Tra la fine del xix e la prima metà del xx secolo le città di Napoli e New York erano collegate tra loro da un frequentatissimo ponte marittimo; nel principale porto dell’Italia meridionale «il vapore» prendeva a bordo una congerie umana dolente, fiaccata socialmente ed economicamente, per poi scaricarla, dopo giorni e giorni di navigazione, a Ellis Island, L’isola d”e llacreme, come l’aveva ribattezzata una canzone napoletana dei primi del Novecento. Innumerevoli persone affrontarono in quegli anni il lungo viaggio, nel corso del quale, in una progressiva perdita dell’identità originaria, assumevano via via amara consapevolezza del loro irreversibile status di emigranti. Per questa gente, aggrapparsi alla propria identità pregressa, agli stili sociali garantiti dalla tradizione e a forme culturali sedimentate, era l’antidoto per non smarrirsi definitivamente.
Talvolta accadeva anche che qualcuno, dopo l’esperienza migratoria, rientrasse in patria permanentemente; il ritorno alla terra d’origine determinava un processo di re-integrazione arricchito culturalmente grazie ai linguaggi, agli stili e ai contenuti appresi oltreoceano. In America si azionava una sorta di rimescolio cognitivo, derivato dal contatto con un’alterità talvolta vissuta in condizioni di disagio estremo (ma tale rimescolio aveva, comunque, un punto di ancoraggio nella difesa delle proprie radici); di conseguenza si attuavano, per scelta o per obbligo, tentativi di assimilazione di codici linguistici e comportamentali fino a poco prima sconosciuti. In seguito a queste fatiche tipicamente legate a ogni processo di integrazione, se e quando si ritornava a casa, lo si faceva con nuovi linguaggi disponibili.
L’idea di «oscillazione migratoria» è quella che sta alla base di tutto il percorso delineato da Simona Frasca nel suo importante e bel volume Italian Birds of Passage, il cui focus si attesta sull’osservazione di una particolarissima fascia di emigranti, rappresentata da coloro che operavano (a vario titolo e in varia misura) nel mondo professionale della musica e della canzone napoletane.
L’autrice ha il merito di battere territori di studio e ricerca ancora poco esplorati, ponendo l’attenzione non soltanto sulle andate, ma anche sui ritorni di artisti o artigiani della musica che si trovarono – quasi sempre loro malgrado – a generare contaminazioni linguistiche ed espressive che mai avrebbero avuto ragione di esistere se non a quelle determinate condizioni e grazie all’incontro/scontro di mondi profondamente differenti tra loro.
Birds of passage è, inevitabilmente, anche la storia del processo di integrazione, in terra americana, di coloro che il viaggio di ritorno non lo fecero: integrazione musicale, ovviamente, che va di pari passo con quella sociale, linguistica, culturale, economica. Con riemersioni sempre meno frequenti degli stilemi espressivi d’origine, attraverso l’uso di un dialetto sempre più poroso e infiltrato, in cui parole e frasi in angloamericano si insinuano fino a dilatarsi progressivamente per sostituirlo quasi del tutto; in questo conflitto dialettico con la cultura-madre non si rinuncerà mai definitivamente al proprio orgoglio identitario, che ancora ai nostri giorni sussiste nei momenti comunitari importanti (come le feste religiose) così come nelle tradizioni culinarie e, ovviamente, musicali.
Simona Frasca organizza il proprio lavoro per nuclei tematici; dà spazio a figure di primo piano, protagoniste del mutamento, le cui storie si rivelano determinanti ai fini di una narrazione dettagliata; ma concede anche acute descrizioni dei contesti, tracciando strutture agili che contengono e scontornano il continuo evolversi delle dinamiche sociali, economiche, culturali, umane. Emerge così un quadro complesso, grazie al quale si comprendono le fasi che regolarono importazione, ri-nascita e sviluppo della canzone napoletana in Nordamerica; canzone che subirà, a sua volta, una americanizzazione ‘di ritorno’, sia nello stesso Nuovo Continente, sia presso la vecchia città di Partenope.
Il primo riferimento, quasi d’obbligo, è a Enrico Caruso, prima grande voce-mito della storia moderna, iconizzata grazie all’allora nascente industria discografica. Caruso incarna la figura dell’uccello migratore ideale che, attraverso il suo pendolarismo tra i due continenti, afferma in America l’immagine del compaesano di cui esser fieri, riportando in Europa tutta la modernità dell’immaginario americano cui la sua figura viene associata.
Lo sguardo dell’autrice si apre su un mondo sfaccettato: il suo racconto ci conduce nei negozi di spartiti, dischi e rulli per pianola, nei quali transitano le proposte canzonettistiche provenienti da Napoli o ideate in loco; e, ancora, ci fa entrare nelle piccole case discografiche di proprietà di emigrati che danno, con le loro produzioni autoctone, un indirizzo determinante alla lettura di questa storia; oppure evoca, con dovizia di particolari, le atmosfere dei teatri per emigranti, nei quali il pubblico non è certo quello del Metropolitan dove si esibisce Caruso.
Come zoomate in sequenza, l’attenzione si sposta ora sulle quasi duecento emittenti radiofoniche, ora sul vaudeville etnico rappresentato da Farfariello o da Giuseppe De Laurentiis; e ancora su giornali italoamericani come La follia di New York, così come sull’universo femminile abitato da protagoniste straordinarie (da Mimì Aguglia a Gilda Mignonette a Teresa De Matienzo); sul mondo degli autori, da quelli ancorati al passato e alle tradizioni (come E.A. Mario) a quelli (come Gaetano Lama) pronti ad accogliere con ardita esterofilia ritmi e modi che svecchiassero il tradizionalismo musicale imperante a Napoli; sui direttori d’orchestra; sugli interpreti vecchio stampo e su quelli che aderiscono alle culture musicali del Paese che li ospita. Su coloro che importano a Napoli i ballabili e lo swing e su coloro (Louis Prima ne fu rappresentante massimo) che sgretolano dall’interno l’impianto culturale d’origine e ne riciclano i relitti attraverso codici musicali ormai totalmente americanizzati.
Nella ricostruzione di Simona Frasca il processo di integrazione si compie, per forza di cose, con l’avvento della Seconda Guerra Mondiale; non a caso ella ne individua simbolicamente il termine ultimo ne ‘A canzone ‘e Pearl Harbor, del 1942. L’argomento affrontato nel volume con acume e intuizioni illuminanti, nella sua vastità e complessità, ha l’indiscusso merito di aprire nuovi orizzonti di studio e ricerca, suggerendo spunti per ulteriori approfondimenti e riflessioni su questi processi, che siano essi stati osmotici o eterodossi; le basi, grazie a questo libro, sono state gettate e se ne rende merito all’autrice.
Anita Pesce (Independent Scholar)