Il memoir di Kym Ragusa, La pelle che ci separa, verrà qui analizzato utilizzando le lenti delle teorie postcoloniali. Tracciare mappe è l’operazione principale per collocarsi in un luogo, definire una porzione di spazio che possiamo occupare per lanciare una serie di collegamenti con l’altrove. Ma quante mappe possiamo disegnare? Geografiche, certo, ma anche identitarie, somatiche, o ancora, cromosomiche. Sulla pelle di Kym, la protagonista di questo memoir, di origine afroamericana da parte di madre e con un padre italoamericano, si possono rintracciare i confini, le influenze, gli incontri e le lotte che storicamente hanno occupato le mappe storiche della nostra conoscenza. Un esempio su tutti è il suo naso: di profilo sembra il perfetto naso greco, ma di fronte è il tipico naso africano. Kym è e non è, il suo corpo è il luogo aporetico lungo il quale si snoda un cammino che dall’antica Grecia attraversa il Mediterraneo, per approdare oltre l’Oceano. La pelle di Kym e degli altri personaggi definisce il loro inconscio, rende visibile le debolezze che corrono tra di loro e spesso è anche quell’elemento che si vorrebbe rinnegare e da cui volersi liberare. La pelle è l’elemento di primaria importanza all’interno del memoir, al punto da ritrovarsi nel titolo, e attorno al quale ruota l’intera vicenda della protagonista, fino a segnarne il destino. Cosa rappresenta, quindi, la pelle e quanto è importante nella formazione dell’inconscio dell’uomo? Come incide essa sul rapporto madre-figlio che, a sua volta, segna irrimediabilmente la relazione dell’io con il mondo? Servendomi di alcune teorie psicoanalitiche relative alla pelle, prima fra tutte quella di Didier Anzieu, cercherò di mostrare come tutta la biografia dell’autrice possa confermare l’esistenza di una sorta di epistemologia epidermica, in cui la pelle svolge un ruolo di primo piano nella comprensione della propria storia.
Il percorso che Kym decide di compiere, tuttavia, ha come obiettivo quello di ricucire gli strappi e i buchi di una pelle troppo spesso inchiodata agli stereotipi e alle manipolazioni, per riscoprire la ricchezza presente nella diversità delle sue origini e del suo presente. Attraverso le sue antenate, percorre una strada che la porta di fronte al suo specchio, nella cui immagine riflessa va alla ricerca dei tratti somatici di chi l’ha generata, proveniente da Africa ed Europa, una sorta di mappa somatica che riflette la mappa geografica dei loro spostamenti:
crescendo, il mio stesso corpo diventò un mistero per me, e per molti versi lo è ancora. La mia pelle è di un colore fulvo, con sfumature giallo-olivastre. Sono quasi sempre pallida, anche se con il freddo le guance, le orecchie e la punta del naso diventano di un rosso acceso. La pelle delle ginocchia e dei gomiti è secca e color della cenere, come quella della maggior parte delle ragazze nere di Harlem che conosco. Vista di fronte ho il naso largo, ma di profilo è lungo e appuntito. Miriam provava una sorta di orgoglio per il mio naso, lo chiamava “il mio naso greco”. Ho gli angoli degli occhi rivolti all’insù, gli zigomi larghi, la mascella e il profilo del mento appuntiti, ho un volto tutto linee e angoli, non ho mai avuto il minimo accenno di rotondità infantile, nemmeno un po’ di morbidezza. […] I miei capelli non sono una cosa «buona», anche se il mio naso è «fine», […] Miriam e mia madre lottavano per tenere in ordine i miei capelli, per addomesticarne la riottosità trattenendoli in piccoli codini. Miriam se la prendeva con mio padre, che ha i capelli altrettanto ricci, altrettanto fitti; era lui che mi aveva rovinato passandomi quella tara ereditaria: dannati siciliani, loro e il loro sangue africano (Ragusa, 2004, pp. 57-58).
