La migrazione come «bissinisi», utilizzando il linguaggio italoamericano, è il filo condutture dell’ultimo lavoro di Giuseppe Moricola. Lo storico economico nel suo L’albero della cuccagna, dedicandosi alla Grande emigrazione tra la fine dell’Ottocento e il primo decennio del Novecento, mette in discussione la consolidata immagine storiografica della catena migratoria di inizio secolo quale percorso di cooperazione tra migranti. L’interpretazione dell’esodo degli italiani è spostata dalla storia sociale della catena migratoria, quale esperienza di cooperazione, al terreno più prettamente economico della rete di profitti e speculazioni che si creò attorno al percorso del migrante, sottolineando la debolezza delle politiche dello Stato liberale rispetto al bisogno di contrastare tali fenomeni per ristabilire un proficuo rapporto tra migrazioni e commercio estero italiano.
Uno dei luoghi su cui il libro si concentra, soprattutto nei primi capitoli, è il porto. Punti di partenza, i porti rivestirono un importante ruolo in questa fase della diaspora italiana. Infatti, «L’emigrante nasce come figura sociale agli occhi del paese proprio sulle banchine dei porti, perché a Genova, come a Napoli e a Palermo i flussi migratori modificano il rapporto che la città ha con il porto e con le attività portuali» (p. 20).
Moricola, intrecciando fonti a stampa e fonti d’archivio, ricostruisce nel dettaglio finanziamenti e gestione degli scali marittimi cittadini, con un’attenzione particolare alle dinamiche che si svilupparono nel porto partenopeo, evidenziandone, dalla fine dell’Ottocento, la sua progressiva «trasformazione come principale porto dell’emigrazione […] grazie alla partenza di milioni di meridionali verso le Americhe» (p. 27). Fu proprio a Napoli e allo scalo di Genova che, dal 1862 al 1924, l’allora Regno d’Italia destinò la metà dei 508 milioni di lire riservati al potenziamento dei porti.
Tra i meriti dell’attento lavoro di Moricola vi è la capacità dell’autore di mostrare come la prima legge organica sull’emigrazione, promulgata nel 1901, sebbene formalmente avesse definito la figura dell’emigrante e avesse delineato un quadro di tutele minime, non fosse stata in grado di porre un freno alle malversazioni e alle speculazioni o, in altre parole, agli affari che ruotavano intorno all’emigrazione. Agenti, subagenti, locande, osterie, vettori finti o presunti: una nuova economia stava cambiando il porto di Napoli, dove «più che altrove si è acutizzata questa industria dello sfruttamento degli emigranti, […] enucleata essenzialmente nelle locande» (p. 39). Tale sviluppo avvenne anche conseguentemente alla funzione di via Marina nuova come «City dell’emigrazione» (p. 45). In questo quadro, e soprattutto dopo il 1901, quando insieme alla prima legge organica fu istituito il Commissariato generale dell’emigrazione, il tentativo dello Stato di centralizzare il flusso o, meglio, la gestione dello stesso e delle sue fasi prima della partenza, fallì miseramente. La proposta di un «Ricovero pubblico degli emigranti» si dovette scontrare con gli interessi di chi, da decenni, lucrava sull’emigrazione e sopravviveva grazie a essa. Le locande private continuarono a esistere e a speculare su ogni frangente, dal vettovagliamento alle lenzuola. Simili affari crebbero al punto tale da rappresentare un settore economico non trascurabile per l’ex capitale del Regno borbonico.
D’altronde, nella fase della Grande emigrazione, la proporzione delle partenze da Napoli per le Americhe, rispetto al dato nazionale complessivo, superò i due terzi. Questa crescita permise anche ad altri attori di arricchirsi, e non poco. Per esempio, se ne avvalsero le navi battenti bandiera tedesca o inglese, in grado di trasportare oltre 2000 migranti, che fecero sì che Napoli divenisse il principale porto del Regno d’Italia, imbarcando annualmente, in media, 120.000 migranti in più rispetto allo scalo ligure.
Nell’ultima parte del lavoro, consacrata al rapporto tra emigrazione ed export, vengono proposti interessanti spunti di riflessione e interrogativi per nuove linee di ricerca, evidenziando ancora una volta come la migrazione sia stata un vero e proprio albero della cuccagna per molti, eccezion fatta per i migranti.
Toni Ricciardi