata una proposta semplice e allettante: le due dovevano seguirli a Bombay dove, per le strade della città, una si sarebbe esibita cantando accompagnata da un organetto e l’altra avrebbe raccolto le «oblazioni» volontarie dei passanti. Ottenuti i necessari visti e documenti, il gruppo si era quindi imbarcato, ma una volta che la nave aveva fatto scalo a Porto Said e l’uomo le aveva fatte scendere per condurle in un postribolo, illustrandogli quale sarebbe stato il loro vero «impiego», si erano manifestate le intenzioni dell’impresario. Rifiutatesi di «cedere a quella vita» e rassicurate dal fatto che il viaggio non era ancora concluso, come sappiamo le due si rivolsero al comandante. Questi prese molto seriamente la denuncia e le mise sotto protezione in seconda classe, le fece sbarcare ad Aden dove vennero ospitate per giorni nei locali del consolato e infine, quando lo stesso piroscafo che le avrebbe dovute condurre a Bombay rifece scalo mentre era sulla via del ritorno, vennero rimandate a Messina. Dell’uomo sappiamo che proseguì indisturbato il viaggio fino a Bombay, dove sbarcò il 4 settembre per poi recarsi nel Punjab, dove effettivamente si accertò che lavorava per una casa di prostituzione «tenuta da una sua donna». Processato dal Tribunale di Messina in base all’art. 3 della legge sull’emigrazione per aver fatto emigrare una minorenne a scopo di prostituzione all’estero, venne assolto nel settembre del 1908 per insufficienza di prove.
Benché questa sia una vicenda alquanto atipica, a fronte delle molte altre che invece restituiscono frammenti di biografie di donne ormai con una lunga storia di prostituzione alle spalle, credo sia utile proprio perché racconta bene come quel confine tra scelta/violenza/costrizione dal quale siamo partite, spesso sia stato tracciato anche casualmente o fortuitamente. Rosa e Concetta hanno avuto la prontezza di rivolgersi alle autorità mentre il viaggio era in corso e hanno beneficiato entrambe della condizione di minorenne di Rosa, che ha fatto scattare dei dispositivi di protezione che non erano poi così comuni, perché costosi. In altre occasioni le fonti lasciano immaginare che una volta trapiantate in luoghi «stranieri», senza reti e magari private dei documenti, altre donne abbiano intrapreso la via della prostituzione.
Quali sono i tuoi prossimi progetti?
Ho in programma di lavorare su un corpo di fonti, sempre di polizia, relative alla prostituzione interna durante gli anni del fascismo, ma sono soprattutto impegnata a trovare una nuova posizione accademica che mi permetta di farlo.
Bibliografia
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