Il libro di Hermann W. Haller offre un’antologia di quindici guide per gli emigranti italiani – alcune riportate integralmente, altre solo in stralci – preceduta da un’introduzione sul valore documentario di questa tipologia di testi per gli studi storico-linguistici. Le guide interessano il periodo dell’esodo di massa (la meno recente è del 1886, la più vicina del 1922) e riguardano il continente americano. Fatte salve le loro specificità, legate innanzitutto alla distinzione tra quelle del Commissariato Generale dell’emigrazione e quelle compilate da singoli autori (un sacerdote, un ingegnere, alcuni studiosi e vari poligrafi), le guide presentano i seguenti contenuti: informazioni pratiche su espatrio, viaggio, immigrazione; economiche su commercio, agricoltura; culturali sulle destinazioni. Rari sono i riferimenti alle comunità italiane. Haller non intende proporre una «rassegna esaustiva» di questa documentazione, ma prospettarne le potenzialità attraverso la definizione di «modelli» (p. 16) e un’opera di tipologizzazione.
I testi selezionati non sono inediti per la storiografia. Nel libro non sono citati due pioneristici saggi bibliografici che, per la gran parte, li includono: Luigi Monga, «Handbooks for Italian Emigrants to the United States», Resources for American Literary Study, 2, 1976, pp. 209-21 e Cecilia Lupi, «Qualche consiglio per chi parte. Le guide degli emigranti (1855-1927)», Movimento Operaio e Socialista, 1-2, 1981, pp. 77-89. Pur essendo conosciute, le guide hanno stentato ad acquisire un peso tra le fonti per le ricerche sull’emigrazione italiana, per la loro reciproca somiglianza e l’ideologizzazione di base. Haller intende, invece, valorizzarne l’efficacia per studiare i problemi affrontati dagli emigranti, gli atteggiamenti diffusi verso il fenomeno migratorio e la situazione linguistica nella Penisola.
Rispetto al primo punto, i testi selezionati non aggiungono molto a quanto già noto sulle insidie tipiche dell’emigrazione quali truffe, speculazioni, leggi restrittive. Il libro, inoltre, non considera che le guide potevano occultare i problemi incontrati dagli emigranti poiché almeno alcune erano state operazioni pubblicitarie per attrarre manodopera, come emerse dalle polemiche suscitate dalla Guida pratica dell’emigrante al Chilì (1890) di Vincenzo Grossi (si veda Emilio Franzina, Italiani al Nuovo Mondo, Milano, Mondadori, 1995, pp. 448, 612).
Più avvincente è la seconda proposta. La Guida dell’emigrante italiano (1902) del parroco Andrea Sardella illumina l’atteggiamento della Chiesa cattolica, preoccupata dalla concorrenza di altre confessioni religiose. Un’altra angolatura che emerge è quella dell’élite della diaspora, portavoce della necessità di valorizzare le potenzialità economiche del fenomeno. Le guide istituzionali illustrano il nuovo indirizzo ai vertici dello Stato segnato dalla creazione del Commissariato Generale dell’emigrazione.
Senza dubbio le guide offrono uno strumento di studio della literacy, l’aspetto su cui più si sofferma Haller, che ritiene necessario riconsiderare l’analfabetismo degli emigranti. Questi disponevano di competenze linguistiche articolate secondo uno «spazio trilingue» (p. 15) composto da dialetto, italiano e lingua d’adozione. Una competenza era l’«italofonia passiva»: la capacità di leggere contenuti in italiano, poi tramandati con il dialetto, grazie alla ripetitività delle informazioni, che favoriva la costruzione di canoni. Le guide costituirebbero, quindi, testimonianze indirette di un «bilinguismo italiano/dialetto presente in non pochi emigranti» (p. 41).
L’analisi testuale, negli aspetti sintattici, lessicali e relativi al registro, consente a Haller di valutare la «sensibilità linguistica» dell’Italia «ufficiale» nei confronti di quella «reale», ovvero la capacità della prima di farsi capire da un pubblico eterogeneo per istruzione, origini regionali e condizioni sociali (p. 16). Il grado di sensibilità è elevato nel Manuale dello emigrante italiano all’Argentina (1909) di Arrigo De Zettiry, scritto con frasi semplici e una lingua vicina al parlato. In altri casi si è di fronte a testi dallo «stile colto e tendenzialmente elevato» (p. 40). Haller ipotizza che ciò intervenga nelle guide dell’America meridionale, a suo parere rivolte a un pubblico più istruito e composito. Benché ciò sia plausibile, il numero esiguo di testi non consente di confermarlo. Si potrebbe ipotizzare, a prescindere dalle mete, un destinatario di classe media, al quale conferire un ruolo di leadership, come afferma una guida.
Haller affronta anche il problema delle motivazioni delle guide. Il registro impersonale dei testi istituzionali è colto come indicatore della neutralità dello Stato, il cui obiettivo era informare tramite un «italiano unitario medio» (p. 41). Il tono colloquiale di Sardella sottintende l’intenzione di impartire prediche moraleggianti, presenti in varie guide venate da sentimenti umanitari e patriottici. L’aspetto che Haller sottovaluta riguarda le biografie degli autori, solo accennate, pur non essendo tutte figure note come Bernardino Frescura. È possibile che sulla scelta dell’italiano abbiano inciso ambizioni personali a esprimere opinioni, enfaticamente come Tutti in America (1886) di Arnaldo Tortesi, o a fare sfoggio di cultura, pur con esiti incerti, come la Guida dell’emigrante agli Stati Uniti del Nord-America (1892) di Roberto Marzo.
In ogni caso, risulta convincente il discorso di Haller sulla validità delle guide come testimonianze del paesaggio linguistico italiano nel periodo del grande esodo, che del resto coincide con quello del dibattito sulla lingua nazionale. Nelle sue considerazioni, presentate come ipotesi da sviluppare, risiede l’opportunità del libro, dal quale la ricerca futura sulla diaspora italiana, sempre più interdisciplinare, potrà trarre un rilevante indirizzo tematico e teorico.
Tommaso Caiazza