Neapolitan Postcards è una raccolta di contributi che compie l’apprezzabile sforzo di mettere insieme differenti prospettive dell’oggetto in esame, la canzone napoletana. Il libro recupera e arricchisce le ricerche inaugurate alcuni decenni fa da altri studiosi, solo alcuni inclusi qui. In mancanza di testi specifici che affrontassero la questione in maniera sistematica, quelle indagini iniziali (si veda Muscio 2004, Durante 2001, Pine 2012) raccoglievano stimoli provenienti da differenti contesti disciplinari. In questo modo, seguendo un approccio interdisciplinare, l’esplorazione della canzone napoletana moderna ne riproduceva il modello creativo e performativo che non è mai riconducibile al solo parametro della musica ma trova la sua dimensione più compiuta attraverso gli stimoli provenienti dal teatro, dalla letteratura, dalla fotografia, dal cinema e dalle arti figurative più in generale. Si provava così a delineare i contorni di un mondo artistico e produttivo eterogeneo. Emergevano delle evidenze specifiche che portarono a valutare la canzone napoletana attraverso contorni geografici che non si esaurivano nel perimetro della città di Napoli ma che si estendevano ben oltre quei confini. Al di là dell’Atlantico, nel solco della diaspora degli italiani all’indomani dell’Unità d’Italia, la canzone napoletana diventava il linguaggio musicale che per antonomasia identificava gli italiani fuori dall’Italia.
Quella prospettiva e gran parte di quel portato critico e analitico viene recuperato nell’interessante libro curato da Plastino e Sciorra con un accento particolare, ma non inedito, sull’esplorazione della canzone napoletana in chiave transnazionale. In questa prospettiva emergono i casi di studio desunti da specifici contesti geografici. Goffredo Plastino affronta l’analisi degli scambi della musica/canzone napoletana in Gran Bretagna a partire dalla fine dell’Ottocento. Franco Fabbri si concentra sul Mediterraneo orientale e rintraccia contatti e persistenze in particolare a Smirne e Atene. A New York guardano le analisi di Joseph Sciorra che firma due contributi, uno incentrato sul caso di Core ‘ngrato, la prima canzone composta in America e diventata famosa a Napoli grazie soprattutto al suo primo interprete Enrico Caruso, ed un altro firmato con Rosangela Briscese nel quale si analizza la raccolta di Mark Pezzano, tra i più attivi collezionisti di canzone napoletana negli Stati Uniti. In particolare, il contributo su Core ‘ngrato prende in esame l’ibridizzazione della canzone napoletana in America e le affinità con il blues recuperando una visione delle cose vicina a quella di Brian Rust che in un articolo pubblicato sulla rivista Musica Jazz nel 1954, aveva colto qualcosa di più di una semplice analogia tra la musica della vecchia Napoli e quella più moderna di New Orleans.
Il sincretismo nel contesto latinoamericano è il tema del contributo di Ana C. Cara che esamina la creolizzazione della «canzonetta napoletana» nella forma del tango canción e del suo antecedente, il sainete. In Argentina la letteratura creola, frutto della mescolanza linguistica delle minoranze etniche immigrate, fissa il suo punto di riferimento proprio tra gli italiani immigrati per formare il sociotipo più rappresentativo del bacino culturale del Rio de la Plata. Questa fantasia linguistica viene registrata immediatamente a teatro dove si lega alla tradizione del sainete, atto unico in forma di intermezzo con accompagnamento musicale e la presenza di personaggi comico-caricaturali. Non sono poche le opere riferibili a questo genere che mettono in scena le figure di musicisti italiani (quasi sempre napoletani) in grande difficoltà nel nuovo contesto geografico, come in Conservatorio La Armonia del 1917, un testo che rientra nel genere della «comedia asainetada referencial», o in El Bandoneón del 1926 citato dalla stessa Cara. Una precisazione interessante che ricorre quando si parla di repertorio napoletano «riterritorializzato», è la sineddoche che si stabilisce tra gli aggettivi napoletano e italiano. Ciò lascia intendere che l’italiano in quanto tale è un ideale astratto fuori dai confini nazionali ancora per buona parte del xx secolo e che le specificità italiane sono a lungo sedimenti culturali regionali.
Il processo di trasformazione della canzone napoletana in oggetto funzionale al nascente mercato discografico è l’argomento su cui si concentra il contributo di Anita Pesce che affronta l’adattamento delle pratiche musicali nel contesto napoletano nell’impatto con la tecnologia della riproduzione sonora. Al repertorio delle fonti discografiche americane della fronna, canto tradizionale a distesa quasi sempre eseguito senza accompagnamento strumentale, è dedicato il rapido e puntuale contributo di Giuliana Fugazzotto.
Una disamina dei rapporti fra il cinema delle origini e la canzone napoletana è il tema dell’intervento di Giorgio Bertellini che si occupa del caso del film Santa Lucia Luntana, recuperando e arricchendo il lavoro preliminare già citato di Giuliana Muscio (Piccole Italie, grandi schermi, Roma, Bulzoni, 2004).
Paolo Prato affronta l’analisi dello stereotipo di Napoli e dei modelli culturali legati alle immagini della città, del cibo, della nostalgia desunte e spesso costruite attraverso la canzone. Lo studioso approfondisce il repertorio a partire dal 1880 fino alla metà del Novecento, quando l’emergere di nuovi orientamenti musicali sopravanza quello standard espressivo e performativo.
Allo studio delle affinità con la cultura africana e afroamericana della canzone napoletana si dedicano Alessandro Buffa e Iain Chambers nel loro intervento firmato a quattro mani. Sulla scorta del pensiero di Booker T. Washington e di W.E.B. Du Bois di inizio Novecento fino ad arrivare alle sintesi recenti di Paul Gilroy, i due studiosi incardinano le esperienze di alcuni performer napoletani contemporanei nella prospettiva mediterranea di un moderno blues transnazionale inteso come affioramento del rimosso che interferisce e «disturba» la storia con spiccati connotati politici.
In conclusione, come sottolineano Martin Stokes e Philip B. Bohlman nei loro interventi rispettivamente di apertura e chiusura di libro, partendo dalla parola «cartolina» del titolo Sciorra e Plastino hanno provato ad analizzare e confutare gli stereotipi del ricordo e della nostalgia che costituiscono una linea costante di indagine nel dibattito e nell’esame di questo repertorio. I contributi hanno evidenziato come l’intreccio di questi cliché abbia disegnato la sfera dell’intimità individuale e collettiva e la forma stessa di questo repertorio vocale, ed è in questo amalgama che appare racchiuso, ancora una volta, il senso di gran parte della canzone popolare napoletana almeno fino alla metà del Novecento.
Simona Frasca