Frutto di un convegno al Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Salerno, questo volume collettaneo espande ciò che comunemente si intende con «italoamericano» come campo di studi e ne fa un continuum che va sì dagli Stati Uniti all’Italia e viceversa, ma con uno sbilanciamento verso la visione italiana dell’emigrazione rispetto al paese d’immigrazione, gli Stati Uniti, e alle varie forme ibride italoamericane. D’altronde, è lecito che sia così, perché, come indica Fred Gardaphé nel suo contributo, è necessario che pure in Italia si cominci a guardare agli Italian American studies in modo serio (p. 35). La visione di un fenomeno transatlantico necessita infatti di molteplici punti di vista per essere compresa nella sua interezza: nato dalla traversata di un oceano, anche il campo degli studi italoamericani può trarre giovamento da un traghettamento di saperi e studiosi che non per forza si occupano solo di cose italoamericane nel senso più ortodosso del termine. Come ricorda Michele Bottalico, la giornata di studi da cui è nato il libro «si è voluta multidisciplinare per lasciare emergere numerosi spazi di indagine che oggi concorrono alla definizione degli studi sugli italoamericani, e implicano un ampio spettro di competenze scientifiche e di interessi di ricerca con l’estensione ad altre categorie antropologiche» (pp. 22-23). Il volume si articola quindi come un incontro fra diversi saperi, in cui ciò che ormai canonicamente intendiamo come «cose italoamericane» è meno centrale rispetto a un’idea ampia di migrazione italiana negli Stati Uniti.
Che cos’è, dunque, l’italoamericanità? L’introduzione di Bottalico traccia un percorso utile e ben fatto su che cos’è stata la migrazione italiana negli Stati Uniti e quali frutti ha portato in quella terra. I saggi successivi dimostrano che l’idea di italoamericano abbraccia un ampio spettro di soggetti, dagli italiani che lasciarono il loro paese per l’America (i veri migranti, quindi), alle prime, seconde, terze e quarte generazioni, agli italiani di ritorno come William Papaleo, presente nel volume come autore, e infine anche a coloro che hanno risieduto negli Stati Uniti temporaneamente, ma che per qualche ragione hanno intessuto con l’America un rapporto che ha definito la loro vita. L’incontro, quindi, può essere a volte anche solo culturale, come argomenta Antonia Lezza, che s’interroga sull’assenza di un vero teatro della migrazione in Italia, nonostante esista, soprattutto in quello partenopeo, il tropo dell’emigrazione. Il teatro dell’emigrazione ebbe, invece, un ruolo importante nelle comunità italiane statunitensi, come sottolinea Giuliana Muscio nel suo saggio sulla figura della donna italiana nel cinema americano, e contribuì alla circolazione di attori e attrici italiane e italoamericane a Hollywood. In altri contributi, come quello di Giuseppe Galzerano, l’incontro fra identità e culture italiana e statunitense non si discute: nella vita dell’anarchico Michele Schirru gli Stati Uniti sono un luogo di cittadinanza, che tacitamente gli offre la possibilità di riportare in patria idee e azioni qui proibite, volontà politiche che si traducono nel gesto per cui Schirru è passato alla storia, ovvero l’intenzione di assassinare Benito Mussolini.
Sebastiano Martelli continua sulla scia del suo precedente lavoro per far affermare gli Italian American studies anche in Italia, all’interno dell’italianistica che spesso ha tralasciato questa rilevante fase storica italiana, con importanti conseguenze sullo sviluppo di un’identità culturale, politica e linguistica. Qui lo mette in luce in alcune autobiografie (Margariti, Borgonaro, Tresca, Mangione, D’Angelo, Panunzio, Iannace, Tusiani), che si intendono non soltanto come scritture private mosse dal bisogno di affermazione identitaria ma anche come «materiale non secondario per il disegno e la comprensione dei processi di costruzione dell’identità italiana» (p. 47). Inoltre, tali autobiografie offrono lo spunto per riflettere sulla necessità di scrittura, intesa come metodo per «ritrovare le radici perdute», «fissare la memoria di un mondo» e rivendicare la propria dignità e diritto alla vita (p. 49). Come Martelli, anche Rosa Maria Gullo analizza scritti autobiografici, ma al femminile, che contravvengono allo stereotipo dell’uomo migrante e della donna in attesa. L’autrice esamina due esuli anarchiche degli anni venti e trenta, Virgilia D’Andrea e Luce Fabbri. Incentrandosi più canonicamente sulla problematica identitaria, Clara Antonucci e Francesca Bisutti indagano i significati dell’appartenere attraverso etnie e generazioni. La prima prende in esame i memoir di due autrici di terza generazione, Mary Cappello (Night Bloom) e Kym Ragusa, scrittrice e film-maker e una delle poche voci artistiche afroamericane-italiane (The Skin between Us). Il lavoro di Ragusa dimostra un’appartenenza etnico-razziale fluida, che può oscillare fra l’identità operaia bianca della famiglia del padre a quella nera, clandestina, proveniente della famiglia materna. La sua opera risponde quindi all’appello di Gardaphé in apertura di volume ad abbinare lo studio dell’etnicità con quello della razza e della classe sociale, categorie che in egual misura contribuiscono alla formazione identitaria sia personale sia nazionale attraverso la produzione e riproduzione delle differenze. Bisutti opta per romanzi al maschile, quelli di Mario Puzo (The Fortunate Pilgrim) e Robert Viscusi (Astoria). In entrambi, però, sono le figure femminili a emergere: grazie alla centralità delle «fibre della discendenza» (p. 121) nelle opere dei figli, le madri divengono «demiurghe, rivoluzionarie e imperatrici» (p. 116), protagoniste per la loro capacità di negoziare nuove realtà familiari e posizioni sociali nella New York in cui vivono.
Fra questi saggi, scritti in italiano e prevalentemente volti alla disamina di espressioni italoamericane antecedenti gli anni cinquanta, bisogna segnalare due interventi in inglese. Gardaphé offre una panoramica sulla mutevole definizione di identità italoamericana, leggendola in controluce alla situazione degli studi italoamericani negli Stati Uniti. Il saggio fornisce indicazioni sulle università che offrono programmi ad hoc ed è in questo senso utile sia per gli studenti che vogliano recarsi negli Stati Uniti sia per gli accademici interessati a intessere rapporti internazionali. Papaleo riflette, invece, sulla propria arte, sull’identità italoamericana e su come questa l’abbia spinto a occuparsi della figura del migrante, soprattutto nell’Italia odierna in cui è presente un nuovo flusso africano. Questa interessante conclusione sposta l’accento dalla visione della migrazione italiana come ormai materia d’archivio alla contemporaneità e ci ricorda come molto lavoro sia ancora da fare sulla presenza italoamericana nelle arti figurative.
Il contributo di Papaleo ben accompagna il saggio di Bottalico su Joseph Stella. Conosciuto come un futurista che dipinse l’America industriale, Stella si rivela un osservatore ambiguo della modernità urbana americana, vista alternativamente in modo positivo e negativo negli scritti che il pittore ha lasciato. La lettura di Bottalico mostra come la matrice italiana di Stella si riveli nelle sue opere, ma come anche le avanguardie internazionali dell’epoca abbiano plasmato l’arte e l’identità dell’artista, in un’ottica transnazionale che a volte si tende a non considerare in favore di un recupero delle origini o di una accentuazione della necessità del migrante di assimilarsi alla società ospitante.
Elisa Bordin