A questo libro denso e impegnativo l’autrice, investigadora del conicet a Buenos Aires che si spartisce da tempo tra le Università di Salta e di Siena (la provincia d’origine dei suoi nonni partiti da Abbadia San Salvatore nel 1923), ha dedicato molti anni, lavorando su fonti soprattutto letterarie sia note che poco conosciute, ma spesso riportate alla luce per la prima volta proprio da lei. Prima ancora di ogni altra considerazione occorre segnalare la ricchezza dei risultati conseguiti dalle sue indagini, che riescono a integrare un quadro sin qui incentrato soprattutto sulle maggiori figure di Nievo, De Amicis, Pascoli, Corradini, ecc., delle cui opere ritorna peraltro qui un’analisi originale a ridosso del sintagma guida del libro: e(in)migración.
In effetti la specularità e l’inestricabile doppiezza delle migrazioni – che generano fenomeni rispecchiabili in entrambi i versi a proposito di concetti quali sradicamento, identità e ideologie politiche – non dovrebbero suscitare eccessiva sorpresa nel lettore, a condizione che la percezione di un dato abbastanza ovvio in sé non scada subito nel truismo gratuito. Il termine migrazione, infatti, quando non sia accolto come univoco e indifferenziato, allude solo allo spostamento nello spazio, ma le particelle proclitiche che nell’enclisi lo precedono sono chiamate inevitabilmente a qualificare le due direzioni in cui ci si muove, una da dove (e) e un’altra verso dove (in) si va con quanto ne consegue non tanto o solo da un punto di vista geografico quanto politico e antropologico culturale (o antropologico e culturale). Nel dibattito politico dei nostri giorni, non solo in Italia, si abusa sovente in modo univoco dell’indifferenziato. Ciò – a parte l’assonanza sgradevole, e tuttavia neanche del tutto impropria qui, con i residui della spazzatura – produce notevoli e gravi problemi. Parlando di «migranti» e non di «emigranti», ad esempio, si opera una scelta che non è solo di tipo linguistico perché nel fare così si cancella ogni riferimento alle provenienze (storie di vite, di culture, di famiglie ecc.) di coloro che poi, come immigranti o immigrati, da qualche parte si dirigono e, fissandovisi con le proprie discendenze, dovranno portare a lungo il peso di uno stigma negativo. Anni fa, varando un’opera d’insieme sulla storia dell’emigrazione italiana, decisi con altri colleghi, non solo per dividerne in due la trattazione, d’intitolare un primo volume alle partenze e un secondo agli arrivi, il che mi valse alcune critiche e non poche facili battute su una similitudine ferroviaria la quale, a dir la verità, avrebbe avuto più senso se si fosse proposta capovolta.
Nella storia dei movimenti migratori, specie se di massa, arrivi e partenze, infatti, si susseguono più e più volte in differenti forme (della circolarità migratoria al Plata non sono forse state simbolo per decenni le rondinelle o golondrinas?) prima di consegnare in via definitiva ai Paesi interessati, assieme da un lato a consistenti eredità e dall’altro, magari, ad alcuni deficit demografici, due (o più) narrazioni dell’accaduto. Ciò avviene attraverso una produzione d’immagini e parole, memorie private e persino suoni (in particolare le melodie così dei canti popolari come delle canzoni di un circuito o repertorio commerciale di musica leggera) di cui reca traccia precisa il libro di Fernanda Elisa Bravo Herrera, che ne segue tragitti fra Italia e Argentina (e viceversa) lungo quasi 150 anni. Per gusto mio di storico, attento all’embriogenesi degli avvenimenti e preoccupato di rispettarne sempre la cronologia e la scansione, ho fatto talvolta fatica a seguirla nel suo girovagare, testi alla mano, attraverso un arco così ampio di tempo e di stagioni (della politica, della cultura o dell’evoluzione economica del pianeta), dove finiscono per risaltare soprattutto i crinali forniti da alcuni elementi demarcatori più forti di altri: nel caso italoargentino, ad esempio, il nazionalismo di matrice sia risorgimentale che corradiniana con quel che ne conseguì nei componimenti e nei romanzi di scrittori, per citarne solo un paio di «minori» quasi sconosciuti in Italia, come Folco Testena (Comunardo Braccialarghe) e Nella Pasini.
Le diverse prospettive che configurano il processo socio-culturale della coesistenza e dell’acclimatamento in Argentina degli emigranti/immigrati – inteso come frutto di una problematica «bifronte e poliedrica» destinata a traslarsi man mano nella letteratura italiana – condizionano certo l’uso e l’interpretazione dei testi d’ogni tipo maneggiati con abilità dall’autrice, ma l’aiutano anche a dipanare una trama altrimenti troppo complessa di fatti: la nascita di un’«altra Italia» all’estero, le dottrine emigrazioniste e antiemigrazioniste nel Paese di origine e quelle favorevoli o contrarie all’immigrazione nel Paese di accoglienza, il peso della nostalgia e il mito del ritorno, la forza decrescente delle doppie identità e così via. Lo sforzo compiuto per mettere a fuoco – o quanto meno per metterli in ordine tematico, nel magma davvero ragguardevole dei fatti a cui si riferisce la successione in sette capitoli del libro – l’apporto e il contributo di scrittori, letterati e intellettuali in un secolo e mezzo segnato da progressivi e profondi cambiamenti appare quindi encomiabile. Tuttavia, mi vien fatto di azzardare con vivo rammarico, si tratta d’un tentativo destinato a non incidere granché sulla trasandatezza e sul sostanziale disinteresse con cui a tali vicende hanno guardato, e ancora sembra che si ostinino a guardare, le classi, non solo di potere, del nostro Paese a dispetto (o a riprova?) di quanto opinano, nei loro paratesti introduttivi, entrambi a torto ottimistici (pp. 21-28), sia Romano Luperini (Il libro di Bravo Herrera, come si riempie un vuoto culturale) che Antonio Melis (Para rescatar una epopeya humilde).
Temo che la retorica miserabilista del «quando ad emigrare eravamo noi» e la superficiale conoscenza, per non dire la diffusa ignoranza, anche fra i sedicenti addetti ai lavori, del reale passato emigratorio/immigratorio degli italiani in Argentina e in una infinità di altri luoghi continueranno a ingombrare ancora a lungo le scene giornalistiche, mediatiche e culturali del nostro Paese. Ma libri come questo di Bravo Herrera, se non autorizzano da soli a ben sperare, vengono quanto meno in soccorso di chi non si rassegna e intende viceversa perseverare nello studio degli uomini e delle donne che dall’Italia emigrarono per immigrare al di là dell’Atlantico e altrove.
Emilio Franzina