L’analisi della cultura materiale si è fatta strada da tempo nei migration studies [cfr., per esempio, Paul Basu e Simon Coleman (a cura di), «Migrant Words, Material Culture», Mobilities, iii, 3, 2008, pp. 313-413]. Le sue sollecitazioni hanno influenzato anche la storiografia sugli italo-americani perché il senso dell’appartenenza etnica dei membri di questa minoranza nazionale, come ha messo in risalto una recente collettanea curata da Simone Cinotto (Making Italian America, New York, Fordham University Press, 2014), viene espresso pure attraverso la definizione di una «comunità del gusto» nella quale il tessuto connettivo è rappresentato proprio dall’Italian style. Quest’ultimo costituirebbe il principale fondamento dell’ancor più ampia collettività degli «italici» che, secondo la definizione di Piero Bassetti, a prescindere dalla loro ascendenza, sarebbero accomunati dall’apprezzamento per una civiltà e il suo relativo sistema di valori che trovano manifestazioni tangibili nel design italiano e nel made in Italy.
Il crescente interesse per tali settori della ricerca è stato la cornice del nono convegno annuale del John D. Calandra Italian American Institute, che ha avuto come tematica gli oggetti nelle migrazioni italiane. Nella prolusione dell’assise, ricorrendo ai modelli paradigmatici degli allestimenti museali e dell’erezione dei monumenti dedicati alla presenza italiana negli Stati Uniti, Joseph Sciorra ha mostrato come la cultura materiale rifletta l’identità etnica degli immigrati e dei loro discendenti e si configuri quale costruzione ideologica che spesso diviene un terreno di scontro tra concezioni diverse, se non addirittura contrastanti, dell’italianità. In questo contesto, tra gli italo-americani, i concetti di «cafoneria» e «brutta figura» risulterebbero non solo il discrimine per stigmatizzare ciò che è proposto come «italiano» senza esserlo realmente, ma anche la mutevole linea di demarcazione tra una cultura etnica «alta» e una «bassa».
Un caso particolare delle considerazioni generali di Sciorra è emerso dalla relazione di Melissa E. Marinaro sul rilevanza della collezione di manufatti del John Heinz History Center di Pittsburgh per illustrare la storia dell’immigrazione italiana nella Pennsylvania occidentale. Su un terreno analogo si è mossa Mary Elizabeth Brown, che ha presentato una campionatura dell’oggettistica (dalle coccarde delle società di mutuo soccorso alle fotografie) posseduta dal Center for Migration Research di Staten Island.
Altri interventi si sono incentrati su ulteriori aspetti specifici. Lina Insana ha ricostruito l’accesso degli italo-americani di Pittsburgh al consumismo di massa negli anni dieci del Novecento attraverso uno studio dei messaggi pubblicitari che i grandi magazzini Kaufmann’s fecero pubblicare sul settimanale locale in lingua italiana La Trinacria. Anthony D. Mitzel ha delineato la costruzione dell’identità italiana a Youngstown, Ohio, attraverso la produzione di t-shirt di carattere etnico. Margaret Hills De Zárate si è occupata della funzione degli oggetti quali mediatori di identità etnica nel loro passaggio di mano da una generazione alla successiva nel caso di alcune comunità italo-argentine.
Un’attenzione particolare è stata rivolta all’architettura urbana nelle sue molteplici accezioni. Anna Marijke Weber ha tracciato un quadro della diffusione delle gelaterie aperte in Germania dagli immigrati provenienti dalla Val di Zoldo a partire dalla fine degli anni cinquanta del Novecento. Jacqueline Maggio-May ha studiato lo sviluppo architettonico del Mazzaro Italian Market a St. Petersburg, Florida, come forma di monumentalità etnica per attrarre acquirenti di prodotti tipici italiani anche tra i consumatori con altre ascendenze nazionali. Jerome Krase ha esaminato la trasformazione del paesaggio urbano delle Little Italies dopo l’allontanamento dei residenti di ascendenza italiana. Hillary Linsday si è soffermata sulla presenza degli alberi di fico nei giardini degli italo-americani di Brooklyn quale forma di identità transnazionale per il loro richiamo all’Italia. Approfondendo la dimensione della sfera domestica, Simona Palladino ha analizzato le differenti declinazioni del senso dell’appartenenza degli immigrati italiani a Newcastle upon Tyne, nel Regno Unito, sulla base delle suppellettili delle loro abitazioni. Daniela Cosmini-Rose e Diana Glenn hanno attinto alla medesima fonte per confrontare l’identità degli immigrati italiani e di quelli greci giunti in South Australia negli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
Infine, alcune relazioni hanno interpretato la tematica del convegno in senso lato. In questo ambito, sulle orme di George E. Pozzetta [«Immigrants and Craft», in Betty Boyd Caroli, Robert F. Harney e Lydio F. Tomasi (a cura di), The Italian Immigrant Woman in North America, Toronto, Multicultural History Society of Ontario, 1978, pp. 138-53], Rose Marie Cutropia ha ripercorso le vicende della Scuola d’Industrie Italiane, specializzata nella produzione artigianale di merletti d’ispirazione rinascimentale, che operò a New York tra il 1905 e il 1927 per dare un senso di dignità professionale e un’indipendenza economica alle immigrate italiane. Christine Zinni ha esaminato il ricamo di paramenti sacri da parte delle fedeli italo-americane della chiesa di St. Anthony a Batavia, nello Stato di New York, nella duplice prospettiva della pratica devozionale e dell’attività di servizio per la parrocchia. Nancy Caronia ha tracciato la rappresentazione degli immigrati siciliani come criminali nei romanzi gialli popolari tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Ron Scapp si è occupato della riduzione della cultura italiana a prodotti di consumo da esportazione da parte della catena di rivendite di generi alimentari Eataly dell’imprenditore Oscar Farinetti.