Il lavoro di Petra Di Laghi si inserisce nell’oramai fitta produzione storiografica relativa allo studio del lungo Novecento nelle terre dell’Alto Adriatico orientale. Con una scrittura coinvolgente, Di Laghi non si limita a esplorare la diaspora istriana successiva alla Seconda guerra mondiale, ma inserisce le vicende in un quadro di lungo periodo che, partendo dalla fine della Grande guerra, arriva fino al Memorandum di Londra (1954). Un arco cronologico che consente all’autrice di delineare con rigore, frutto di un attento utilizzo della letteratura, le complesse trasformazioni che interessarono le aree in questione.
Dopo una panoramica sulla presenza delle diverse identità culturali che contribuirono a disegnare i contorni dell’Istria, nella prima parte del volume trovano spazio le dinamiche che accompagnarono l’affermarsi del fascismo di confine e della sua politica di italianizzazione forzata della componente slovena e croata, condotta con «una combinazione di provvedimenti legislativi e azioni intimidatorie» (p. 37). Successivamente l’analisi si sposta su passaggi salienti come la formazione della Zona di Operazioni Litorale Adriatico, l’azione partigiana, la corsa per Trieste e il consolidamento della presenza jugoslava sull’intera area, frutto di una ridefinizione dei confini che il volume tratteggia in maniera puntuale. La struttura dell’impianto appare quindi funzionale non soltanto a fornire al lettore le adeguate chiavi interpretative per comprendere una storia intricata e complessa, ma anche perché consente di riflettere sulle tensioni che raggiunsero il punto più elevato con la duplice tragedia delle foibe e dell’esodo della popolazione italiana.
Seppur inserite in maniera coerente nel quadro generale, queste due tematiche presentano alcuni elementi di criticità, non tali però da incidere negativamente sul computo generale del volume. Relativamente alle foibe, ad esempio, non appare pienamente condivisibile la dimensione dei dati proposti, così come non sembrano sufficientemente delineate le cause, i processi e le dinamiche che furono alla base delle stragi compiute nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 da parte degli apparati del movimento di liberazione e dello Stato jugoslavo.
La trasversalità dell’esodo capace di coinvolgere ogni segmento della popolazione italiana, le molteplici motivazioni che ne spinsero alla partenza, lo spaesamento di quanti si apprestavano a «diventare profughi» (p. 93), le atmosfere di Zara, Fiume e Pola, rispettivamente definite «città dimenticata» (p. 102) e «città fantasma» (p. 111), e dei centri della Zona B del Territorio Libero di Trieste, trovano una documentata sintesi, supportata anche dall’utilizzo di articoli dei quotidiani «La Voce del Popolo» di Fiume e «L’Arena di Pola» e di preziosi riferimenti letterari (Anna Maria Mori, Nelida Milani, Fulvio Tomizza, ecc.). Un quadro che denota un rigoroso e appassionato percorso di ricerca, che ha però il limite di non guardare sufficientemente alla dimensione europea, la cui analisi consente di definire l’esodo non come un processo esclusivamente italiano ma, piuttosto, come un tassello del più ampio mosaico degli spostamenti forzati di popolazione che interessarono l’Europa postbellica, tematica che nelle pagine del volume non trova adeguati spazi di approfondimento.
Oltre alla dimensione del viaggio, restituita anche da una cospicua memorialistica, il volume affronta il tema dell’arrivo dei profughi giuliano-dalmati in Italia, con particolare riferimento alla Liguria. L’analisi del contesto ligure rappresenta il punto di assoluta novità del lavoro, gettando lo sguardo su un territorio che, a eccezione di alcuni lavori sul Centro di raccolta profughi di La Spezia, si presenta pressoché inesplorato.
Incrociando un ventaglio di fonti diversificate, tra le quali spiccano le carte dell’Ufficio per le Zone di Confine (Archivio Presidenza del Consiglio) quelle del fondo del Ministero dell’Assistenza postbellica (Archivio di Stato di Genova) e del Fondo dell’eca genovese (Archivio Storico Comunale di Genova), Di Laghi ricostruisce le traiettorie dei profughi nell’area genovese, dove i giuliano-dalmati trovarono accoglienza nei locali del posto di ristoro della stazione di Porta Principe, per poi essere dislocati in altri punti della città grazie anche alla mediazione del locale Comitato giuliano.
Genova ma non solo. Particolare attenzione è rivolta anche alla Riviera di Levante e al Golfo del Tigullio con i casi di Rapallo, dove fino al 1949 i giuliano-dalmati furono ospitati nei locali di un albergo cittadino, e di Chiavari che vide la ex Colonia Fara, inaugurata nel 1938, diventare sede del Centro di Raccolta n. 72 capace di ospitare, nel 1948, 479 persone (p. 219). Chiude il cerchio una panoramica sull’entroterra, con particolare riferimento al comune di Busalla, dove nel 1950 risedevano oltre 650 profughi.
Come in altre parti d’Italia, emergono anche in Liguria i chiaroscuri dell’accoglienza, nella quale gli interventi governativi e le diverse forme di solidarietà viva si saldano con la precarietà di campi profughi e sistemazioni di fortuna e con episodi di ostilità e pregiudizio che resero, qui come altrove, molto complesso l’inserimento dei giuliano-dalmati nel tessuto economico e sociale dell’Italia del dopoguerra.
Di Laghi firma un lavoro ben strutturato, basato su una ricca mole di documentazione che ha il pregio di aggiungere un tassello importante alla storia delle vicende dei profughi giuliano-dalmati arrivati a popolare il difficile e complesso dopoguerra italiano.
Enrico Miletto