Trasmesso alle 23.15 del 18 ottobre 2019 su Rai 3, il documentario Non far rumore intende divulgare al grande pubblico la vicenda dei bambini italiani immigrati come clandestini nella Svizzera del secondo dopoguerra. Il documentario affida il racconto alle interviste attuali di sei ex protagonisti di quella vicenda e alla scrittrice Nicoletta Bortolotti che, nel romanzo Chiamami sottovoce, ha compreso tra i personaggi un bambino clandestino. Uno dei sei ex «bambini nascosti» è Toni Ricciardi, storico dell’emigrazione presso l’Università di Ginevra, a cui è affidata la contestualizzazione storica di quella vicenda. Non fare rumore si avvale anche di spezzoni dei documentari Rai Storie dell’emigrazione (1972) di Alessandro Blasetti, e Cielo proibito (1974).
La vicenda era già nota alle scienze sociali e alla storiografia, ne avevano scritto nel 1992 gli psicologi Marina Frigerio Martina e Simone Burgherr e, nel 2012, ancora Frigerio Martina, ma è stata indagata a livello storiografico soprattutto da Toni Ricciardi. Inoltre, per il grande pubblico era evocata anche dal fortunato film di Franco Brusati Pane e cioccolata (1974). Molto meno noto e distribuito, in proposito, era specialmente il film di Alvaro Bizzarri Lo stagionale (1971). Infine, la televisione pubblica della Svizzera italiana ne ha parlato in più occasioni negli anni recenti. Mancava, però, una sua illustrazione specifica al grande pubblico italiano (ritardo non senza significato), e averla realizzata è il primo merito di Non fare rumore.
La spiegazione delle cause della clandestinità dei bambini italiani in Svizzera è affidata, purtroppo, a poche rapidissime didascalie e a spezzoni troppo succinti dell’intervista a Ricciardi, tuttavia se ne colgono i tratti essenziali. Tra anni sessanta e settanta – ricorda il documentario – si contavano tra i 10.000 e i 30.000 bambini stranieri clandestini, anche se a giudizio di Ricciardi il numero era molto più alto, e si trattava soprattutto di bambini italiani. Il paradosso disumano, prosegue lo storico, è che non facevano parte di famiglie clandestine che, quindi, avrebbero dovuto essere rimpatriate nella loro interezza: illegali erano solo i bambini, solo loro, dunque, venivano rimpatriati. Gli stagionali, infatti, e gli immigrati annuali nei primi anni della loro presenza, non avevano diritto al ricongiungimento familiare. La conseguenza era quella di spezzare le famiglie o di costringerle a nascondere in casa i figli, privandoli della socializzazione con i loro coetanei e della formazione scolastica, con tutte le conseguenze che ne derivavano sia per il loro difficile inserimento lavorativo successivo, sia, soprattutto, per la loro formazione psichica e affettiva. La ragione di tutto ciò, prosegue Ricciardi, risiedeva nella volontà della Confederazione di massimizzare il profitto ricavabile dagli stranieri e minimizzare il loro costi assistenziali, conservando sul suolo nazionale solo quelli utili all’economia, ossia gli adulti. Tuttavia, a giudizio dello storico e di Franco, uno degli intervistati, la responsabilità di tutto ciò ricadeva soprattutto sull’Italia che, pur di massimizzare gli espatri, di quei costi umani «se ne infischiava», come afferma Ricciardi, anche a causa del ruolo preziosissimo che le rimesse degli emigrati giocavano nell’alimentare il «miracolo economico».
Altro pregio del documentario è quello di avere evocato con immagini del passato e del presente la tristemente nota Casa del fanciullo di Domodossola, orfanatrofio che, a somiglianza di molti altri a ridosso del confine svizzero, ospitava con personale ecclesiastico impreparato e violento, i figli degli immigrati che non osavano tenere i bambini con sé in stato di clandestinità. Altrettanto suggestivi sono gli spezzoni dei filmini super 8 della famiglia di Fabrizio, altro intervistato, che mostrano come la vita dei bambini nascosti fosse una doccia scozzese di emozioni: il senso di abbandono durante la settimana nell’orfanotrofio, la gioia della visita dei genitori nel fine settimana e il dolore della loro partenza nella domenica. Il pregio maggiore del documentario sta proprio qui, nell’illustrazione del prezzo emotivo pagato dai bambini e dal peso che gli anni di reclusione in Svizzera o di orfanotrofio ha poi avuto su tutto il corso della loro esistenza. Gli intervistati si mostrano molto consapevoli, da un lato, delle ragioni governative che li condannarono alla clandestinità; dall’altro, delle ragioni dei genitori, ossia la ricerca di un minimo di profitto a tutti i costi. Alla luce di tali consapevolezze, il loro giudizio è di unanime risentimento e di condanna tanto dei governi, quanto dei genitori: «non ne è valsa la pena» è il loro verdetto. Il benessere sperato dai genitori, infatti, in quel contesto di sfruttamento rapace non si sarebbe mai potuto realizzare e non si realizzò, mentre, in cambio di così poco, distrussero la propria vita affettiva e quella dei figli.
La storiografia dell’emigrazione italiana ha più volte denunciato il carattere fuorviante della retorica pubblica sull’esperienza migratoria nazionale: da un lato, il discorso pubblico sottolinea solo la natura «miserabilista» e vittimista dell’emigrante italiano, anche al fine paternalistico di esorcizzare, per analogia, un ruolo indipendente e costruttivo dell’attuale immigrazione in Italia. Dall’altro lato, le sofferenze degli italiani all’estero sono utilizzate a fini identitari di stampo «nazional popolare» (si pensi all’annuale Giornata Nazionale del Sacrificio del Lavoro Italiano nel Mondo): tramontato il mito del «buon italiano», l’emigrante diviene il prototipo delle virtù civiche, familiari e internazionali dell’Italiano che avrebbe ricostruito la patria e contribuito al benessere internazionale. A nostro parere Non fare rumore sfugge a questi stereotipi: certo, trattando di uno degli aspetti più dolorosi della vicenda migratoria italiana, non può tacere il sacrificio e la sofferenza, ma tali sofferenze non sono ricondotte ad alcun riscatto né dei migranti, né della patria, la condanna dei governi italiani, come detto, emerge severissima tanto dalle parole dello storico che degli emigrati. Quanto al sacrificio individuale, il giudizio è ancora più severo: non ne valeva la pena.
Sandro Rinauro