Sull’ultima produzione di Martin Scorsese è già stato scritto quasi tutto, soprattutto riguardo ai suoi punti principali. Per tutti i critici nasce dalla passione sua e di Robert De Niro per un libro del 2004 sul caso Jimmy Hoffa (I Heard You Paint Houses di Charles Brandt). In esso Frank Sheeran (1920-2003), anziano mafioso di origine irlandese, si dichiara prima di morire il vero colpevole della scomparsa del sindacalista. Il libro è stato demolito da molti commentatori, come ricorda Jack Goldsmith in Jimmy Hoffa and The Irishman: A True Crime Story? («New York Review of Books», Daily, 26 settembre 2019). Goldsmith ha un interesse personale nella faccenda, perché la pretesa confessione di Sheeran coinvolge anche il suo patrigno, ma è anche un autorevole giurista e al caso ha dedicato il dettagliato In Hoffa’s Shadow (New York, Farrar, Straus and Giroux, 2019). L’ultimo dei tanti libri ispirati alla sparizione di Hoffa il 30 luglio 1975, mentre il boss mafioso di riferimento è stato descritto in Matt Birkbeck, Quiet Don: The Untold Story of Mafia Kingpin Russell Bufalino, New York, Berkley, 2013.
Alcuni critici hanno poi notato la dimensione bastarda di questo film per il piccolo schermo: definiamolo così per distinguerlo dal più tradizionale film televisivo, di gran lunga meno costoso. The Irishman è troppo lungo (209’) e troppo poco ritmato per essere proiettato in sala e poteva forse essere diluito in una miniserie televisiva, se Scorsese non avesse già giocato e vinto a questa roulette dirigendo il pilot di Boardwalk Empire e lavorandovi quale coproduttore esecutivo per 5 stagioni (2010-2014). Altri ancora hanno sottolineato come The Irishman sia l’ennesima storia di gangster italo-statunitensi di Scorsese, per giunta filmata con gran parte dei propri attori preferiti, in primis Robert De Niro; Harvey Keitel e Joe Pesci, con altri che avrebbero potuto/dovuto esserlo, si pensi ad Al Pacino, e infine con alcuni dei suoi nuovi acquisti, per esempio Bobby Cannavale, protagonista della serie drammatica Vinyl, prodotta da Scorsese e Mick Jagger nel 2017. D’altronde la nostra opera è chiaramente un prodotto della factory di Scorsese. È infatti impreziosita da uno score musicale di Robbie Robertson, il leader di The Band, al cui ultimo concerto Scorsese ha dedicato il famoso rockumentario The Last Waltz (1978). Tra l’altro Robertson ha già musicato vari film del regista: Raging Bull (1980), Casino (1995), The Departed (2006), The Wolf of Wall Street (2013). Inoltre Zilian ha sceneggiato pure Gangs of New York (2002).
Diversi critici hanno per di più evidenziato come The Irishman riprenda il tema degli irlandesi affiliatisi alla mafia di origine italiana, divenendo così non solo membri dell’onorata società, ma addirittura italo-statunitensi onorari. Lo stesso De Niro ha interpretato Jimmy Conway (alias James Burke, 1931-1996), rapinatore irlandese legato ai Lucchese, in Goodfellas (1990). Inoltre il personaggio al centro di Boardwalk Empire, ritratto di Atlantic City durante il Proibizionismo, è una trasposizione televisiva del boss repubblicano Enoch Lewis Johnson (1883-1968), sempre di origini irlandesi e sempre coinvolto con la mafia. Per giunta il personaggio della serie televisiva è interpretato da Steve Buscemi, non solo italo-statunitense, ma anche interprete del cugino Tony del feroce protagonista di The Sopranos (13 episodi nelle stagioni 2004-2006).
Dunque sembrerebbe che resti poco da aggiungere a questa fitta serie di richiami in grado di far risaltare la coerenza interna con cui si costruisce la filmografia di Scorsese. Questi, già affascinato dall’idea di cattolici irlandesi che si affiliano anche mentalmente a un clan italo-statunitense, trova nel romanzo-bufala di Charles Brandt un elemento congeniale e lo sviluppa sperimentando le possibilità di Netflix, ovvero di una distribuzione a cavallo di tutti i piccoli schermi, siano questi di televisioni, computer, tablet o smartphone. Ha così scientemente prodotto un ibrido, destinato a molteplici devices, in cui racconta la carriera di Sheeran dal servizio militare nella Penisola durante la seconda guerra mondiale, quando impara l’italiano e a uccidere senza coinvolgimento emotivo, alla resistibile ascesa dopo il conflitto. Prima trasportatore truffaldino, poi piccolo enforcer mafioso, quindi killer patentato e infine dirigente del corrotto sindacato dei camionisti. Segue la caduta: la prigione, la salute malferma, un autista-badante, un ospizio per anziani.
