Marie-Christine Michaud ripercorre le tappe fondamentali dell’esperienza italoamericana negli Stati Uniti, in riferimento soprattutto alla collocazione e all’identità razziale, concentrandosi in particolare sulla città di New York, principale porto di entrata per il Nuovo Mondo e culla dell’italianità oltreoceano. La storica francese delinea i tratti più significativi del percorso degli immigrati italiani e delle generazioni successive verso la ricerca della propria identità all’interno di una società ostile attraverso quella che lei definisce «lutte pour la reconnaissance» (p. 5). Per fare questo si sofferma sul maturare di un senso di appartenenza razziale come chiave per l’integrazione e in particolare sui rapporti tra le due minoranze più numerose: italoamericani e afroamericani.
In un primo momento gli immigrati italiani giunti negli Stati Uniti con la Grande Migrazione di fine Ottocento si distinguono per una visione campanilistica della propria identità; vivono in quartieri etnici chiamati Little Italies, a loro volta divisi in blocchi a sé stanti secondo la provenienza regionale degli abitanti. Solo in un secondo momento, a causa della discriminazione da parte degli anglosassoni, si infonde nella comunità italiana un senso di appartenenza nazionale, rinvigorito poi dalla Prima guerra mondiale e dal fascismo. Il problema principale è che gli italiani non vengono considerati appartenenti alla razza bianca, bensì degli in-between a metà tra bianchi e neri e per questo vedono fortemente limitate le loro prospettive di ascesa sociale. Gli immigrati accettano i lavori più umili e le retribuzioni più basse e spesso subiscono atti di violenza generalmente rivolti ai neri, come nel caso del famigerato linciaggio di undici siciliani a New Orleans nel 1891. È quindi chiaro fin da subito che la questione del colore è fondamentale per raggiungere l’assimilazione all’interno della società americana.
Durante la Seconda guerra mondiale gli italoamericani si schierano pubblicamente dalla parte degli Stati Uniti, ma in privato soffrono per il loro paese. L’identificazione maggiore con la propria patria è accentuata dal discorso di Franklin D. Roosevelt in seguito alla dichiarazione di guerra dell’Italia alla Francia, in cui il presidente parla di «pugnalata alla schiena», riecheggiando lo stereotipo dell’italiano mafioso e assassino tipica di fine Ottocento (p. 77).
È però il secondo dopoguerra l’epoca sulla quale si concentra lo studio di Michaud: questa fase si caratterizza per essere un periodo di mobilità urbana; si nota infatti un evidente spostamento dal centro alle periferie da parte degli italoamericani, che abbandonano i quartieri sovraffollati delle grandi città – meta di un numero massiccio di neri e ispanici – per stabilirsi nei più tranquilli sobborghi. È in questo momento che si inizia a parlare di white ethnics; gli americani di origine italiana e le altre minoranze bianche di provenienza europea creano infatti un fronte comune per rispondere alle misure pubbliche a favore degli afroamericani. Interventi come il busing, un sistema per contribuire all’integrazione scolastica, vengono accolti con rabbia e ostacolati in maniera forte e continua; e gli italoamericani sono indisponibili a sostenere le iniziative portate avanti dal movimento per i diritti civili dei neri.
Le rivendicazioni di appartenenza in base all’ascendenza razziale e non nazionale trovano il loro apice in tre episodi di violenza, avvenuti a New York negli anni ottanta del Novecento, in cui perdono la vita tre giovani afroamericani per mano di bianchi di origine italiana. Gli omicidi di Willie Turks, Michael Griffith e Yussef Hawkins dimostrano come nell’arco di un secolo gli italoamericani siano passati da essere ritenuti white niggers a proporsi come simbolo del conservatorismo e dell’odio razziale; anche dal punto di vista politico non è un caso se a partire dagli anni settanta all’interno della comunità italoamericana si nota una virata verso il partito repubblicano.
Michaud descrive con chiarezza il conflitto tra italoamericani e comunità nera nella città di New York e come si sia arrivati all’uccisione di tre ragazzi innocenti in nome della difesa del proprio quartiere. È la bianchezza ad aprire le porte per l’integrazione e la difesa di questo status conquistato dopo decenni di discriminazione sembra giustificare ogni atto di violenza, anche quella estrema. Il fatto che Washington cerchi di agevolare gli afroamericani, per compensarli delle discriminazioni subite in passato, diventa la scintilla affinché gli italoamericani ormai indistinguibili dalle altre minoranze bianche si scaglino contro la comunità nera.
La tematica affrontata nelle pagine di questo saggio è estremamente attuale e dolorosa, è un peccato che non si accenni a come oggi, a distanza di trent’anni dall’uccisione di Yussef Hawkins nel quartiere di Bensonhurst a Brooklyn, le cose non siano affatto cambiate. Da una parte i continui omicidi di giovani neri disarmati per mano di poliziotti bianchi hanno portato alla nascita di movimenti come Black Lives Matter, dall’altra la volontà del presidente Donald Trump di costruire un muro sul confine texano per arginare il flusso migratorio dal Messico sono solo alcuni esempi che non fanno altro che sottolineare come l’uguaglianza nella «terra della libertà» sia ancora molto lontana.
Andrea Galli