Mia Spizzica ripercorre con dovizia storica e sensibilità un episodio della vita della comunità italiana d’Australia il cui ricordo rischiava di affievolirsi sotto il peso degli anni. L’autrice riporta infatti quindici storie raccontate di prima mano dai protagonisti, o dai loro famigliari: italiani felicemente insediatisi nella terra australe, o, nel caso di tre famiglie descritte nel libro, in Medio Oriente e Sud-Est Asiatico, i quali, all’indomani dell’ingresso dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, si sono ritrovati spodestati della loro identità, dichiarati «enemy aliens» dalle autorità britanniche e confinati in campi di prigionia australiani, in condizioni spesso umilianti. Ne risulta un quadro denso di dettagli personali e collettivi, esperienze uniche e allo stesso tempo condivise da chi ha vissuto le stesse privazioni. Storie di chi ha cercato di reagire alle circostanze e di opporsi in nome del principio legittimo dell’habeas corpus, o di chi ha dovuto soccombere, per il bene dei propri cari, a ingiustizie e soprusi. Il testo, corredato da numerose fotografie che illustrano scene di vita quotidiana nei campi di internamento, impiega materiali d’archivio e fonti storiche, affiancandole a resoconti diretti. Attraverso la ricostruzione delle vicende, l’autrice alimenta forti perplessità nei confronti della legittimità di forme di coercizione imposte dal governo australiano nei confronti dei «nuovi nemici» e la liceità di metodi disciplinari attuati a difesa di un presunto superiore ideale di democrazia. I circa 5000 internati italiani in Australia, e non solo quelli, furono sovente fatti bersaglio di moti di risentimento da parte delle popolazioni locali prima e dopo la guerra, un atteggiamento che si era evidenziato fin dagli anni venti, quando la Ferry Royal Commission aveva apertamente decretato l’inadeguatezza della popolazione sud-europea – si parla esplicitamente di «razza» – a integrarsi nel tessuto sociale australiano (p. 27). In alcuni casi, come per quanto riguarda l’opera di pacificazione dell’arcivescovo Mannix nel Victoria, ci furono riavvicinamenti fra le due comunità, ma si trattò di episodi alquanto isolati. Anche quei più di mille italiani che, privandosi della propria cittadinanza originaria, si erano aggiudicati quella britannica, si trovarono, dal 1940, ad essere apolidi e prigionieri «politici». In proposito, l’autrice obietta che la strategia di repressione dei «nemici dello stato» possa essere stata diretta da matrici razziali ai danni soprattutto di siciliani (p. 34).
Alcuni capitoli del volume attraversano vicende che, sebbene con esiti relativamente positivi, raccontano di un lungo cammino di affermazione da parte degli internati e delle loro famiglie prima di ottenere lo status di cittadini australiani a pieno titolo. È il caso del racconto di Simone Alcorso e del suo tentativo di ridefinire un rapporto personale tormentato con il padre defunto, Orlando, antifascista ed ebreo – di per sé attributi in apparenza sufficienti per meritare l’appoggio di un governo alleato come l’Australia. Ne emerge la storia di un padre irreparabilmente segnato dall’internamento e dai continui sospetti di collaborazionismo con l’Italia durante il conflitto. Altri esempi dimostrano la cinica avventatezza delle autorità: ad esempio, la storia della famiglia Datodi, trasferita in massa e senza spiegazioni dalla Palestina a Tatura, nel Victoria (p. 100), o quella di Belgio Manca, costretto a fuggire dalla nave passeggeri, sulla quale era impiegato, per essersi rifiutato di eseguire il saluto fascista (p. 273). Altri capitoli, invece, affrontano vicende tragiche e irrisolte, quali quella della famiglia Cardillo, il cui padre Salvo, rimasto vedovo e assegnato al campo di prigionia di Loveday, dovette lottare con le autorità per il diritto a prendersi cura dei cinque figli minorenni, diritto mai riconosciuto (p. 25). Oppure la storia di Raffaele Musitano, morto in circostanze non chiare durante il trasferimento al campo, e al quale, due mesi dopo la morte, venne revocato lo status di cittadino britannico (p. 167). Molti altri episodi potrebbero essere riportati in questa sede, ma non renderebbero affatto la forza emotiva che si dipana dalla lettura del libro.
Il testo alterna resoconti personali a riflessioni storiche, con l’inserimento di cinque ulteriori capitoli di approfondimento scritti da accademici quali la stessa Mia Spizzica, Gaetano Rando, Francesca Musicò Rullo e David Faber. Spizzica presenta il risultato di interviste condotte con gli ultimi prigionieri internati ancora viventi di cui si abbia conoscenza. Rando invece esplora le conseguenze delle politiche di internamento sugli elementi più deboli del nucleo famigliare: le donne e i bambini. Musicò Rullo racconta la storia di due famiglie nel Nuovo Galles del Sud travolte dalla fobia anti-italiana. Faber, infine, evidenzia le conseguenze psicologiche e le ripercussioni legislative e civili dell’internamento, per molti versi da paragonarsi a un romanzo di Kafka.
In conclusione, per la sua lodevole portata testimoniale, il volume ha il pregio di riflettere su un passato relativamente recente, invitandoci a riemergere da un’amnesia storica che spesso ci impedisce di capire non solo il passato, ma anche il presente.
Luigi Gussago