Come ha notato Caterina Romeo, in questa descrizione della fisicità di Kym appaiono tratti somatici completamente contraddittori tra loro, attribuibili ai diversi ceppi da cui deriva la genealogia della protagonista. Eppure, alcuni di questi tratti sottolineano la distanza tra lei e la sua famiglia «allargata: «non mi sono mai abituata agli occhi della mia famiglia, in quel turchino non vedevo il riflesso della loro intrinseca bontà, quanto piuttosto la differenza che c’era tra noi, la distanza che ci separava» (p. 139). Allo stesso tempo, questa presenza così mista e ingarbugliata crea un senso di vertigine e spaesamento, che deriva dal rifiuto di catalogare queste differenze, per suggerirne, invece, un «continuo riposizionamento» (Romeo, 2008, pp. 255-56). Questa tattica le consente, invece, di rivendicare la molteplicità delle sue origini, al di là della semplice definizione birazziale che la definisce come scrittrice afroamericana. In lei, infatti è molto forte il polo italiano, eredità del padre siciliano proveniente da una famiglia emigrata in America. Dalle prime pagine, infatti, la Sicilia è presentata come «il crocevia tra Europa e Africa», comune a entrambe le storie della sua famiglia. Ed è verso la Sicilia che la protagonista compie il suo viaggio a ritroso, alla scoperta della sua storia, in quell’isola in cui oggi si raggruma l’incontro tra orientali ed europei, dove sonnecchiano vecchi fantasmi di dominazioni e schiavitù, sopiti in quel politically correct che domina la falsa informazione e che cerca di camuffare la paura ancestrale del bianco nei confronti del nero. È dalla Sicilia che l’autrice ripesca, tra le reliquie della cultura classica greca, il mito di Persefone, donna che, strappata a sua madre Demetra, fa la spola tra due mondi. La figura di Persefone è presente in molte autrici italoamericane, come scrive Edvige Giunta nel saggio Persephone’s Daughters, perché il suo mito «attraverso la figura di una giovane viaggiatrice, offre la storia di una vita tra due diverse culture, lingue e identità. La storia di Persefone offre un ponte» (Giunta, 2004, p. 769, tda), è la strada per riscoprire un passato culturale antico spesso ignorato dai primi emigrati italiani. I teorici postcoloniali avrebbero definito Persefone una donna in-betwiness ante litteram, poiché è l’esempio della condizione del vivere al margine di due mondi e di due identità. Nel caso di Kym, il viaggio si moltiplica, perché sono due le realtà domestiche originarie a cui ritornare: Africa e Italia, che si condensano nell’affollata America dei sogni proibiti, nei due ghetti di Harlem, in cui africani e italiani, in lotta tra loro, risultano essere molto vicini, tanto che lo spirito siciliano della protagonista ha sfumature spesso condivise con il suo spirito africano. Se nella metafora, quindi, l’autrice è una novella Persefone, il suo viaggio di ritorno a casa dalla madre Demetra si realizza nel viaggio in Sicilia, che potremmo definire, impropriamente, la «Demetra italiana», che ha ospitato il passaggio del popolo africano.
Il passato di schiavitù scorre tra le righe del memoir, specie nella figura della nonna Miriam (discendente di una schiava africana, Sybela), la quale, cresciuta in contesto pienamente americano, aveva introiettato gli insegnamenti della civiltà occidentale, per cui «i padroni bianchi avevano salvato gli schiavi africani da una condizione selvaggia e dalla dannazione eterna, mettendogli graziosamente a disposizione la loro grande civiltà» (p. 111). Eppure, nonostante non le sia stata offerta alcuna conoscenza dell’Africa per favorire una completa integrazione nel tessuto sociale americano, e sebbene lei accusi i neri della violenza all’interno del quartiere, si rifiuta di prestare il Giuramento di Fedeltà alla bandiera americana, dopo aver letto del linciaggio dei neri nel Sud. Come leggere questo mancato giuramento? Forse proprio come una presa di coscienza, uno scatto postcoloniale che pone davanti agli occhi della donna la verità della storia del suo popolo, la conferma di una narrazione falsata dalla storiografia ufficiale, che continua ad imporsi nelle sue smanie imperialiste e nell’adorazione della pelle bianca.
Analizzando il modo in cui si delinea il rapporto tra madre e figlia all’interno del memoir, ci serviamo delle teorie di Didier Anzieu, il quale all’interno del processo di formazione dell’inconscio inserisce, accanto all’Es, Io e Super-Io, un nuovo elemento, l’Io-pelle, che risulta fortemente determinato dal rapporto tra la madre e il bambino e che si rivelerà decisivo nella formazione complessiva dell’Io. Questo è «una rappresentazione di cui si serve l’Io del bambino, durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentarsi se stesso come Io che contiene i contenuti psichici, a partire dalla propria esperienza della superficie del corpo» (Anzieu, 1987).
Anzieu inizia col definire la pelle come un involucro che protegge l’attività psichica interna, oltre a svolgere altre due funzioni:
La pelle, prima funzione, è il sacco che contiene e trattiene all’interno il buono ed il pieno che l’allattamento, le cure, il bagno di parole vi hanno accumulato. La pelle, seconda funzione, è la superficie di separazione che segna il limite con il fuori e lo mantiene all’esterno, è la barriera che protegge dalla penetrazione delle avidità e delle aggressioni altrui, esseri od oggetti (p.56).
