La società ticinese, oggetto delle ricerche raccolte in questo volume, costituisce il caso più noto delle migrazioni di mestiere alpine, tanto da essere considerato come paradigmatico ed esemplare. Nell’area centrale delle Alpi, con le contigue valli sul versante italiano dei laghi, il Ticinese costituisce l’area dove prima è stato riconosciuto e analizzato un modello di economia basato sull’allontanamento periodico degli uomini, dediti ad attività artigianali collegate all’edilizia, con un alto grado di specializzazione, e alla stanzialità del resto della famiglia. Tale modello risultava ben noto agli studiosi fin da metà Ottocento, quando lo stesso Carlo Cattaneo affermava, in una sua pagina giustamente famosa, che in quei luoghi, «la terra non ha quasi valore» e quindi che «la ricchezza non viene dal suolo, ma vi si investe come frutto delle arti o del traffico», cui erano dediti gli uomini, che generazione dopo generazione scendevano «al piano ad esercitarvi qualche mestiere» e imparavano a «vivere in terra straniera» (Cattaneo, 1844, Introduzione, pp. cv-cvi). Queste affermazioni del grande studioso lombardo, come è noto, sono servite da guida nel percorso di studi che a partire dagli anni ottanta del Novecento ha condotto alla formulazione della teoria del «paradosso alpino» e delle interpretazioni revisioniste la postulavano, divenute oggi parte integrante della ricerca sule migrazioni alpine. Tanto che, a partire dall’ultimo decennio del Novecento, le pratiche migratorie diffuse lungo l’intero arco delle Alpi non sono più state interpretate come una fuga dalla miseria, ma piuttosto come un sistema di vita che per secoli aveva permesso di aggirare la povertà del suolo con i proventi di mestieri non sempre umili esercitati altrove.
Nel caso delle ricerche di questo volume, l’analisi è arricchita dall’intersecazione fra «mete e professioni, donne e migrazione, identità e quotidianità, contesti e destini», come avverte l’autrice nel quarto di copertina, attraverso il continuo ricorso alla riduzione di scala dell’osservazione, alle vicende individuali, alle eccezioni che incrinano la regola. Le quattro sezioni in cui si articola il volume, che si rifanno appunto alle altrettante diadi appena evocate, conducono il lettore in primo luogo nel continuo andirivieni fra i luoghi di partenza e le molte e diversificate destinazioni degli artigiani, mastri di bottega e imprenditori ticinesi. A ricordare l’importanza del loro ruolo nella storia dell’architettura europea bastino il capitolo dedicato all’esperienza di Francesco Castelli, proveniente da Bissone, un borgo di meno di 300 anime alla fine del Cinquecento, divenuto noto al mondo come Francesco Borromini, e quello dedicato alle partenze verso la Russia degli zar, dove fin dai tempi della costruzione di San Pietroburgo gli architetti e gli artigiani ticinesi costituirono le maestranze più ricercate.
I vari capitoli riguardano anche i temi, altrettanto articolati, dell’importanza del mestiere e delle strategie familiari ad esso connesse, dei ruoli e degli spazi decisionali delle donne, delle relazioni intessute nelle società di arrivo, di un diffuso esercizio del plurilocalismo, della costruzione delle identità. Tali aspetti sono osservati attraverso le vicende di alcune storie di dinastie imprenditoriali, attive a Genova, a Milano, a Roma come a Venezia ma anche in varie città dell’Europa continentale. Il metodo di indagine adottato associa alla riduzione di scala l’incremento della complessità delle variabili in gioco nei progetti, nelle decisioni, nei destini, sulla base di una analisi severa degli archivi locali e di documenti di famiglia, come gli epistolari.
