Quella dei migranti italiani nella Confederazione elvetica è una vicenda dalle molte sfaccettature, che affonda le sue radici in un passato lontano e resta attuale ancora oggi, alla luce dell’odierna crescita degli espatri. Toni Ricciardi, che da anni indaga i vari aspetti della «diaspora» italiana in Svizzera, riesce con il suo volume a restituire la ricchezza e la complessità di questa storia. Grazie alla pluralità delle fonti di cui si avvale, all’alternanza della dimensione diacronica con quella diatopica e alla vivacità di una narrazione capace di interpretare sia fenomeni di ampia portata sia singole esperienze, lo studio è un riuscito connubio tra l’efficacia sintetica del manuale e la cura dei dettagli propria della ricerca monografica. Inoltre, il contributo si contraddistingue per il tentativo di rintracciare costantemente nelle espressioni della cultura popolare – in particolare il gioco del calcio, il cinema e la televisione – un fattore determinante per la costruzione dell’identità italiana e per la sua percezione nella nazione transalpina.
Come anticipa la bella prefazione di Sandro Cattacin, la Svizzera è stato il Paese europeo che forse più di ogni altro ha cambiato volto in virtù della presenza straniera, quello in cui più distintamente percepibile è stato l’apporto degli immigrati alla crescita dell’economia, all’evoluzione dei processi culturali, al mutamento della lingua, allo sviluppo della società. I dati numerici sono, di per sé, eloquenti: la Confederazione ha assorbito da sola quasi il 50% dell’emigrazione italiana dopo il secondo conflitto mondiale e, in termini assoluti, risulta essere la realtà nazionale col tasso di immigrazione più alto del continente nel secolo scorso. Non a caso, la contrapposizione rispetto all’«altro» è costantemente al centro del dibattito, a prescindere dalle congiunture e dalle fasi storiche. Ricciardi riconosce nella Svizzera «un modello di analisi per eccellenza, ricco di paradossi» (p. 11), un Paese multilingue e federalista, che si è precocemente dotato di strumenti legislativi in materia di stranieri e, pur vantando una delle società più multietniche d’Europa, ha approvato nel 2014 una rigida legge contro l’immigrazione di massa, a seguito di un referendum che è stato considerato un modello per quello sulla Brexit.
Per inquadrare l’emigrazione in prospettiva storica, l’autore ne ripercorre brevemente le tappe, facendo anche un significativo, ancorché fugace, riferimento ad alcuni connotati e dinamiche che la caratterizzarono in età medievale e moderna: una variegata e ricca rete di relazioni legò italici ed elvetici già in epoche remote e gli scambi di natura commerciale e culturale tra di loro crebbero dopo la Riforma. L’aumento esponenziale della presenza italiana in Svizzera si ebbe però dopo la metà dell’Ottocento, quando questa attrasse un gran numero di lavoratori stranieri per la costruzione dei trafori e della rete ferroviaria.
La cospicua componente italiana manifestò ben presto alcuni tratti peculiari, opportunamente evidenziati dall’autore: ad esempio, la permeabilità rispetto a ideologie politiche ritenute «eversive», come quelle socialista e anarchica, l’abitudine – poco diffusa tra altri gruppi – a concentrarsi in uno stesso quartiere e, soprattutto, la tendenza a dare vita a varie e capillari forme di associazionismo, laico e religioso, che fiorirono nelle città elvetiche in quantità tale da non avere eguali a livello europeo. Su tutte, le Missioni e le Colonie libere (nate nel 1943 come espressione di rappresentanza unitaria e antifascista degli italosvizzeri), che costituiscono anche una preziosa fonte per la ricostruzione storica della vita degli immigrati italiani. In generale dunque, la comunità si distinse per «l’elemento della cosiddetta visibilità etnica» (p. 28), che contribuì a farne il facile bersaglio di attacchi xenofobi già prima della migrazione di massa. In seguito, l’ostilità e la diffidenza degli svizzeri si espressero in forme più sottili, a livello popolare nel pregiudizio razzista e a livello istituzionale nella limitazione dei diritti. L’autore sottolinea infatti la rigidità della legislazione di Berna, che volle assicurarsi l’afflusso di lavoratori stranieri necessario a realizzare un apparato industriale e infrastrutturale all’avanguardia senza però attuare una vera politica di accoglienza. L’accordo stipulato con l’Italia nel 1948 per il reclutamento della manodopera aprì la fase dell’esodo italiano di massa, che proseguì fino alla metà degli anni settanta e sul quale si concentrano ben quattro dei cinque capitoli in cui si articola il volume. Il governo italiano quasi non pretese tutele per i suoi cittadini, mostrando di intendere l’emigrazione come valvola di sfogo alle difficoltà economiche e alle tensioni sociali e come efficace argine «al processo di sindacalizzazione e maturazione politica delle masse operaie e contadine» (p. 127). Acconsentì così a un vero e proprio sfruttamento dei lavoratori stagionali. Questi ultimi, ai quali era concesso solo dopo anni il ricongiungimento familiare, si videro costretti a nascondere i figli e a farli vivere come reclusi perché le autorità non li rimpatriassero. È apprezzabile che nel libro trovino il dovuto spazio le commoventi storie, ancora poco note, dei bambini clandestini, riportate alla luce solo da ricerche recenti.
Ricciardi identifica le cause dell’alto livello di integrazione raggiunto dagli italiani a partire dagli anni ottanta del Novecento in una molteplicità di fattori, che comprende l’esaurirsi della crisi del decennio precedente, la fine della loro strategia dell’autoesclusione, l’emergere di uno spirito di collaborazione con gli altri immigrati. Si tratta dei primi successi di un’ottica transnazionalista, che ha ancora molti traguardi da raggiungere.
Francesca Puliga