All’interno del memoir si può leggere un’affinità con questa idea con ciò che dice la protagonista, anche se nel suo caso la pelle svolge una funzione rovesciata: «L’armatura era come una pelle che ti proteggeva dal male. Non poteva essere penetrata, ti impediva di essere riconosciuta, giudicata. La mia pelle, invece, mi procurava soltanto dei problemi, era sempre troppo chiara o troppo scura, sempre fonte di preoccupazione» (p. 112).
Continua Anzieu con la terza funzione:
La pelle, infine, terza funzione, è contemporaneamente alla bocca, o almeno quanto essa, un luogo e un mezzo di comunicazione primario con gli altri, con cui stabilire relazioni significative; essa è, in più, una superficie d’iscrizione delle tracce lasciate da queste. Da tale origine epidermica e propriocettiva, l’Io eredita la doppia possibilità di stabilire delle barriere (che diventano meccanismi psichici di difesa) e di filtrare gli scambi (con l’Es, il Super-Io e il mondo esterno). Secondo me, è la pulsione di attaccamento, se soddisfatta rapidamente e sufficientemente, a fornire al lattante la base su cui si può manifestare ciò che Luquet ha chiamato lo slancio integrativo dell’Io (p. 56).
Se per la formazione di questo nuovo elemento inconscio è fondamentale la relazione madre-bambino, nel memoir si avverte come la relazione delle madri con le loro figlie sia più distaccata rispetto a quello che la teoria psicanalitica vorrebbe: già dalle generazioni precedenti a quella della protagonista, «tutte avevano avuto una figlia quando erano ancora molto giovani, tutte lottavano per avere una vita propria del tutto indipendente dal loro essere madri, mentre le figlie rimanevano a guardare a distanza. Intanto si tramandavano da una all’altra un’eredità di bellezza e invidia, di forti passioni e sogni infranti» (p. 66). Ciò che contribuisce a incrinare questo rapporto è segnalato dal continuo indugiare sul colore della pelle, che, a causa di matrimoni misti tra le diverse razze del melting pot americano, andava da sfumature chiare ad altre assai più scure. Le donne nere in America ostentavano orgoglio riguardo la loro pelle, ma, allo stesso tempo, quelle donne che nascevano con gradazioni di colore più chiare, al punto da venir scambiate per donne bianche, suscitavano un sottile sentimento di invidia. La voglia di passare per donne bianche e godere dei privilegi che questo colore comportava, specie se paragonato al nero, era così seducente che si diffuse la pratica del cosiddetto passing, «insieme un terribile esilio e una profonda vergogna» (p. 69): ovvero, gente nera che si impegnava per apparire bianca. Franz Fanon (1996) ha analizzato il rapporto tra uomo bianco e nero all’interno del colonialismo, teorizzando il ruolo giocato dal desiderio dell’uomo nero di essere bianco. Questa teoria può porsi alla base del passing, e si può considerare anche un esempio di ciò che Homi Bhabha ha definito come mimicry (Bhabha, 1991; Mellino, 2005), ovvero, imitazione: con questo termine si intende la pratica per cui i nativi, influenzati dai discorsi coloniali, sono portati a imitare i comportamenti e gli atteggiamenti dei colonizzatori, attraverso pratiche sincretiche che danno luogo a una sorta di parodia, o di «brutta copia» dell’originale. Secondo Fanon, per l’uomo nero l’Altro bianco è tutto ciò che è desiderabile, e il desiderio, a sua volta, è inserito in un sistema di potere in cui l’uomo bianco non è solo l’Altro, ma anche il padrone. A differenza dell’atteggiamento del bianco che svuota e «cosifica» l’Altro nero, il nero afferma e definisce l’Altro bianco. Nel memoir, la madre di Kym, cercando un lavoro come modella, capisce che il mondo dei bianchi in cui si ritrova a vivere «voleva corpi neri, corpi che venivano usati per servire, intrattenere o dare piacere. Che posto potevano avere le idee di mia madre, la sua curiosità? Che posto poteva esserci per la genialità di una donna nera?» (p. 102). Questo è solo un esempio del processo di cosificazione di cui parla Fanon, che si manifesta sotto altri aspetti, per cui il soggetto nero, in questo caso la donna, viene rinchiuso entro specifici ruoli – dare piacere e intrattenere – già determinati dal maschio bianco colonizzatore: una donna bella, nera, può aspirare al massimo a essere la copia nera di Marilyn Monroe. Cos’è questo se non il perpetuarsi del mito della Venere Nera tanto diffuso nel colonialismo italiano, e non solo, del Novecento? È curioso come uno dei deliri dei pazienti di Fanon fosse quello di essere «senza colore»: in questo modo egli sperava che assumendo su di sé una maschera bianca avrebbe potuto nascondere il suo essere nero. Ma è un processo precario, e quindi la pelle nera e la maschera bianca rappresentano perfettamente la miserabile schizofrenia dell’identità coloniale.
