Uscito nella collana «Sessimo e razzismo» e arricchito dal reportage fotografico di Alice Valente Visco, Kotha (da una parola bengali che fonde il concetto di storia con l’idea di racconto) s’inserisce nell’attuale dibattito sull’immigrazione italiana e internazionale. Più nello specifico, contribuisce agli studi sulla diaspora bangladese, regalando una prospettiva di genere di cui si sentiva la mancanza, in quanto le ricerche precedenti si sono orientate prevalentemente sui probashi («migrante» in bengali) maschi, più numerosi e radicati da un tempo maggiore (si veda ad esempio, Pigneto-Banglatown, a cura di Francesco Pompeo, Roma, Meti, 2011; Andrea Priori, Romer probashira, ivi, 2012). Ciò nonostante, il numero delle donne è in continuo aumento, a testimonianza della stabilizzazione della comunità migrante in Italia, uno sviluppo che rende il testo attuale e necessario.
Roma, nello specifico Tor Pignattara (ribattezzata Banglatown anche dagli stessi bangladesi), è una delle comunità più grandi e longeve nel territorio italiano. Formatasi a partire dai primi anni novanta del Novecento, conta gran parte dei 35.000 membri residenti nel Lazio (sui circa 122.000 in tutta Italia, in base ai dati idos del 2017). La ricerca di Katiuscia Carnà e Sara Rossetti si svolge prevalentemente nel cuore del quartiere, ma spazia ove necessario nei luoghi significativi per le intervistate come, più in generale, per la comunità, quali Piazza Vittorio e Centocelle.
Le autrici hanno costruito attorno ai loro principali interessi scientifici – lingua e religione – lo sfondo per interviste in profondità, etnografie e osservazione partecipante. D’altro canto, lingua e religione sono due elementi cardine dell’esperienza migratoria delle donne bangladesi in Italia e, come si può approfondire nei capitoli dedicati, le identità e le narrazioni si fondono profondamente con corsi d’italiano e partecipazione scolastica, da un lato, e frequentazione dei luoghi di culto o pratica privata della fede, dall’altro.
Le parole delle intervistate sono presentate e illustrate all’interno di una solida costruzione storica e contestuale. Nel capitolo primo troviamo una narrazione di Roma, Piazza Vittorio e Tor Pignattara, che ricorre tanto alla storia quanto alle identità di chi vive questi spazi. Lo stesso vale per la sezione dedicata alla religione, che è vista a livello spaziale, identitario e legislativo, a dimostrazione di una ricerca ampia e sfaccettata che riflette la complessità della vita migrante bangladese.
Il capitolo secondo ci porta nel contesto d’origine, concentrandosi in particolar modo su una parte di storia poco conosciuta in Occidente: i circa tre milioni di morti stimati nel conflitto che portò all’indipendenza del Bangladesh nel 1971, classificato tra i cinque genocidi peggiori del xx secolo, a corollario del quale si verificarono stupri e violenze delle quali nel testo si cerca di rendere conto, con tutte le difficoltà connesse a un tema tanto delicato.
Il capitolo terzo si focalizza sul tema della religione, con una panoramica dell’induismo nella diaspora bangladese, oltre a mettere in risalto la natura di un Islam meno ortodosso rispetto ad altri Paesi islamici. Uno spunto interessante, che meriterebbe un approfondimento, è l’accenno al «femminismo islamico» (p. 101), che proporrebbe un’interpretazione del Corano attenta alle donne e ai loro diritti.
Nei capitoli quarto e quinto si entra più nel vivo delle narrazioni di Kotha. Qui troviamo un’analisi comunitaria che sa mettere in discussione i dati statistici, tenendo conto della percezione delle donne intervistate. Concordo con le autrici nel rilevare come si sia verificato un ricambio generazionale e di conseguenza un grande cambiamento a Banglatown tra «i primi tempi» e la situazione attuale.
Carnà e Rossetti non dimenticano inoltre di affrontare alcuni dibattiti extra accademici, come quello sull’uso del burqini, un capo d’abbigliamento da spiaggia indossato in prevalenza da donne musulmane che copre la maggior parte del corpo, e le sue implicazioni sociologiche. Legato a temi insieme religiosi e identitari, l’uso del velo è un argomento importante da trattare in un testo che parla di donne (anche) musulmane: a questo proposito è preziosa la testimonianza di Mariam, 39 anni, che racconta come abbia deciso di indossare il velo a Roma, ma di non averlo mai fatto in Bangladesh, motivando tale scelta con l’influenza della comunità di connazionali che «parla» e «giudica» (pp. 136-37). Queste sono le testimonianze che più fanno riflettere e che servono ad andare oltre una lettura superficiale del fenomeno.
A rendere la lettura della comunità più ampia e completa, si aggiungono considerazioni sulle nuove generazioni e sulle diversità religiose, anche in relazione al matrimonio e ai rituali che scandiscono i tempi dell’anno e della vita delle migranti in Italia.
Infine, il capitolo sulla lingua, esplora i fattori familiari che contribuiscono – o ostacolano – l’apprendimento dell’italiano e l’esercizio dei diritti di cittadinanza delle donne. Viene menzionato «l’obiettivo blasonato» (p. 178) del Regno Unito, visto come una destinazione di serie A, dove l’istruzione e la lingua sono di un livello superiore, oltre all’importanza della trasmissione della lingua madre, mettendo così in evidenza le appartenenze multiple e le strategie di integrazione delle famiglie bangladesi.
Kotha è nel suo complesso un testo che sa equilibrare il peso di una grande mole d’informazioni con un po’ di leggerezza data da un bel reportage fotografico ed etnografie mai banali. Solo a volte il linguaggio risulta un po’ sfuggente nel discutere di stereotipi e pregiudizi che «l’Altro» bangladese può avere sulla società d’adozione, ma è un argomento scivoloso ed è comprensibile la difficoltà delle autrici a navigare in acque assai agitate, specialmente di questi tempi, quando si sente sempre più forte l’esigenza di controbilanciare una corrente razzista e xenofoba che va fronteggiata anche e soprattutto con belle ricerche come questa.
Valeria Giannuzzi