Flavio Giovanni Conti (studioso della storia dei militari italiani prigionieri degli Alleati durante la Seconda guerra mondiale) e Alan R Perry (docente di letteratura italiana e direttore del Center for Language and Intercultural Communication del Gettysburg College di Gettysburg, in Pennsylvania) forniscono con questo studio un altro contributo alla storia dei 51.000 prigionieri di guerra italiani rinchiusi nei vari campi di detenzione statunitensi durante il Secondo conflitto mondiale, in particolare tra il 1943 e il 1945. I primi studi di Conti su tale argomento risalgono alla seconda metà degli anni Settanta («Il problema politico dei prigionieri di guerra italiani nei rapporti con gli alleati, 1943-1945», Storia contemporanea, vii, 4, 1976, pp. 865-920) e quest’ultimo lavoro, pubblicato originariamente negli Stati Uniti (Italian Prisoners of War in Pennsylvania: Allies on the Home Front, 1944-1945, Madison, nj, Fairleigh Dickinson University Press, 2016) si sviluppa lungo il percorso di ricerca tracciato da due monografie pubblicate per i tipi de il Mulino nel 1986 (I prigionieri di guerra italiani 1940-1945) e nel 2012 (I prigionieri italiani negli Stati Uniti).
In particolare, il testo analizza le varie fasi della prigionia – dalla cattura al rimpatrio – riprendendo l’impianto generale del voluminoso studio del 2012, per mettere a fuoco il particolare caso-studio rappresentato dai prigionieri di guerra italiani che lavorarono come cooperatori nel deposito di munizioni di Letterkenny, in Pennsylvania, tra il 1944 e il 1945.
Il deposito, sorto otto km a nord di Chambersburg, nella contea di Franklin, venne costruito nel 1942 e determinò profondi cambiamenti sociali sul territorio, oltre ad avere un enorme impatto economico sulla comunità locale. L’edificazione di trenta magazzini e oltre ottocento depositi sotterranei comportò l’espropriazione di numerosi terreni e anche l’esodo forzato di quasi mille persone. Per il funzionamento del deposito le autorità militari statunitensi avevano previsto un fabbisogno di circa duemila addetti: tale stima si rivelò tuttavia errata al ribasso e l’amministrazione decise così di utilizzare i prigionieri italiani per sopperire alla lacuna di manodopera. Nel marzo 1944 l’impiego degli italiani fu programmato dal Dipartimento della Guerra e il piano prevedeva la progressiva attivazione di unità che avrebbero portato nell’arco di un paio di mesi al reclutamento di oltre 1.100 prigionieri-cooperatori provenienti da vari campi, cui affidare la manutenzione della ferrovia interna al campo, delle strade e lavori nei magazzini.
Dopo l’8 settembre 1943, il particolare status di prigionieri di un paese cobelligerante garantì agli italiani buone condizioni di vita e un regime di semilibertà che consenti loro di stabilire rapporti con le comunità locali, in realtà non sempre facili a causa della diffidenza degli abitanti. Tale diffidenza fu acuita talvolta da condizioni di prigionia ritenute eccessivamente favorevoli, ma nel complesso gli italiani seppero farsi ben volere e non furono infrequenti relazioni sentimentali con ragazze dei paesi vicini al deposito. In tale contesto la presenza negli Stati Uniti di una cospicua e attiva comunità italoamericana giocò un ruolo determinante per favorire l’integrazione dei cooperatori, rendendo più sopportabile la loro vita lontano da casa: pranzi, ricevimenti, feste, concerti, perfino partite di calcio e altre gare sportive, ma anche attività culturali e gite, furono organizzati in favore degli italiani di Letterkenny, per i quali gli italoamericani svolsero anche un ruolo di mediazione con le famiglie attraverso visite, scambi epistolari e di informazioni. La comunità italiana di prima e seconda generazione presente negli Stati Uniti, composta all’epoca da oltre 6 milioni di cittadini, era in grado di esercitare un peso politico non trascurabile e per questo tali attività assistenziali non furono fondamentalmente ostacolate.
Il rispetto delle convenzioni internazionali riguardanti il trattamento dei prigionieri da parte dell’amministrazione statunitense e la vicinanza degli italoamericani contribuirono a far sì che i prigionieri potessero ricordare la permanenza a Letterkenny come un periodo tutto sommato positivo, per alcuni uno spartiacque del vissuto e della memoria. A partire dall’autunno 1945 iniziarono i rimpatri, ma alcuni – per motivi sentimentali o per opportunità lavorative – ritornarono stabilmente negli Stati Uniti.
Uno degli elementi che caratterizza il volume è lo scavo nella caleidoscopica dimensione personale della prigionia, sondata grazie a un cospicuo corpus di testimonianze scritte e orali lasciate dai protagonisti: un’esperienza delineata anche attraverso una meticolosa ricerca d’archivio (National Archives di Washington, vari archivi militari italiani e Archivio segreto vaticano) e soprattutto grazie ai fascicoli personali di migliaia di prigionieri custoditi presso l’Archivio generale di deposito del Ministero della Difesa (fondo Direzione generale di Commissariato e di servizi generali, Ufficio spese nazionali ed estere), consultabili dal 2015 e fino ad ora inutilizzati.
Il volume rappresenta inoltre il risultato finale di un’operazione culturale più ampia, che ha previsto la realizzazione di una mostra fotografica itinerante dedicata ai cooperatori italiani di Letterkenny: un lavoro di ricerca e reperimento di fonti primarie (documenti e fotografie) che ha coinvolto direttamente i familiari dei prigionieri, riuniti dal 2016 nell’Associazione per la memoria dei prigionieri italiani a Letterkenny (https://www.ampil.it/sito/).
Fabio Caffarena