Nei confronti del ruolo del mestiere nei percorsi migratori si trovano nel libro di Stefania Bianchi interessanti elementi di raffronto con quanto è stato verificato per altre aree alpine, dal Biellese al Queyras. I richiami sono molteplici: in primo luogo va menzionata l’importanza della pratica dell’apprendistato, che non solo è strumento di trasmissione delle competenze del mestiere, ma anche veicolo di sodalizi familiari e che finisce per approdare ai percorsi di formalizzazione dei saperi proposti dalle nascenti istituzioni accademiche. In secondo luogo, vi si trova la combinazione di terra e credito che sorregge gli aspetti finanziari dell’esercizio dei mestieri che motivano le abitudini migratorie. Questa emerge bene nel capitolo Parte chi impara l’arte, in particolare nel riferimento ad ipoteche poste sulla terra per finanziare il viaggio nei primi decenni del Settecento. Oltre alla consuetudine di trasmettere le abilità professionali ai giovani del gruppo, vi troviamo quella di rinforzare alleanze societarie e finanziarie attraverso l’utilizzo accorto di una politica matrimoniale guidata da scelte endogamiche, anch’essa osservata in altre aree. I matrimoni erano quindi accompagnati da carature negli appalti, e mostravano evidente lo scopo di rinsaldare le solidarietà imprenditoriali. A tale proposito Stefania Bianchi conclude che «apprendistato famiglia e cantieri sono per il passato gli ingredienti indissolubili per assicurare nel tempo la notorietà della propria bottega» (p.41).
Quanto al ruolo delle donne, Stefania Bianchi indaga da un punto di vista innovativo i loro percorsi, seguendole non tanto nei consueti ruolo di custodi del «fuoco acceso», per ricorrere ad una fortunata formula elaborata da Lugi Lorenzetti e dal Raoul Merzario per indicare le molte funzioni svolte dalle donne stanziali durante le lunghe assenze degli uomini di famiglia. Oggetto dell’attenzione di Bianchi sono stati infatti i loro percorsi nelle mete di destinazione del lavoro di questi ultimi, in particolare a Genova, meta privilegiata dei maestri antelami fin dal xii secolo. In questo volume il lettore trova il caso significativo di Anna Cantoni Fontana (1753-1846), nipote di Carlo Fontana, detto il Castellano per il suo potere economico e la sua importanza sociale in ambito comunale, e moglie dell’architetto ingegnere Cantoni. Il marito è anche suo zio, in quanto fratello della madre, in ossequio alle rigide regole endogamiche imposte degli affari, e garantite da benevole dispense religiose, ben remunerate. In questo caso sulla base dell’epistolario, parte di un ricchissimo fondo depositato presso l’Archivio storico ticinese, viene ricostruita una esistenza segnata dal bilocalismo fra la ricca città ligure e il paesello alpino di origine, attraverso in percorso di vita a cavallo fra le due realtà che permette alla storica di indagare i possibili ambiti di scelta delle Donne che seguono i mariti.
La scelta bilocale e la costruzione di identità plurime sono alla base degli itinerari proposti negli altri capitoli, alla ricerca delle mutevoli percezioni dell’identità sperimentate dai migranti ticinesi. Appendiamo così che questi ultimi vennero descritti a Genova come «Svizzeri», se provenienti da baliaggi italiani, «spagnoli» se provenienti dalla valle d’Intelvi, come svizzeri accomunati ai tedeschi a Venezia, ma come «lombardi» a Roma, e anche a Milano, dove gli stranieri erano i Cappelletti, ovvero i Biellesi, anch’essi rinomati mastri da muro, «quindi piemontesi il cui dialetto è ben diverso da quello lombardo parlato nelle contrade cisalpine» (p. 126). La patria, ne deduce di conseguenza l’autrice, è in questo caso la lingua, che finì per designare come lombardi tutti i migranti milanesi, comaschi e della Svizzera italiana nella percezione delle società di arrivo, ma anche come italiani, identificati, come a Pietroburgo negli anni venti dell’Ottocento, dalla comune passione per la pasta, garantita da un negozio che si riforniva a Genova.
Patrizia Audenino