In Italia, da tempo, l’immigrazione si trova al centro del dibattito pubblico e rappresenta uno dei temi più scottanti e discussi dell’agenda nazionale. A quest’attenzione – troppo spesso amplificata dai media a seguito di singoli fatti di cronaca e alimentata strumentalmente dalla classe politica – corrisponde però una scarsa conoscenza del fenomeno, riguardo al quale continuano a essere diffuse visioni «partigiane» oppure frutto di radicati pregiudizi.
Anche in ambito scientifico, considerata la sua rilevanza e la sua natura di connotato strutturale della società italiana, all’immigrazione sono state dedicate finora poche riflessioni scientifiche (tra queste, si ricordano i contributi di Enrico Pugliese, in particolare, con Maria Immacolata Macioti, L’esperienza migratoria. Immigrati e rifugiati in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2010) e nessuna che si focalizzi su di essa assumendo una prospettiva storica di lungo periodo. Le ricerche esistenti hanno nella maggior parte dei casi privilegiato l’indagine di singoli aspetti, in particolare il lavoro, e sono state capaci di proporre contenuti interessanti e apprezzabili, senza però tracciare un quadro completo.
L’agile volume di Michele Colucci arriva quindi a colmare un vuoto importante e fornisce un resoconto generale ma accurato della presenza straniera in Italia dal secondo dopoguerra a oggi, tratteggiato grazie a un ampio corpus di dati, articoli di giornale, studi e testimonianze estratte da interviste e documentari coevi, con l’obiettivo di favorire la comprensione dei fatti e far trasparire la complessità di un processo che ha già un consistente passato da esplorare ma è tuttora in atto. L’autore include nella sua analisi le implicazioni politiche, sociali e culturali relative all’immigrazione, così da portare alla luce quella «dimensione articolata e stratificata» (p. 204) che le è propria, ma che il discorso pubblico tende colpevolmente a lasciare in ombra.
Premessa fondamentale della trattazione è che ritenere l’Italia un Paese di «recente immigrazione» è ora un pericoloso anacronismo, che «perpetua quel senso di eccezione, di emergenza, di stupore rispetto alla realtà dell’immigrazione straniera non giustificabile già nel 1979 [anno del primo rapporto Censis sui lavoratori stranieri in Italia] e destinato a diventare sempre più imperdonabile col passare del tempo» (pp. 12-13). Infatti, se è pur vero che un’impennata dei flussi si è verificata solo nell’ultimo quarto di secolo, il nostro Paese si trovò già agli albori della Prima repubblica a dover far fronte agli arrivi dall’estero, e uno dei principali meriti del libro è proprio l’attenzione riservata a questa fase embrionale della questione migratoria. Poco numerosi, soprattutto se paragonati a quelli in altre nazioni occidentali, gli ingressi o i «passaggi» di popolazioni di varie provenienze – in quel frangente perlopiù profughi di guerra e migranti delle aree di decolonizzazione – misero le istituzioni di fronte alla necessità di concepire un progetto per gestirli che in alcune componenti essenziali rimarrà molto simile nei decenni e si configurerà come un sistema policentrico, con competenze distribuite tra più soggetti: la presidenza del Consiglio e i Ministeri del Lavoro, dell’Interno e degli Esteri. L’autore sottolinea come tale composita impostazione da un lato evidenzi criticità di coordinamento destinate a durare nel tempo, dall’altro rimarchi le peculiarità di una cultura politica che fatica a riconoscere al fenomeno migratorio un carattere strutturale, si tratti di italiani che emigrano o viceversa di stranieri che immigrano. Mentre già cominciavano a emergere le prime generazioni di nuovi italiani, infatti, quelli che lo erano per nascita continuavano e avrebbero continuato a emigrare, all’estero o dal Sud verso il Nord.
Dopo la transizione degli anni del boom, durante i quali si registrò un lento ma progressivo aumento delle presenze, nel decennio settanta-ottanta, di pari passo con una presenza straniera sempre più diversificata e stabile, si aprì la stagione prodromica a un intervento legislativo organico e iniziarono le rilevazioni statistiche. Vengono sottolineati, a questo proposito, l’attivismo dell’universo associativo e la speculare tendenza dello Stato a delegare le responsabilità.
Per quanto l’indagine si concentri sulla realtà interna all’Italia, non viene mai dimenticato lo scenario internazionale, indispensabile per contestualizzare la tematica esaminata. Il momento di svolta è individuato non a caso nel quadriennio 1989-1992, quando i profondi mutamenti globali impressero un’impennata all’immigrazione e indussero media, politica e società civile a considerarla una questione di primo piano. L’autore opera una meticolosa ricostruzione dei provvedimenti adottati dai vari governi per una regolamentazione legislativa dei flussi e della vexata quaestio della cittadinanza. Tuttavia, più della descrizione della cornice normativa e delle pur significative citazioni tratte dalla stampa, a coinvolgere il lettore sono le voci dei protagonisti e il racconto di alcune esperienze individuali ma paradigmatiche a cui è stato meritevolmente lasciato spazio.
Arrivando ai fatti di più stretta attualità, Colucci menziona fenomeni degni di ulteriore approfondimento, come quello della onward migration, lo spostamento verso l’estero di stranieri residenti in Italia dopo la crisi economica degli ultimi anni.
Nel complesso, il volume delinea l’immagine di un Paese che non è semplicemente passato da essere luogo d’emigrazione a destinazione di immigrati, ma che in ogni fase della sua storia recente è stato e continua a essere piuttosto un crocevia di flussi, sia interni sia esterni, di arrivi e partenze: dunque, esplorando il tema dell’immigrazione straniera, getta anche luce su fondamentali aspetti della storia italiana contemporanea.
Francesca Puliga