Nella premessa al primo volume i due curatori spiegano il motivo che ha portato alla pubblicazione di questi due tomi. Le loro esperienze personali, cioè la mobilità nella quale si sono inserite le rispettive famiglie, li avrebbero convinti della necessità di dar conto dell’evoluzione della comunità italo-statunitense nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale. Tale comunità non è infatti restata congelata a quanto accaduto nel periodo tra le due guerre, ma è andata avanti grazie a successive ondate di nuovi arrivi, ben prima di quelle più recenti, post-1990, che tanta attenzione hanno raccolto negli ultimi tempi (vedi al proposito il saggio di Teresa Fiore nel secondo volume). I due curatori, lavorando ai due capi della nazione in California e a New York, hanno quindi cercato la collaborazione di altri studiosi statunitensi e italiani per verificare la loro intuizione ipotesi.
Al primo volume è spettato il compito di verificare l’andamento storico-sociale della presenza di origine italiana successiva alla Seconda guerra mondiale, mentre al secondo quello di seguirne la vita culturale ed artistica. Ci troviamo dunque di fronte a uno sforzo notevolissimo, che cerca di svecchiare la letteratura sugli italo-statunitensi rimasta spesso bloccata alle acquisizioni di fine secolo scorso o comunque in questo millennio non molto progredita. Ciò anche per un atteggiamento discriminatorio dell’accademia statunitense verso chi si rinchiude in quelli giudicati ancora o forse più di sempre settori marginali, ovvero la storia della vecchia immigrazione europea, che ormai sembra avere uno scarsissimo glamour accademico, anche se condita con un po’ di marketing universitario.
Riassumiamo rapidamente il contenuto dei due volumi, anticipando anche alcuni elementi di critica. In particolare il primo tomo non risulta del tutto omogeneo. Inizia infatti con un blocco di tre saggi concatenati, i quali affrontano da varie prospettive l’impatto della guerra fredda e del McCarran-Walter Act sulla ripresa dell’emigrazione italiana. Quella congiuntura sembra ai tre autori (Luconi, Marinari e Zanoni) proporre un congelamento dell’emigrazione che poteva e forse voleva sfavorire nuovi ingressi di italiani, ma che sostanzialmente venne ammorbidito dall’azione di lobby della vecchia comunità italo-statunitense e dalla capacità dei nuovi migranti di scivolare fra le maglie della legge, sfruttando le occasioni offerte dal conflitto Est-Ovest e ricordando sempre che un’Italia non aiutata avrebbe potuto cadere nella morsa comunista. Al contempo, sempre secondo i tre autori, sia l’azione, sia la riflessione della comunità da tempo stabilita a proposito dei nuovi arrivi mostrava le difficoltà di una relazione fra vecchia migrazione e nuove ondate. Il quarto saggio (Pasto sugli italiani nel North End di Boston dopo il 1945) sottolinea infatti come queste ultime non si riassumano soltanto in quanto accade tra il 1945 e il 1955, ma vedano almeno tre fasi: l’immigrazione di lavoro del 1945-1970; l’immigrazione imprenditoriale del 1970-1995; l’immigrazione professionale del 1995-oggi. Ognuna di queste fasi ha il proprio peso numerico e le proprie caratteristiche. Ognuna di queste fasi è distinta dalla precedente e dalla seguente. A questo punto possiamo intravedere una comunità che emerge dal giustapporsi di fasi ed una sorta di molteplicità anche schizofrenica dovuta a forme di chiusura tra i membri delle tre fasi, non sempre motivati o interessati a rispettare e interagire con i membri delle altre fasi.