Il senso di solitudine e di esclusione che si generava tra le donne dal diverso colore della pelle all’interno di una stessa famiglia trapiantata in America si può considerare come controprova e conferma di una colpa mai confessata: l’invidia verso una madre, o una figlia, o una nipote, causa del distacco e della mancata creazione di un inconscio organico e compiuto nell’io all’interno delle generazioni successive. Questa invidia assume i tratti di una cicatrice, che rimane nel testo e, ancor più, nella pelle delle donne, di un’intera storia passata di schiavitù e colonialismo: «due migrazioni: una forzata, l’altra volontaria, se così si può dire. Alle spalle due patrie lontane. Porto dentro di me l’incontro di due stirpi» (p. 112-113). Lo stesso rifiuto che Kym avverte verso la sua pelle testimonia di una rottura nella formazione della sua identità. Invece, in Anzieu si legge che:
l’infans acquisisce la percezione della pelle come superficie in occasione delle esperienze di contatto del proprio corpo con quello della madre e nel quadro di una relazione rassicurante di attaccamento a lei. In tal modo giunge non solo alla nozione di un limite tra l’esterno e l’interno, ma anche […] ad un sentimento di base che gli garantisca l’integrità del proprio involucro corporeo (p. 54).
In questo rapporto sembra proprio che il bambino riesca a interagire esclusivamente attraverso la pelle materna, della quale recepisce i gesti di cure e attenzioni dapprima come mere azioni, poi come messaggi, che sono preliminari alla comunicazione verbale. All’inizio si crea il fantasma di una pelle comune tra la madre e il bambino, che produce una comunicazione diretta, senza mediatori tra i due componenti della coppia diadica, che si ritrovano a vivere una relazione simbiotica ed esclusiva. È dunque necessario, spiega Anzieu, compiere un passo equilibrato, attraverso un distaccamento che genera dolore e sofferenza, indirizzato al riconoscimento di due entità differenti, di una propria pelle e di un proprio Io. Laddove questo processo si inceppa, ecco che emergono i fantasmi di una pelle rubata, assassinata, strappata (Ibid., p. 61), o, possiamo aggiungere noi, totalmente rifiutata. Infatti, nel momento in cui si manifesta un conflitto psichico, questo è spiegabile, ritiene Anzieu, non solo sul piano edipico, ma anche attraverso l’analisi «dell’interazione dialettica tra scorza e nucleo» all’interno dell’apparato psichico. Questa scissione si ritrova nelle parole della protagonista, la quale confessa in diverse parti del racconto:
ricordo poi che volevo la pelle rosa e i capelli biondi. Non erano forse tutte così le ballerine? E se volevo diventare una ballerina, da grande avrei dovuto avere anch’io la pelle rosa e i capelli biondi. […] devo essere stata convinta che sarei diventata bianca crescendo, come quando ti ricrescono i denti nuovi (p. 35).
Avevo quella sensazione del tutto familiare di volermi arrampicare fuori dalla mia pelle, di voler essere invisibile. La mia pelle: chiara o scura, a seconda di chi la guarda. Che cosa sei? Mi ha sempre chiesto la gente fin da quando ricordo (p. 19).
Silenziosi, coperti di ferro dalla testa ai piedi, sembravano invulnerabili. Volevo essere forte come loro «i cavalieri», sicura, intoccabile. L’armatura era come una pelle che ti proteggeva dal male. Non poteva essere penetrata. Ti impediva di essere riconosciuta, giudicata. La mia pelle, invece, mi procurava soltanto problemi, era sempre troppo chiara o troppo scura, sempre fonte di preoccupazione. […] Decisi che mi sarei costruita una pelle simile a un’armatura, solo che la mia armatura sarebbe rimasta all’interno, nascosta (pp. 112-113).
Se nella famiglia africana la complessità dei rapporti madre-figlia era conseguenza di un passato coloniale di soprusi e razzismo, dal ramo italiano le violenze che si perpetuano nella famiglia si possono vedere invece come cicatrice di un altro trauma: l’emigrazione dall’Italia, frutto di una politica che possiamo definire coloniale e interna alla penisola dopo l’Unità d’Italia.
