Rassegna Convegni
Italians Without Borders: Transnational Italian (American) Experience
Italian American Studies Association, University of Toronto, Toronto,
17-19 ottobre 2014
Il transnazionalismo è stata la tematica unificatrice del xlvii convegno annuale dell’Italian American Studies Association. Però, più che esaminare questo fenomeno in rapporto all’esperienza migratoria italiana, con speciale riferimento ai flussi diretti in America Settentrionale, numerosi interventi hanno utilizzato tale manifestazione come una cornice generale all’interno della quale hanno collocato le loro ricerche specifiche.
Rispetto alle assise degli anni precedenti, generalmente incentrate sulla presenza italiana negli Stati Uniti, la sede del convegno ha incentivato l’apertura della prospettiva d’indagine anche alla sfera canadese. L’allargamento degli orizzonti è emerso a partire dal keynote address di Bruno Ramirez che – sostenendo come i migranti italiani avessero condotto esistenze transnazionali in una dimensione atlantica già nella seconda metà dell’Ottocento, quindi, già molto tempo prima che questa espressione fosse coniata – ha sviluppato una comparazione tra il quadro canadese e quello statunitense, evidenziando la maggiore incidenza di questo fenomeno nel primo caso, in ragione della debolezza del tessuto connettivo della nazione e della migrazione di massa più recente. In altri interventi di ambito canadese, Ruth A. Rappini ha presentato un caso particolare di immigrazione nel secondo dopoguerra, basato sull’esperienza del padre, trasferitosi nel Paese nordamericano nel 1951. Invece, Stefano Agnoletto ha delineato le attività degli immigrati italiani nell’edilizia abitativa a Toronto tra gli anni cinquanta e settanta del Novecento, sottolineando come questo settore dell’economia cittadina avesse rappresentato una nicchia che offrì loro opportunità di impiego nonché di inserimento e ascesa sociale attraverso la formazione di numerose imprese di costruzione di cui divennero titolari.
Non sono, comunque, mancate relazioni sugli Stati Uniti. Danielle Battisti ha esaminato l’uso della figura di Cristoforo Colombo da parte degli italoamericani nel dibattito sulla riforma della legislazione statunitense sull’immigrazione tra il 1952 e il 1965, in modo da attestare la legittimità della presenza italiana nella società d’adozione e rivendicare una liberalizzazione della concessione dei visti di ingresso a beneficio dei «discendenti» del navigatore genovese. Christine Zinni e Karen Canning hanno tracciato una storia delle celebrazioni della festività di San Giuseppe a Batavia ed Elba, due centri della contea di Genesee, nell’area occidentale dello Stato di New York, mettendo in luce la loro progressiva trasformazione da una tradizione privata e domestica a un evento pubblico e comunitario che ha finito per coinvolgere anche i residenti di ascendenza non italiana. Anthony Dion Mitzel ha considerato come i giovani italoamericani di Youngstown, in Ohio, vivano oggi la loro cultura etnica attraverso i media. Carl A. Antonucci e Kenneth DiMaggio hanno rievocato il viaggio compiuto in Sicilia nel 1951 dal sindaco di New York Vincent Impellitteri, nella veste informale di portavoce di Washington, collocandolo nel contesto dei tentativi per contenere la diffusione del comunismo tra gli abitanti dell’isola. Charles J. Scalise ha analizzato il tentativo di alcuni pastori protestanti di utilizzare gli inni religiosi non solo per articolare la fede degli immigrati convertiti alle denominazioni evangeliche, ma anche per migliorare la loro conoscenza della lingua inglese e, quindi, per facilitarne l’assimilazione nel periodo dei flussi di massa. Valentina Sgrò ha ripercorso le carriere di alcuni imprenditori italoamericani di successo, da Amedeo Obici ed Ettore Boiardi a Generoso Pope e Antonio Pasin, la cui affermazione non fu necessariamente legata ad attività e alla commercializzazione di prodotti che in qualche modo si richiamassero all’Italia. Circe Accurso Sturm ha presentato la storia di alcune comparse del film La terra trema di Luchino Visconti (1948), immigrate a Galveston, in Texas, e l’impressione che ebbero dell’opera cinematografica quando la videro per la prima volta ad anni di distanza dal loro trasferimento. Infine, Vincenzo Milione ha esposto i risultati di un’indagine quantitativa sugli insegnanti di ascendenza italiana negli Stati di New York, New Jersey e Connecticut che attesta la loro crescita numerica negli organici delle scuole e, quindi, il loro contributo al sistema dell’istruzione.
