Il numero monografico della rivista raccoglie gli interventi della giornata di studi sull’emigrazione antifascista dal Friuli, organizzata dall’Università di Udine e dall’Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione e coordinata da Javier Grossutti, svoltasi nel marzo 2016. Elemento pregevole della pubblicazione è la scelta di valorizzare l’esperienza regionale friulana negli studi sull’antifascismo italiano all’estero, riprendendo un filone mai esaurito che punta alla ricostruzione delle molteplici filiere antifasciste dalle diverse località italiane. La raccolta passa in rassegna la pluralità dei contesti d’arrivo nei quali gli antifascisti operarono: da Argentina e Uruguay, dove si installarono alcuni emigranti da Codroipo nel contributo di Grossutti, al Canada nel saggio di Olga Zorzi Pugliese, alla Francia in quello di Marco Puppini sino al brillante contributo di Aleksej Kalc sugli antifascisti sloveni della Venezia Giulia in Argentina. Non mancano la prospettiva di genere, nel saggio di Chiara Fragiacomo, l’approccio biografico, in quello di Federico Snaidero, e la riflessione sulle canzoni del movimento operaio, svolta da Emilio Franzina. Il taglio prevalente offerto dalla maggior parte dei saggi, e non solo dal contributo di Snaidero, è quello della ricostruzione biografica, in particolare grazie allo studio dei documenti conservati presso il Casellario Politico Centrale (cpc), seguendo le vicende non degli antifascisti più noti, ma dei numerosi friulani che abbandonarono, in diversi momenti, la regione.
La militanza politica per molti migranti iniziò prima dell’espatrio, in Friuli, per poi continuare nel Paese d’arrivo, anche se all’estero nuove forme di politicizzazione presero corpo, ad esempio in Canada e in Francia. L’importanza delle culture politiche di partenza, tra cui il popolarismo, non impedirono l’influenza di altre correnti politiche, come l’anarchismo che, specialmente in Canada e Sudamerica, assunse un ruolo determinante per molti immigrati friulani. Come scrive Grossutti, «Le cause probabilmente sono da cercare nelle dinamiche operaie proprie del paese di approdo [...] senza tuttavia trascurare che esse si innestano e prosperano in un humus riformatore che rimanda alla generazione precedente» (p. 27). Gli stessi canti operai subirono una sorte simile: alle canzoni anarchiche e internazionaliste dell’inizio del Novecento, come segnala Franzina, si affiancarono progressivamente, senza sostituirle del tutto, canti antifascisti, come dimostrato dal coevo successo di quelli dedicati a Matteotti e a Sacco e Vanzetti.
Accanto alle biografie individuali, alcuni saggi rimandano alla costruzione all’estero di una rete associativa di carattere regionale. In Francia, ricorda Puppini, l’esempio più noto è quello dell’Emancipazione friulana, organizzazione fondata dal socialista Ernesto Piemonte alla fine degli anni trenta, nel clima di euforia generato dalla vittoria del Fronte popolare. Alle associazioni politiche si affiancarono talora luoghi di aggregazione apparentemente meno militanti, come gruppi musicali e corali, che assunsero una funzione di socializzazione politica attraverso la scelta di un repertorio, talora solo in forma privata, nel quale canti socialisti e antifascisti trovavano spazio. Particolare rilievo, nel saggio di Kalc, è dato alla scelta nazionalista e antifascista compiuta dalla minoranza slovena della Venezia Giulia che, in Argentina, organizzò un associazionismo su base etnica, distinto non solo da quello italiano, ma anche da quello degli sloveni jugoslavi, all’interno del quale non mancarono divisioni ideologiche tra radicali e moderati, per la crescente influenza dei comunisti divenuti, negli anni trenta, la forza egemone dell’antifascismo all’estero.
Le biografie presentate nei saggi raccontano, tuttavia, anche una forma di antifascismo non militante, che Fragiacomo, riprendendo le parole di Guido Quazza e Giovanni De Luna, ha definito antifascismo esistenziale. La dimensione privata non riguardò solamente le donne, spesso condannate, anche nei fascicoli del cpc, al ruolo di mogli, sorelle o figlie, con una deminutio che pure la partecipazione di alcune alla guerra di Spagna – dove molti friulani affrontarono quella che Puppini ha definito una «scuola politico-militare» (p. 108) – pare smentire. Solo le comuniste, Tina Modotti in primis, sembrarono sfuggire alla rappresentazione familistica per mantenere una loro dimensione politica autonoma.
Quasi come contraltare ai fenomeni di politicizzazione antifascista che all’estero avevano coinvolto un numero ragguardevole di friulani, il saggio di Snaidero presenta la biografia di Giovanni Minut, che, dopo essere stato leader agrario comunista nel Friuli degli anni venti, in Uruguay, pur non abbandonando la sua ostilità per il regime, si impegnò fattivamente per la realizzazione di una cooperativa lattario-casearia. La vicenda di questo militante racconta di quei fenomeni di spoliticizzazione, già evidenziati da Antonio Bechelloni, troppo spesso dimenticati dalla storiografia.
Gli studi raccolti nella pubblicazione dimostrano, come già notato da diversi autori, la produttività di un approccio regionale all’emigrazione antifascista e, come emerge ancora schematicamente nel saggio di Zorzi Pugliese sul Canada, anche l’importanza da accordare alle singole aree di arrivo degli italiani e all’interazione con i contesti locali. I saggi pubblicati sono, in questo senso, una buona base per le molte ricerche ancora possibili sulla presenza friulana all’estero e un contributo alle ricerche sulle forme di politicizzazione dei migranti.
Pietro Pinna