Tra la metà dell’Ottocento e il primo conflitto mondiale milioni di italiani lasciarono la propria terra di origine per tentare la fortuna in America. I porti di New York, Buenos Aires, Montevideo e Santos videro sbarcare ogni giorno migliaia di uomini, donne e bambini provenienti dal vecchio mondo in cerca di un futuro migliore.
Carlo Stiaccini in questo saggio approfondisce il ruolo dei viaggi per mare e i risvolti sociali connessi a questo tipo di esperienza. Per fare ciò sceglie come fonte di riferimento i diari di bordo, una documentazione preziosa per reperire informazioni sugli eventi legati alla traversata e un utile strumento di analisi grazie alle descrizioni e alle annotazioni apportate dai capitani delle navi. Se è vero, infatti, che la compilazione di questi diari spesso era effettuata con distacco, altre volte chi scriveva non si limitava a registrare nascite, morti, incidenti o emergenze sanitarie, ma aggiungeva descrizioni dettagliate e riflessioni personali che conferiscono a queste fonti un carattere unico, creando delle vere e proprie narrazioni di viaggio. Stiaccini definisce questi giornali nautici «scritture soggettive» (p. 22) e sottolinea la loro importanza nella ricostruzione dell’esperienza migratoria italiana verso gli Stati Uniti e l’America Latina.
Nel 1892, l’anno in cui fu inaugurato il centro di accoglienza newyorkese di Ellis Island, i collegamenti tra i porti di Genova e Napoli e quelli statunitensi erano particolarmente frequenti. Nell’immaginario collettivo la traversata oceanica rappresentava un’odissea, non solo per la durata del viaggio, che poteva oscillare tra i quindici e i trenta giorni, ma anche per le condizioni disumane garantite da un biglietto di terza classe. Nonostante la pubblicità ingannevole delle compagnie di navigazione, il servizio a bordo era a dir poco scadente e gli alloggi fatiscenti. Solo una volta imbarcatisi sulla nave, i viaggiatori si rendevano conto di essere stati vittime delle agenzie di emigrazione, ovvero di quella rete di procacciatori che attraverso false promesse contribuirono fortemente alla massificazione dei flussi migratori. Tali agenzie rappresentavano il primo anello di una catena di sfruttamento proprio perché si imponevano fin da subito come punto di riferimento per le questioni burocratiche necessarie alla partenza. Anche a bordo delle navi, col passare degli anni, la situazione diventò sempre più critica a causa del proliferare di attività illecite quali il contrabbando e la diserzione, fenomeno in continua crescita e comune a tutte le navi. Questa pratica prevedeva il farsi arruolare sul piroscafo come marinaio per poi far perdere le proprie tracce una volta sbarcati nel porto di destinazione.
L’esperienza migratoria non sempre si risolveva positivamente. Ne sono un esempio i cosiddetti «vinti della vita» (p. 105), cioè coloro che furono costretti a tornare in patria perché respinti dalle autorità di competenza o perché vittime della miseria oppure per aver perduto il lume della ragione. Illusi di poter cambiare le proprie sorti trasferendosi all’estero, poterono solo constatare il fallimento del loro progetto. Fu l’altra faccia dell’emigrazione in America: il trauma dell’abbandono degli affetti, le difficoltà di integrarsi in una società diversa, l’incapacità di comunicare in una lingua sconosciuta furono tutti fattori che contribuirono a intaccare la salute mentale di alcuni migranti che furono rimpatriati e spesso internati in manicomi. Nel 1903 il Congresso degli Stati Uniti approvò un provvedimento che impediva l’ingresso a coloro che avevano avuto «episodi di follia» nei cinque anni precedenti allo sbarco. La legge negli anni successivi fu resa sempre più restrittiva. Questa norma, una delle tante emanate negli Stati Uniti per tamponare i flussi migratori, rispecchiò la volontà di permettere solo un certo tipo di immigrazione, cercando il più possibile di arginare il flusso di coloro ritenuti difficilmente integrabili nella società americana. Come si nota dalle testimonianze dei capitani nei giornali di bordo, le tipologie di individui soggette ai controlli sanitari più attenti e ai maggiori pregiudizi erano proprio i contadini analfabeti provenienti dall’Italia meridionale, destinati ad abitare nei quartieri più poveri ed accettare i mestieri più duri. L’ostilità nei loro confronti era talmente marcata da arrivare a considerarli una razza inferiore.
Se dalla seconda metà dell’Ottocento erano stati i viaggi di andata a vedere la maggiore affluenza di passeggeri, gli anni della Prima guerra mondiale segnarono un’inversione di tendenza. Tra il 1914 e il 1915 si registrò il maggior numero di rientri in Italia a causa della paura della chiusura delle frontiere per via dell’inizio del conflitto, ma anche per la presenza di coloro che rimpatriarono perché richiamati alle armi o per arruolarsi come volontari.
Stiaccini ci racconta una storia delle migrazioni verso le Americhe partendo da un altro punto di vista, quello dei viaggi per mare, attraverso le testimonianze che i comandanti di piroscafi lasciarono sui diari di bordo. Una fonte all’apparenza secondaria diventa rilevante per delineare alcuni aspetti e dinamiche della migrazione che di solito non sono approfonditi, una sorta di anteprima a ciò che conosciamo dell’esperienza italiana sul continente americano.
Andrea Galli