È sempre un rischio quando un libro scaturisce dal mosaico di varie ricerche prodotte da uno studioso nel corso della sua carriera, ma in questo caso Vittorio Cappelli riesce nell’operazione senza troppa artificiosità. Il volume riunisce, in sette capitoli, sette saggi già pubblicati su riviste e collettanee. La gran parte di essi è dedicata all’emigrazione dall’Italia in America latina tra l’Ottocento e il Novecento. Due saggi interessano invece il rapporto tra identità locali e Stato nazionale, nel periodo risorgimentale e del fascismo. Il filo rosso proposto è quello delle appartenenze multiple dell’Italia rurale ed emigrante, in particolare della Calabria, divisa tra le patrie locali, la patria nazionale e quelle di adozione oltreoceano.
Il primo capitolo fa da cornice interpretativa al testo. Cappelli esamina sul lungo periodo il farsi (e il disfarsi) dell’italianità in America latina: dal patriottismo degli esuli del Risorgimento, al campanilismo dell’emigrazione di massa, fino alla scoperta della Nazione con la Grande guerra e il fascismo. Il tentativo, ancorché solo accennato, di approdare all’attuale rivalorizzazione tra gli oriundi italiani, grazie alla rivoluzione tecnologica, dei legami con le origini dati per dispersi nei meandri dell’assimilazione, serve a rimarcare il focus del discorso. Non c’è un’evoluzione lineare del concetto di «patria» – dal villaggio, allo Stato nazionale, alle nuove patrie – ma una continua reinvenzione, nel tempo e nello spazio, dei suoi significati.
Le «piccole patrie» si incontrano nelle storie di emigrazione presentate da Cappelli, che sono soprattutto «circolari», segnate dal rientro in Italia se non al paese di origine, come nell’esempio del pittore calabrese Rosalbino Santoro (cap. 4), autore, tra l’Ottocento e il Novecento, di numerosi quadri che documentano la vita e il lavoro degli italiani nelle fazendas del caffè nello Stato di San Paolo.
Emerge subito uno dei tratti caratterizzanti gli studi dell’autore, ovvero l’attenzione verso il segmento della grande emigrazione rappresentato dai professionisti dell’arte. Le «altre patrie» verso cui si muovono nel libro non sono le «altre Americhe» care a Cappelli, vale a dire le mete più remote e meno studiate raggiunte dagli italiani, bensì quelle classiche come il Brasile e l’Argentina. I protagonisti sono architetti e costruttori che hanno modellato il volto moderno di metropoli come Rio, nel caso del calabrese Antonio Jannuzzi, Buenos Aires, in quello del marchigiano Francesco Tamburini, e Montevideo, in quello del fiorentino Giovanni Veltroni (cap. 3). Attraverso l’ausilio di fotografie, non solo si offre una sintesi dell’influenza esercitata dagli italiani sull’urbanistica e sull’edilizia dei paesi latinoamericani. Si mettono anche in luce le potenzialità, ancora da sviluppare, del nesso tra architettura e storia dell’emigrazione per una comprensione, in chiave transnazionale, del movimento di idee e sensibilità artistiche legate all’«eredità del classicismo», alle «innovazioni dell’eclettismo» e del Liberty, fino all’«irruzione delle avanguardie e in particolar modo del futurismo» (p. 29).
Più che discutere il valore artistico delle opere, l’autore evidenzia l’irriducibilità dell’emigrazione dalla Penisola alla dimensione contadina, portando alla luce le professionalità, non di rado di tradizione familiare, formatesi in grandi centri come Napoli, espatriate e poi rientrate, a testimonianza del «legame sentimentale e culturale con l’Italia e con la piccola patria calabrese» (p. 38). Resta da vedere, tuttavia, quanto le biografie di successo di queste professionalità possano essere dimostrative delle dinamiche di integrazione nelle «altre patrie». Manca, infatti, nel libro una trattazione di questo aspetto.
Infine, il rapporto con la «patria» è esaminato non solo attraverso la lente dell’emigrazione, con la quale si inquadra, inoltre, la biografia dell’avvocato e scrittore socialista calabrese Varcasia Stigliani, convertitosi all’interventismo al rientro in Italia dopo una peregrinazione nelle Americhe (cap. 4). Due saggi osservano la dicotomia locale/nazionale in relazione a passaggi critici della storia d’Italia. In un caso (cap. 2) il riferimento è al Risorgimento, ma la trattazione, frutto di un intervento convegnistico, è assai breve e si riduce a poco più di un’esortazione storiografica a non semplificare il rapporto tra la Calabria e l’Unità d’Italia reagendo all’antimeridionalismo con «l’immagine fantasiosa di un luminoso e felice Eldorado borbonico» (p. 23). L’altro caso (cap. 6) riguarda il fascismo, terreno di studio privilegiato di Cappelli. In questo saggio conclusivo si delinea come il regime negli anni Trenta abbia provato, attraverso un’opera di mitizzazione delle tradizioni popolari, a manipolare le identità locali, svuotandole del potenziale divisivo rispetto al progetto di nazionalizzazione e rimodellandole nella forma di una «cultura provinciale» (p. 85).
Da quanto sintetizzato risulta evidente la scollatura tra le parti del libro, dovuta all’assemblaggio ex post dei vari saggi. È, però, attuale l’orizzonte di ricerca che ne emerge, imperniato su una visione della Nazione al contempo da dentro e fuori i suoi confini. Una prospettiva obbligata se si vuole capire la specificità del senso della patria in Italia, all’interno del quale convivono tensioni non solo nazionali ma anche glocali, in virtù della rete di relazioni circolari e policentriche tessuta dalla nostra emigrazione.
Tommaso Caiazza