Nella famiglia italiana il primo a emigrare fu il padre di Luisa, la bisnonna di Kym, il quale, dopo i primi anni, fece arrivare in America anche la moglie e i figli. È interessante il collegamento che l’autrice stessa compie descrivendo il mare che i due gruppi etnici diversi hanno solcato, con motivazioni e finalità diverse:
Attraversarono l’Atlantico su una nave di emigranti con centinaia di altre persone che venivano da diverse regioni d’Italia, tutti ammassati insieme in terza classe. Attraversarono quelle stesse acque che un secolo prima erano state solcate da milioni di africani, incatenati gli uni agli altri nello scafo delle navi negriere, e tra questi i miei antenati materni (p. 144).
È come se il trauma del viaggio avesse segnato irrimediabilmente la storia di coloro che l’hanno vissuta, poiché sia il padre di Gilda, sia il marito, anche lui emigrante del Sud Italia, non riescono a integrarsi nella nuova società americana e, quando non lavorano, si rifugiano nell’alcol. A sua volta, l’alcolismo nasconde le violenze che gli uomini riservavano alle loro mogli, scollando inevitabilmente la loro storia di perdita e distacco dalla nuova possibilità di integrazione e rinascita nella comunità americana. Ciò può essere esemplificato dal rapporto che il nonno Luigi (marito di Gilda) aveva con il padre di Kym:
quando ero piccola, lui e Luigi parlavano a stento e quando lo facevano era come se fossero stati sulle sponde opposte di un oceano. Luigi si rivolgeva a mio padre in calabrese, le sue parole sembravano sempre rabbiose e accusatorie. Mio padre gli rispondeva in inglese, con quei monosillabi privi di sensibilità che sembrano concepibili solo in quella lingua (p. 146).
Di nuovo, le strade percorse sulla mappa si allontano, attraversano un oceano e si riflettono nei percorsi interni alla famiglia, creando frontiere e posti di blocco che ostacolano la crescita e l’unità familiare. Luigi, emigrato di prima generazione, e il padre di Kym, di seconda generazione, non riescono a comunicare, perché non hanno niente da dirsi ma solo molto su cui litigare, parlano due lingue diverse e appartengono a due mondi diversi e distanti.
Quello che Kym Ragusa vuole fare, scrivendo questo memoir, è proprio cercare di riavvicinare America ed Europa, cercare di resuscitare il «cadavere» (termine che lei stessa utilizza) di questi passati dimenticati, per «rimettere la carne sulle ossa» (p. 95). La consapevolezza alla quale giunge la scrittrice è riportata in realtà all’inizio del memoir, prima di iniziare il racconto attraverso flashback della storia della sua famiglia:
la pelle di Gilda […], quella di Miriam […], la mia […]. Tre gradazioni di avorio, giallo e olivastro si rifrangono dall’una all’altra come in un caleidoscopio. La pelle che ci separa, che ci protegge contro il dolore che ci infliggiamo a vicenda. La pelle che ci separa: membrana, velo, specchio. Una pelle condivisa. […] Siamo strette, tenute insieme da un tavolo da cucina, e tutto ha un senso (p. 25).
Dopo una vita di scontri e rancori sopiti, alla fine le due nonne si riscoprono più vicine e simili, unite nell’amore per la loro nipote. Nella foto che Kym tiene in mano viene svelato il raggiungimento dell’obiettivo: riconoscersi, nonostante le loro differenze, per cui quella pelle che all’inizio era motivo di separazione e divisione ora diventa una pelle condivisa, attraverso la quale si inaugura un processo epistemologico che porta a comprendere e a comprendersi tramite il contatto e il riconoscimento epidermico che confermano l’appartenenza a una stessa comunità.
Bibliografia
Anzieu, D., L’Io-Pelle, Borla, Roma, 1987.
Ragusa, K., La pelle che ci separa, Roma, Nutrimenti, 2008.
Romeo, C., Una capacità quasi acrobatica, in K. Ragusa, La pelle che ci separa
Giunta, E., Persephone’s Daughters, «Women’s Studies», 33, 6, pp. 255-56
Fanon, F., Pelle nera, maschere bianche, Milano, M. Tropea, 1996
Bhabha, H.K., I luoghi della cultura, Roma, Meltemi,1991
Mellino, M., La critica postcoloniale. Decolonizzazione, capitalismo e cosmopolitismo nei postcolonial studies, Roma, Meltemi, 2005.