Il libro prende spunto da uno specifico episodio di breve durata: l’adesione di un piccolo gruppo di anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti e in Canada all’appello lanciato nel maggio del 1911 dai militanti anarcosindacalisti messicani residenti a Los Angeles, riuniti sotto la direzione di Ricardo Flores Magón, il quale cercò di attuare una rivoluzione sociale nella piccola località di confine di Tijuana sul Pacifico tra Messico e Stati Uniti. L’azione insurrezionale, che coinvolse 250 combattenti circa, si proponeva di colonizzare le terre brulle della penisola californiana messicana date in concessione dal governo di Porfirio Díaz a società di proprietari terrieri, ma finì poco dopo, cioè il 10 giugno, quando giunse un distaccamento dell’esercito federale messicano per controllare la situazione. All’epoca i villaggi messicani di confine in California erano costituiti da piccoli insediamenti agricoli, con poche centinaia di abitanti, e isolati dal resto del Paese dal deserto di Altar nel nordovest di Sonora. L’episodio di Tijuana non ebbe rilevanza nel processo rivoluzionario che si protrasse per un decennio. Tuttavia, si inserisce in una corrente storiografica che ha visto nel movimento operaio guidato da Flores Magón le origini della «rivoluzione sociale» in Messico, in contrapposizione a quella politica promossa dall’insurrezione di Francisco I. Madero, che pure dette origine ai grandi eserciti rivoluzionari di Pancho Villa e di Emiliano Zapata dal febbraio-marzo del 1911 a Chihuahua e nel Morelos per rivendicare la restituzione delle antiche terre comunali di cui si erano impossessati i signori dell’allevamento e dell’agricoltura commerciale della canna zucchero.
Il Partido Liberal Mexicano di Flores Magón era un raggruppamento politico informale sorto tra i lavoratori e gli esuli messicani nelle regioni meridionali degli Stati Uniti; il termine liberal – giustamente considerato come «libertario» – derivava dal fatto che nel 1901 si riunì a San Luis Potosí il primo e unico congresso dei «club liberali» o associazioni nate a difesa della laicità dello Stato e di critica all’immobilismo politico del regime di Porfirio Díaz. Flores Magón pochi anni dopo, esule negli Stati Uniti, maturò il proposito di creare il nucleo di un partito politico e conservò l’aggettivo liberal per attrarre i settori della classe media.
Sarebbe stato utile segnalare che i contatti dei lavoratori messicani con gli attivisti sindacali statunitensi nelle miniere dell’Arizona e altrove – sia quelli della Western Federation of Miners, sia quelli degli Industrial Workers of the World – avevano una controparte nel fatto che le compagnie statunitensi operanti in Messico impiegavano lavoratori americani meglio retribuiti. Successe tra i minatori di Cananea (circa un terzo), tra i macchinisti delle ferrovie fino al 1914 e all’interno di varie categorie di operai specializzati nelle raffinerie petrolifere di Tampico più a lungo. Quest’osservazione riguarda un aspetto controverso sul mito de la raza, che l’autore assume come caratteristica del nazionalismo messicano – e dello stesso movimento operaio – perché nelle aree di confine tra i due Paesi i conflitti sociali erano anche interetnici e le compagnie statunitensi usavano le diversità dei privilegi come arma di pressione sulle classi subalterne.
La partecipazione della trentina di anarchici italiani all’insurrezione di Tijuana fu favorita dalla presenza a Los Angeles nel comitato di Flores Magón di due militanti noti nel mondo dell’anarchismo immigrato: il palermitano Luigi Caminita – che diresse per alcuni mesi la sezione italiana del periodico Regeneración portavoce del magonismo – e il biellese Vittorio Cravello. L’autore traccia brevi profili dei combattenti, giunti negli Stati Uniti da varie province italiane. Si trattò di giovani senza esperienze politiche particolari, provenienti dal distretto minerario del Kansas, dai gruppi di Seattle e di Vancouver nella Columbia Britannica.
La parte più interessante del libro riguarda la ricostruzione del dibattito suscitato dai primi sommovimenti locali in Messico agli inizi del 1911 nei periodici di lingua italiana negli Stati Uniti: le opinioni prevalenti allora partirono da alcuni dei combattenti presenti a Tijuana, che criticarono la natura volontaristica dell’insurrezione nella penisola californiana, e da coloro che, come nel caso di Luigi Galleani – figura storica dell’anarchismo immigrato – e del giornale Cronaca Sovversiva, giudicarono l’agitazione di Madero come lotta per il potere. Tali divisioni finirono per trascendere ampiamente i confini degli Stati Uniti. Del resto, dai testi riportati emerge quanto fosse problematico analizzare fenomeni sociali e politici di un paese terzo che i redattori della stampa italiana dell’immigrazione conoscevano appena.
L’autore include in parecchie note a piè di pagina informazioni e annotazioni che forse avrebbero meritato di essere riportate nel testo agevolando, così la lettura complessiva. Nelle conclusioni accenna al fatto che lo scoppio del conflitto europeo segnò uno spartiacque nell’esperienza migratoria e nelle culture dell’internazionalismo proletario. Il libro si rivela utile perché si inserisce nell’ampio filone storiografico relativo all’immigrazione sovversiva italiana negli Stati Uniti.
Manuel Plana