In effetti, come nota Tricarico nell’intervento sulla cultura etnica «italo-statunitense» e la seconda generazione dell’ondata post-1945 (la prima delle tre fasi individuata da Pasto), quest’ultima ha un enorme peso almeno nella realtà newyorchese. In essa infatti arriva un terzo dei nuovi emigranti e questi sviluppano una specifica cultura. Purtroppo Tricarico è soprattutto preoccupato di mostrare quanto le nuove ricerche confermino i suoi studi degli anni ottanta del secolo scorso. Non offre quindi adeguato sviluppo ad alcuni spunti, pur molto interessanti, per esempio il suggerimento che da Saturday Night Fever [La febbre del sabato sera] (1977) finiamo per vedere la cultura italo-statunitense come caratterizzata dagli atteggiamenti e dai ruoli sociali dei giovani dell’ondata post-1945. Per di più il suo contributo si sperde nella sequenza dei saggi del primo volume, dedicati almeno in teoria soltanto alla storia e ai costumi politici di quella migrazione. Il sesto saggio di Cappelli e Praino ci riporta al tema prefissato illustrando il ruolo dei broker politici nella comunità post-1945 e il suo infrangersi di fronte all’arrivo di nuovi immigrati italiani e al trasformarsi della scena politica statunitense e italiana. Non dobbiamo infatti dimenticare che parte della nuova ondata post-1945 e della sua discendenza si trova a votare anche nelle elezioni italiane. Infine abbiamo una conclusione di Donna Gabaccia su meriti e problemi (soprattutto metodologici) del progetto.
Il secondo volume riparte con l’introduzione degli autori che suggeriscono un rebooting degli studi sull’argomento e offrono notevoli riflessioni sulla produzione culturale degli e sugli italo-statunitensi post-1945. Inoltre per ovviare a una defezione, tracciano le linee di sviluppo della letteratura da questi ultimi prodotti. A mio parere è di gran lunga il miglior saggio dei due i tomi e vale da solo il prezzo complessivo dell’opera. Il secondo contributo del tomo è firmato dal solo Sciorra e riguarda un programma dedicato alle famiglie italiane negli anni 1948-1961 dall’emittente wov-am di New York e in particolare una registrazione concernente la famiglia dell’autore. Evidenzia quindi ancora meglio le motivazioni personali dietro alla scelta di riequilibrare lo studio della mobilità italiana verso gli Stati Uniti e al contempo mostra come l’ego-storia familiare possa essere utile alla comprensione del quadro generale. Il terzo contributo, firmato da Ruberto, riguarda le figure delle migranti italiane nel cinema statunitense post-Seconda guerra mondiale, in particolare di quelle interpretate da attrici italiane. È interessante, ma fa una certa confusione tra la percezione attuale di quanto allora è accaduto e la percezione del tempo: un problema tipico degli studi culturali, che troppo spesso dimenticano quanto il passato sia «a foreign country», dove, come suggeriva il romanzo di L.P. Hartley, fanno e soprattutto capiscono le cose in maniera differente.
Seguono poi tre saggi molto specifici: sulla scultura di un autore «naif» nell’area di Detroit (John Allan Cicala), sul riutilizzo della tradizione musicale popolare nelle sperimentazioni di un’autrice italoamericana (Incoronata Inserra) e sui libri di cucina e l’evoluzione del gusto culinario negli Stati Uniti dell’ultimo quarto del Novecento (Simone Cinotto). Quindi, Teresa Fiore, già citata, affronta i flussi dall’Italia tra il 1990 e il 2013 e la loro influenza sull’evoluzione dell’idea di «Italian style», mentre Anthony Julian Tamburri discute gli autori «italiani» negli Stati Uniti chiedendosi se le categorie proposte da Fiore, ovvero la differenziazione della presenza italiana in base alla data degli arrivi, alla provenienza regionale e allo status sociale di partenza e di arrivo sia utile.
Come si vede il piano generale dell’opera è un po’ discontinuo. Il saggio di Fiore, per esempio, serve nel secondo volume a sostenere le riflessioni finali di Tamburri, ma andrebbe forse meglio a conclusione del primo, pure se oltre che di flussi parla anche di «Italian style». Il saggio di Tricarico sarebbe forse andato meglio nel secondo tomo. Inoltre alcuni saggi sono troppo settoriali, penso a quelli sullo scultore e sul riutilizzo della musica popolare, mentre sarebbero serviti quadri più vasti. Ovviamente, però, sono tutte obiezioni da esterni, che non conoscono la tempistica dell’organizzazione e delle consegne dei singoli contributi, né tengono conto di eventuali defezioni o di eventuali aggiunte dell’ultimo minuto. In ogni caso, grazie anche alla fattiva collaborazione fra ricercatori dei due lati dell’Atlantico, questi due volumi svecchiano la produzione statunitense e la spingono fuori dalle secche, sulle quali sembrava arenata negli ultimi venti anni. Un’impresa da non sottovalutare e soprattutto da elogiare apertamente.
Matteo Sanfilippo