In un saggio pubblicato intorno alla metà degli anni novanta – destinato ad avere ampia circolazione tra gli studiosi – l’antropologa americana Liisa Malkki rilevava la troppo scarsa presenza degli storici nell’ambito dei refugees studies e affermava che il concentrarsi della ricerca sul tempo presente aveva coinciso con il prevalere di una lettura del fenomeno dei rifugiati in larga misura riconducibile alla questione dell’emergenza umanitaria, intesa come mera erogazione dell’assistenza («Speechless Emissaries: Refugees, Humanitarianism, and Dehistoricization», Cultural Anthropology, xi, 3, 1996, pp. 377-404). Il fenomeno dei profughi sarebbe dunque stato oggetto di un processo di «destoricizzazione», ovvero si sarebbe verificata una perdita di coscienza collettiva delle più profonde ragioni politiche, sociali e culturali del problema. Sono passati vent’anni dalla formulazione di queste considerazioni, e certo oggi Liisa Malkki non si esprimerebbe più in questi termini. Negli ultimi anni le ricerche storiche sul tema dei profughi si sono moltiplicate, da un lato dialogando utilmente con le proposte interpretative emerse dall’insieme dei refugee studies, dall’altro riportando la questione delle migrazioni forzate nel quadro dei grandi problemi discussi dalla storiografia. Il volume di Patrizia Audenino si inserisce efficacemente in questo nuovo filone storiografica.
La casa perduta si distingue in primo luogo per la sua originale struttura. L’autrice, infatti, analizza in chiave comparativa quattro diversi gruppi di profughi, le cui storie sono lontane nel tempo e nello spazio pur presentando elementi comuni, che rendono possibile la loro lettura attraverso una medesima cornice interpretativa. I casi presentati riguardano gli Svevi del Danubio – «piccola frazione» di Volksdeutsche, ovvero dei circa 12 milioni di persone di nazionalità tedesca che dopo la fine della guerra furono espulsi dall’Europa centro-orientale – i profughi giuliano-dalmati, gli italiani espulsi dalla Libia e dalla Tunisia, i Pieds-Noirs rientrati in patria dopo la fine delle colonie francesi. I grandi eventi da cui hanno origine gli spostamenti di popolazione al centro del volume sono dunque rappresentati dalla ridefinizione dei confini successiva alla conclusione del secondo conflitto mondiale e dal processo di decolonizzazione. Tuttavia le vicende ricostruite da Audenino si estendono su un arco di tempo molto più lungo, perché le ragioni e le modalità della fuga sono ricollegate da un lato al lungo corso dei processi di migrazione e colonizzazione sul continente europeo o nei territori degli imperi, dall’altro alla difficile rielaborazione dell’esperienza dei profughi sul piano della memoria collettiva. Ne La casa perduta le storie della popolazione profuga acquistano così spessore e complessità, e dimostrano di poter essere un’efficace chiave di lettura della storia del Novecento.
Le memorie costituiscono l’asse lungo il quale si sviluppa larga parte del volume, che utilizza la letteratura esistente sui diversi casi affrontati e la memorialistica attraverso la quale i profughi stessi hanno pubblicamente rielaborato la loro esperienza. Uno dei nodi centrali dell’analisi è proprio rappresentato dal rapporto controverso fra la memoria pubblica e i ricordi privati, che hanno preso forma lungo traiettorie distinte eppure fortemente intrecciate. Le vicende dei profughi erano infatti connesse a capitoli delle storie nazionali italiana, francese e tedesca che risultavano imbarazzanti per le nuove democrazie nate nel dopoguerra. Da qui, come spiega efficacemente Audenino, le rimozioni e le manipolazioni che hanno segnato le memorie pubbliche dei diversi paesi. Le storie dei Pieds-Noirs caddero nello stesso cono d’ombra riservato in Francia alla fine dell’impero coloniale e in particolare alla guerra d’Algeria, mentre nella Repubblica federale tedesca le prime aperture delle autorità verso il riconoscimento della condizione dei Volksdeutsche vennero presto abbandonate, nell’intento, soprattutto, di favorire l’integrazione dei profughi in una società che puntava alla rapida «normalizzazione» e prendeva le distanze dall’esperienza della guerra. In Italia l’oblio toccò in sorte tanto ai giuliano-dalmati quanto ai profughi dalle colonie, con modalità che solo recentemente la storiografia ha portato alla luce. I ricordi di uomini e donne che avevano vissuto la tragedia della fuga e del difficile reinsediamento, tra connazionali che li percepivano come diversi o addirittura nemici, presero forma anche a partire dalla frustrazione per il mancato riconoscimento pubblico del proprio passato, mantenendo intatto nel tempo il carico di sofferenza e di dolore. Il dialogo tra le diverse memorie ancora oggi non è semplice, né può avere luogo senza una maggiore consapevolezza intorno alle complesse vicende dei profughi e alle modalità in cui sono state ricordate. Il volume di Patrizia Audenino senza dubbio offre un utile contributo in questa direzione.
Silvia Salvatici