Se si dovesse fare un bilancio dell’avventura italiana in Etiopia, culminata nella proclamazione dell’Impero il 9 maggio 1936 da parte di Mussolini dal balcone di Palazzo Venezia, esso risulterebbe senz’altro negativo. L’intenzione con cui il governo fascista aveva avviato, il 3 ottobre 1935, un’impresa forte di oltre 500.000 unità militari era stata quella di dirottare l’emigrazione italiana verso un Paese che avrebbe dovuto rappresentare la terra promessa, capace di riassorbire la massa di disoccupati provenienti dalle regioni svantaggiate e trasformarla in coloni di una seconda Italia prospera e felice. Era un progetto senz’altro ambizioso, ma che si rivelò fatalmente utopistico, quando la durezza delle reali condizioni sociali ed economiche del Paese africano entrò in collisione con gli ubriacanti slogan propagandistici che dipingevano quell’ambiente come il mitico «posto al sole».
Una nuova, originale, ricerca storica è stata ora realizzata da un giovane e valente studioso, Emanuele Ertola, che nel suo libro ha ricostruito con l’apporto di nuove fonti d’archivio l’impatto socio-economico e psico-comportamentale di uomini e donne che vissero sulla propria pelle un’esperienza che si rivelò drammatica. L’approccio di Ertola al tema trattato ha cercato soprattutto di sgombrare il campo d’indagine dalle vernici mitografiche che si sono andate stratificando nel tempo sulla conquista dell’Impero, adottando una strategia archivistica incrociata e affrontando così la vicenda storica sia dal basso che dall’alto. Ertola ha messo sotto il microscopio, oltre ai documenti ufficiali rintracciati presso l’Archivio Centrale dello Stato (inviati, ad esempio, al Ministero dell’Africa Italiana e alla Segreteria Particolare del Duce) e presso i National Archives britannici, anche le lettere e le memorie di testimoni diretti, conservate presso il benemerito Archivio diaristico nazionale di Pieve S. Stefano. Ha potuto così avere a disposizione differenziate specole d’osservazione, grazie alle quali ha ricostruito ex novo l’insieme delle questioni collegate ai molteplici aspetti dell’emigrazione coloniale degli italiani in Etiopia.
La storia di questo massiccio spostamento di connazionali (solo ad Addis Abeba si arrivò a ben 40.000 presenze), attratti dalla prospettiva di dare una svolta significativa alla loro vita, si limitò, tuttavia, solo ai cinque anni che intercorsero tra il 1936 e il 1941, quando le disastrose ripercussioni della Seconda guerra mondiale in terra africana misero fine alle illusorie aspettative dell’Impero fascista. Se si dà uno sguardo alle condizioni abitative, si entra già subito nella dimensione ben più cruda della realtà, a fronte di un piano regolatore varato soltanto nel 1939, che prevedeva un’effettiva ghettizzazione degli indigeni e addirittura la loro segregazione (come avvenne a Harar, dove i nativi erano costretti dentro le mura della città vecchia «dalle quali non dovrà[nno] mai straripare» [p. 129]). La maggior parte dei coloni (operai, contadini, commercianti) dovette adattarsi in ambienti piccoli e malsani, senza servizi igienici e ingentiliti platonicamente dalla mano femminile di familiari che raggiunsero più tardi quelle misere terre.
Alla domanda cruciale se i coloni italiani in Etiopia fossero riusciti a elevare il loro livello sociale, Ertola risponde che solo una piccola élite poté beneficiare di un solido tenore di vita, mentre la maggior parte dei lavoratori visse di poche esigenze e in presenza, comunque, di un alto costo della vita. Chi non riuscì a integrarsi (compresi i poor white, italiani inoccupati o disoccupati) finì nel girone degli emarginati. Un ruolo importante fu quello delle donne, avviate anche a corsi specifici per «madri e mogli esemplari», che riuscirono molto spesso a salvare situazioni imbarazzanti e anche severamente sanzionate come quelle del concubinato, foriero di un presunto inquinamento della razza. Una delle preoccupazioni costanti del regime fu quella del controllo sessuale degli espatriati, per i quali si provvide pure con navi cariche di prostitute appositamente reclutate, mentre anche dattilografe e altre impiegate furono costrette allo stesso provvisorio destino pena il licenziamento in patria.
Tirando le somme, Ertola si chiede se l’impresa africana si fosse svolta nel clima generale di apparente, monolitico, consenso verso il regime. La risposta più opportuna sta nell’espressione che indica anche i coloni «condannati all’entusiasmo» (p. 232). Disorganizzazione, corruzione, elefantiaca mediazione burocratica ammorbarono i cinque anni dell’Impero, soffocati dalla presenza ingombrante del pnf e del Ministero dell’Africa Orientale Italiana, il cui acronimo (aoi) fu sarcasticamente ribattezzato «Affari Onesti Impossibili» (p. 172). Con l’arrivo degli inglesi i coloni dovettero affrontare lunghi mesi tra campi di prigionia e mesto ritorno in patria. Solo qualcuno, a distanza di tempo e ricordando quegli anni che coincisero con le grandi attese della giovinezza, poté stilarne memorie intrise di nostalgia e di un romantico patriottismo diventato ormai passatista.
Sergio D’Amaro