Nell’unica relazione di ambito sudamericano, Pedro M. Carneselle ha affrontato i rapporti della comunità italiana dell’Uruguay con la terra d’origine, tra la metà degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta, con particolare attenzione per il ruolo svolto dalla propaganda del regime fascista nel potenziare il transnazionalismo degli immigrati.
Alcuni interventi si sono occupati delle fonti per lo studio delle migrazioni italiane. Per esempio, Melissa E. Marinaro ha illustrato la collezione di storia orale dello Heinz History Center di Pittsburgh, una raccolta di interviste fondamentale per ricostruire la presenza italoamericana nella Pennsylvania occidentale, non solo negli anni dei flussi di massa ma anche nel periodo della Seconda guerra mondiale. Un panel è stato dedicato alla presentazione di una recente collettanea sulla scrittrice e saggista Louise DeSalvo (Personal Effects, a cura di Nancy Caronia ed Edvige Giunta, New York, Fordham University Press, 2014); un altro è stato riservato a The Italian Americans, un documentario di John Maggio per la rete Public Broadcasting Service, da taluni considerato – con un’analogia un po’ forzata – il corrispondente per la storia degli italoamericani di quella che è stata la serie televisiva Eyes on the Prize (1987) per diffondere la conoscenza dell’esperienza afroamericana.
In una delle sessioni più interessanti e stimolanti Renato Camurri, Mattia Acetoso e Giuseppe Gazzola hanno affrontato l’esilio degli intellettuali antifascisti italiani negli Stati Uniti, con particolare attenzione per le vicende di Renato Poggioli e Giuseppe A. Borgese, esaminando la loro influenza sulla cultura accademica americana e collocandoli in una prospettiva comparata con il caso degli ebrei tedeschi e degli esuli francesi. Questo panel ha offerto anche spunti di riflessione sui paradigmi interpretativi, segnalando per esempio la necessità di operare una distinzione tra fuoriuscitismo ed esilio. Come tale, però, è stato uno dei pochi workshop che, insieme all’intervento di Ramirez, ha visto i relatori addentrarsi nel dibattito teorico. In particolare, quasi tutti i contributi del convegno hanno dato per scontata l’applicabilità del transnazionalismo all’esperienza migratoria italiana, a prescindere dal periodo storico considerato, anziché interrogarsi su eventuali gradi diversi della sua valenza euristica nelle differenti fasi della presenza italiana in America Settentrionale.
Il risultato di questa impostazione è stato quello di confermare implicitamente e a priori la validità di tale nozione come categoria interpretativa. È un approccio che dovrebbe far riflettere. Da un lato, infatti, attesta una certa acriticità da parte dei cultori degli Italian American studies nell’abbracciare uno dei paradigmi dominanti all’interno degli studi sulle migrazioni, quale è appunto il transnazionalismo, non solo nell’ambito della sociologia, che lo ha elaborato in riferimento ad altri gruppi etnici come le minoranze caraibiche e ispaniche, ma anche nel campo della storiografia e della critica letteraria. Dall’altro, sembra rivelare una qualche precarietà della condizione degli Italian American studies quale disciplina accademica. Tale sensazione di provvisorietà pare indurre il settore e i suoi praticanti a ricercare stabilità e legittimazione proprio attraverso l’adozione e l’accettazione di schemi di lettura invalsi in altre discipline già da tempo consolidate, senza porsi il problema dell’attendibilità di tali modelli per rappresentare l’esperienza storica e letteraria degli italoamericani.
Stefano Luconi