La collettanea, curata da Matteo Pretelli e Matteo Sanfilippo, raccoglie una serie di contributi – in lingua italiana e inglese – dedicati, in particolare, alle tematiche delle migrazioni e dei terrorismi di matrice politica, religiosa e indipendentista che hanno attraversato il Novecento fino alle conseguenze dei tragici eventi dell’11 settembre 2001. Nel rapporto tra i due concetti di migrazione e terrorismo, i mezzi di comunicazione di massa svolgono un importante ruolo nel definire, agli occhi dell’opinione pubblica, alterità ostili. Sebbene i saggi di Oscar Alvarez-Gila e di Matteo Sanfilippo si occupino l’uno del terrorismo basco e l’altro di quello irlandese, attraverso la loro rappresentazione all’interno di film, libri, periodici e videogiochi di produzione statunitense, rimane in posizione centrale il problema contemporaneo del terrorismo jihadista internazionale. È questo il tema di Cinzia Schiavini e di Jasper de Bie, Christianne de Poot e Joanne van der Leun, che esaminano rispettivamente il terrorismo moderno in relazione alla cultura massmediatica statunitense e l’attrazione esercitata dal fondamentalismo islamico sulla diaspora musulmana. Altri capitoli si concentrano invece sull’Italia, sia quale terra di origine sia quale destinazione di migranti.
Come effetto negativo dei flussi transnazionali, può talvolta accadere che le minoranze etniche stabilitesi in un Paese straniero, diventino o vengano considerate una «quinta colonna» (p. 16) di cellule terroristiche impegnate nella destabilizzazione psicologica della società ospitante. Questo è uno degli argomenti trattati da Pretelli, che focalizza la sua ricerca sul falso mito dell’attivismo delle spie fasciste italoamericane negli anni della seconda guerra mondiale, accusate di svolgere propaganda filo-mussoliniana all’interno delle Little Italies statunitensi, sovvertendo così l’ordine costituito e interferendo con lo sforzo industriale bellico americano attraverso scioperi, incendi o sabotaggi. La simpatia politica degli immigrati italiani per il duce non fu generalmente considerata una minaccia per la sicurezza nazionale negli Stati Uniti fino alla metà degli anni trenta. Tuttavia, l’ipotetica slealtà degli italoamericani verso Washington e la possibilità di una loro collaborazione con un eventuale nemico acquisirono una rilevanza crescente nel dibattito pubblico in seguito alla guerra d’Etiopia e alla progressiva convergenza d’interessi politici tra Benito Mussolini e Adolf Hitler, sviluppi che determinarono un’incrinatura sempre più profonda nelle relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti fino alla loro definitiva rottura l’11 dicembre 1941 con la dichiarazione di guerra di Roma a Washington.
L’atteggiamento di sospetto dell’opinione pubblica statunitense verso gli italoamericani è spiegabile anche a causa di un sentimento di avversione per gli italiani, considerati come una razza inferiore e pericolosa perché coinvolta tanto nel crimine organizzato quanto nella diffusione dell’ideologia anarchica. Quest’ultimo punto è il tema principale del contributo di Michele Presutto, che ripercorre l’esistenza dell’immigrato siciliano Giuseppe Alia, condannato a morte nel 1908 a Denver per l’omicidio del frate Leo Heinrichs. La vicenda si basava su un equivoco creato dalla stampa statunitense che, in mancanza di un chiaro movente, volle erroneamente trovarlo nella presunta fede anarchica dell’assassino. In questo caso, i giornali americani ricondussero questo misterioso assassinio all’interno di un contesto nazionale caratterizzato dalla Anarchist Scare, che proprio all’inizio del Novecento si era concretizzata in Colorado in risposta a scioperi e attentati dinamitardi. In realtà, le motivazioni del delitto non erano collegate all’anarchismo, bensì erano riconducibili a un odio personale che Alia aveva maturato per il cattolicesimo e che affondava le sue radici nel villaggio d’origine dell’assassino, Portopalo. Da qui Alia era stato costretto a emigrare in Argentina nel 1905 a causa della sua fede valdese, osteggiata dal clero cattolico a partire dalla fine dell’Ottocento perché veniva associata con l’amministrazione locale di orientamento socialista. E proprio a Portopalo, secondo una lettera anonima, la moglie di Alia avrebbe tradito il marito con un sacerdote.
Infine, la rassegna di Fulvio Pezzarossa si incentra sulla questione del terrorismo islamico nella narrativa italiana scritta negli ultimi vent’anni da immigrati arabi di prima e seconda generazione. Da un lato, una sezione dei romanzi dei migrant writers musulmani è ambientata nel contesto dei principali teatri bellici degli ultimi decenni in Medio Oriente: il conflitto israelo-palestinese, la guerra civile in Libano, la guerra tra bosniaci musulmani e serbi cristiani ortodossi negli anni novanta e le due guerre in Iraq. Dall’altro lato, una seconda parte delle opere menzionate da Pezzarossa si occupa dell’estremismo islamico in Italia posteriore agli eventi dell’11 settembre, in rapporto ai vari temi dell’islamofobia da parte dell’opinione pubblica italiana, dell’immigrato musulmano come diverso e del sincretismo tra terrorismo islamico, brigatista e basco. In questo ambito, merita una particolare attenzione la narrazione autobiografica di un migrante sui generis, figlio di un ex partigiano. In Il combattente (2016), Karim Franceschi – giovane italomarocchino nato a Senigallia – rievoca il suo arruolamento volontario nelle milizie curde per difendere la città siriana di Kobane, assediata dalle forze dell’isis.
Francesco Landolfi