Tuttavia quanto appena scritto lascia fuori un elemento di non poca importanza: la piattezza agghiacciante con cui il protagonista racconta la propria vicenda. È un espediente voluto per rendere la psiche di un uomo non particolarmente intelligente, ma fedele ai propri capi, nell’esercito come nella mafia, e capace di uccidere o far male senza scrupoli o approfondite riflessioni. Persino quando conosce bene le vittime o è addirittura loro molto legato, proprio come Hoffa, cui fa a lungo da guardaspalle sia pure per conto del proprio boss mafioso. Tuttavia non è solo un espediente, visto che rallenta tutta l’opera, oltre ogni limite commercialmente produttivo. È un freno costantemente tirato per far risaltare come quel mondo sia ormai e grazie al cielo finito. Un mondo al quale, secondo il regista, non è possibile riconoscere alcun aspetto positivo o comunque glamorous. Sheeran è uno psicopatico intellettualmente tarato, che non si accorge di essere sfruttato in quanto tale o che comunque accetta di esserlo perché tanto non potrebbe guadagnare diversamente. I suoi capi sono forse astuti nella gestione quotidiana del crimine, ma non vedono oltre il guadagno immediato e non sono da meno i loro avversari, nel mondo della delinquenza o in quello della politica, i Kennedy compresi. La Camelot kennediana crolla, grazie a due omicidi, ma non risorge il mondo dei gangster che continuano inanemente a sognare di riprendere in mano Cuba, con i suoi bar, i suoi casinò e i suoi bordelli.
Siamo davanti a un universo al tramonto, di cui non si può conservare niente, se non il ricordo della sua piccolezza. E questo souvenir è evidenziato dallo sguardo prima timoroso e perplesso, poi arrabbiato e senza più rispetto di Peggy, la figlia maggiore di Sheeran. La violenza di questi non soltanto è imperdonabile per la ragazza, ma è anche inutile. Il padre uccide per pochi soldi, tanto che deve sempre trovare nuove occasioni di guadagno. La figlia trova un lavoro ben pagato, nel film in banca, e si assicura un’esistenza economicamente tranquilla. Le appare dunque chiaro, ci fa capire il regista, che quell’universo di vecchi maschi, auto reputantisi forti e astuti, sia una sacca di miseria destinata a sparire. Per questo non parla quasi al padre già prima di decidere di tagliare completamente i rapporti e sono il suo mutismo e la sua decisione finale a decretare che quel mondo era morto prima ancora di scomparire.
Tutta l’opera è estremamente angosciosa e probabilmente a tale scopo il regista persegue una lentezza narrativa, che respinge lo spettatore e contrasta con la vivacità del di poco precedente finto documentario sulla Rolling Thunder Revue (Netflix, giugno 2019) dell’amato Bob Dylan. Questi infatti rappresenta da tempo per Scorsese quanto di quegli anni Settanta doveva giungere fino a noi: buona musica e soprattutto il piacere di lavorare tutti. Dylan è un personaggio quasi sempre autisticamente perso nel proprio universo. Tuttavia di fronte a un/a musicista o cantante di talento non si preoccupa della possibilità di coinvolgerlo/a per guadagno, ma vuole solo sperimentare come si possa produrre la musica migliore. I gangster di The Irishman non sanno invece suonare neanche la propria musica, anche se si avvalgono nelle loro celebrazioni di ottimi cantanti, quale il Jerry Vale interpretato da Steven Van Zandt. Altro piccolo scherzo fra intenditori, visto che il chitarrista della E Street Band di Bruce Springsteen non solo ha primeggiato come «consigliori» nei summenzionati Sopranos, 1999-2007, ma ha anche scritto, prodotto e interpretato una propria serie gangsteristica: Lilyhammer, la prima produzione originale Netflix in questo campo, tre stagioni tra il 2012 e il 2014.
L’accumularsi di queste citazioni interne al genere serve a farci intendere come, per Scorsese, la fortuna postuma dei gangster non sia frutto di una qualche loro grandezza, ma soltanto di una cultura di massa che li ha elevati a campioni di un’era che si apprestava invece a seppellirli. E da questo cortocircuito The Irishman ricava la propria forza come apologo storico e la propria debolezza come prodotto commerciale.
Matteo Sanfilippo