Il valore dell’autobiografia si sgretola senza fede nel patto autobiografico, quando cioè non si tenta, almeno per un po’, di concedere all’autore il beneficio del dubbio e di stringergli la mano, accettando che ci stia raccontando il vero. Il patto risulta difficile quando leggiamo la recente traduzione italiana dell’autobiografia di Vincenzo D’Aquila, Io pacifista in trincea, ottimamente curata da Claudio Staiti. In questo caso, la fiducia costa: non è una semplice storia di guerra. È la storia di un mutamento di coscienza o forse di una sceneggiata per non tornare in prima linea, di un attacco di giustificato terrore o di una rivelazione divina, di una follia diagnosticata o di una semplice conversione?
D'Aquila nasce a Palermo nel 1892 e si trasferisce da piccolo a New York. Scappa di casa nel 1915 per arruolarsi volontario nella Prima guerra mondiale. Non ci mette molto a scoprire di essere entrato in un mondo alla rovescia per difendere una causa in cui non crede più. La chiamata religiosa lo sorprende, prima nella basilica del Santo a Padova e poi sul campo di battaglia, come San Francesco. Combatte per qualche mese, ma rifiuta di uccidere a costo di venire ucciso. Spara colpi in aria. Trascorre il resto della guerra tra un manicomio e l’altro e viene rilasciato solo pochi giorni prima dell’armistizio. Nel 1931 pubblica in inglese la sua autobiografia, che suscita interesse nel nuovo movimento pacifista, venendo pubblicizzata anche sul «New York Times». Lavora come editore della D’Aquila Publications e muore nel 1975.
Se l’autobiografia di un pazzo certificato può impensierire, l’elemento religioso complica ancor più le cose. Lo stesso Staiti e l’autore della bella «Prefazione», Emilio Franzina, rimangono interdetti davanti al profondo misticismo dell’autore, oltre che leggermente infastiditi dal suo tono omiletico. Forse per tale motivo, nella traduzione, il titolo è stato epurato dall’originale riferimento sovrannaturale all’«invisibile guardia del corpo»: Bodyguard Unseen: A True Autobiography. La ridondanza dell’«autobiografia vera» punta a rinforzare il patto autobiografico con il lettore e le tre parti che compongono il testo ripetono un appello alla ragione: «Quando iniziai a ragionare», «Quando arrivai a una ragionevole conclusione» e «Quando misi in pratica il mio ragionamento».
Un ritratto in bianco e nero di D’Aquila (p. 137) ce lo mostra perplesso, come se cercasse di capire se gli si creda. Non è poi difficile farlo, lasciandosi trasportare dalla sua prosa fluida e chiara. È un uomo di fede e quindi appassionato. È un idealista, che si pone come obiettivo personale addirittura quello di fermare una guerra mondiale, e soprattutto un ottimo scrittore. Non per niente diventa egli stesso proprietario di una casa editrice a suo nome.
Con mossa strategica, decide di iniziare l’autobiografia in media re, all’apice della manifestazione dell’assurdità della guerra. Siamo sul fronte dell’Isonzo, zona d’inauditi massacri, che hanno ispirato le strofe disfattiste del canto O Gorizia, tu sei maledetta. Nel delineare una mattina di combattimento, una gragnola di vivaci similitudini accoglie il lettore: i soldati, schierati «come tanti manichini di legno», portano le poltrone agli ufficiali, «come tanti lacchè» (p. 37). Al campo, gli ufficiali, seduti in poltrona, attraverso i binocoli, esaminano «con la dovuta calma», il «massacro e la distruzione» che hanno portato tra i monti. Dettagli come il monocolo rotto, il bicchiere di sherry e gli stivali ben lucidati contrastano con i «topi di trincea» nel fango, «sciocchi poveretti» che muoiono «come cani» lì sotto, «falciati così come il fieno fresco viene raccolto dalle mietitrici» (p. 38). Un capitano disperato si uccide prima di portare alla carica gli ultimi venticinque soldati rimasti degli originali 275. È la terza battaglia dell’Isonzo, dal 21 al 29 ottobre 1915, dove muoiono 67.000 uomini.
Se ciò non bastasse a coinvolgere il lettore, il secondo capitolo si apre d’inverno, la tormenta di ghiaccio è una «furia di demoni scatenati» (p. 42). I soldati rinchiusi in una stalla si rifiutano di aprire a qualcuno che bussa. Tengono la porta chiusa, si addormentano. Il mattino dopo, in un’enorme palla di neve, riconoscono il corpo indurito di un milite ignoto, «rigido come lo sarebbe stato un pollo nella ghiacciaia» (p. 43). Lo seppelliscono senza preghiera, senza canto, senza una croce, al lato della strada e poi corrono a far colazione. D’Aquila rimane colpito: «Io mi domandavo come potessi essere finito in una tale banda di cinici egoisti» (p. 45).
Bastano questi due capitoli iniziali per capire la portata della narrazione di D’Aquila, che più di una volta richiama al lettore Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu. Nel racconto del bombardamento austriaco sugli italiani inermi, la similitudine è eloquente: «la carneficina che ne seguì fu troppo orrenda per poterla descrivere. Immaginate un giovanotto che lascia cadere un cesto pieno di topolini in una stanza affollata di gatti affamati» (p. 111). La sua conclusione: i veri assassini non sono gli austriaci, ma coloro che immolano i nostri ragazzi.
La scena della conversione religiosa è ambientata alle case Cemponi, oggi in Slovenia. Qui il paesaggio comincia a sfumare e, con dissolvenza incrociata, D’Aquila ci porta nell’Umbria di Bernardone, dove il giovane Francesco sente una voce che gli chiede perché debba mai perdere la vita servendo il vassallo invece che il Signore. Come Francesco, anche D’Aquila risponde e decide non sparare nemmeno un colpo che possa uccidere.
Staiti ha saputo riconoscere una narrazione preziosa in questo libro capitatogli fra le mani come Ph.D. Visiting Student alla Columbia University. La sua efficace traduzione, corredata da note e documenti originali (lettere e referti medici), nonché dall’erudita presentazione di Franzina, porta in Italia un importante pezzo di storia. Unico come memoria di un emigrante rimpatriato volontario e come memoria di sincero afflato religioso.
Ilaria Serra
Florida Atlantic University