Nel suo celebre studio White on Arrival (New York, Oxford University Press, 2003), Thomas A. Guglielmo ha analizzato l’identità razziale della comunità italiana di Chicago a cavallo tra il xix e il xx secolo, separando i concetti di «razza» e colore e asserendo che gli immigrati italiani, pur subendo evidenti forme di discriminazione, ebbero la possibilità di godere dei diritti fondamentali statunitensi proprio grazie alla loro bianchezza. La conferenza Still White After Arrival?, organizzata dal cisia, si è mossa proprio in risposta a queste considerazioni. Il punto interrogativo che chiude la prima parte del titolo mette in discussione, infatti, le conclusioni di Guglielmo: gli immigrati italiani furono davvero considerati bianchi, al di là del riconoscimento legale che permise loro di diventare cittadini americani? Per rispondere a questa domanda, la conferenza ha identificato i processi di americanizzazione e razzializzazione della comunità italiana negli Stati Uniti, facendo emergere la natura contraddittoria dell’idea di whiteness degli inizi del Novecento e mantenendo una prospettiva poliedrica, volta a connettere idee di «razza», genere, e nazione.
Tra i nodi cruciali emersi durante il dibattito, uno dei più discussi ha riguardato la costante negoziazione tra identità razziale italiana e processo di americanizzazione. Cristina Stanciu (Virginia Commonwealth University) ha messo in evidenza il ruolo di stampa, cinema e, soprattutto, istruzione nel progetto di nazionalizzazione dei nuovi immigrati. Lettere personali e diari dimostrano come le strategie assimilazioniste produssero in loro una duplice lealtà, per il paese di adozione e per quello di origine. Anche lo storico Matteo Pretelli (Università di Napoli L’Orientale) ha sottolineato, in un excursus che va dal 1880 agli anni venti del xx secolo, come il processo di assimilazione degli italiani passasse soprattutto attraverso la scuola, agendo in particolare sulla conoscenza della lingua italiana e inglese degli studenti.
Se, da un lato, lo studio della bianchezza italiana richiede un’analisi delle strategie di assimilazione della società wasp, dall’altro, però, esso necessita di integrare un’ottica multirazziale e comparata. Nella sua analisi, Stefano Luconi (Università di Padova) ha sottolineato l’importanza di investigare la whiteness italiana negli Stati Uniti tenendo in considerazione non solo il periodo storico, ma anche le coordinate geografiche. L’analisi della percezione e delle pratiche connesse alla bianchezza, inoltre, si arricchisce nel momento in cui si includono nel dibattito anche le voci di altre minoranze etniche, come quelle ispaniche e asiatiche. Allo stesso modo, risulta utile introdurre una visione transnazionale dell’idea di whiteness italiana. In questo senso, Chiara Grilli (Università di Bari) ha notato come, al contrario di quanto Guglielmo ha sostenuto, la propaganda coloniale fascista influenzò enormemente l’(auto)percezione dell’identità bianca italiana all’estero. Questo è evidente se si considerano l’appropriazione e l’adattamento da parte della stampa filofascista italoamericana della retorica razzista diffusa dalla propaganda di regime durante la crisi etiope.
Obiettivo primario della conferenza è stato altresì quello di creare un dialogo tra discipline storiche, cinematografiche e letterarie. Le presentazioni di Tatiana Petrovich Njegosh (Università di Macerata) e Nicola Accattoli (Università di Macerata) si sono entrambe volte a dimostrare la stretta correlazione tra razza e genere nella raffigurazione dei primi immigrati italiani nel cinema muto. Mentre Petrovich ha evidenziato l’ambiguità razziale e di genere che avvolse la figura di Rodolfo Valentino, Accattoli ha analizzato alcuni film di George Beban e ha notato come alla razzializzazione degli italiani su pellicola seguisse una loro femminizzazione.
Dal punto di vista letterario, lo studio di Dorothy M. Figueira (University of Georgia) sulla rappresentazione degli italiani nell’opera di Henry James si è intrecciato a quello di Giuseppe Nori (Università di Macerata) sulla controversa posizione, all’interno del canone statunitense, dell’attivista e poeta Arturo Giovannitti. Marina Camboni, fondatrice del cisia, e Valerio Massimo De Angelis (Università di Macerata), coordinatore del Centro, hanno invece dato voce alla letteratura italoamericana, analizzando rispettivamente Ghost Dance di Carole Maso e Christ in Concrete di Pietro Di Donato. L’esperienza italiana negli Stati Uniti è stata dunque resa, nel caso di Maso, per mezzo di una narrazione generazionale che suggerisce la costruzione di un’identità americana non anglosassone e non assimilata, mentre, in quello di Di Donato, attraverso una lingua ibrida e uno sguardo intersezionale, capace di dar voce al complesso di inferiorità dei primi immigrati italiani.
La conferenza ha rappresentato un punto importante nella storia del cisia che, sin dalla sua fondazione nel 2015, ha posto tra i suoi obiettivi proprio quello di costruire un dialogo tra il Nuovo e il Vecchio Mondo, superando barriere geografiche, disciplinari e teoriche. Il prestigio degli sponsor (Ambasciata degli Stati Uniti in Italia, Commissione Fulbright, e Associazione Italiana di Studi Nord Americani), inoltre, dimostra l’interesse del mondo accademico e istituzionale per lo studio della questione razziale legata al fenomeno migratorio italiano.
Chiara Grilli