Come già viene indicato dal titolo, la ricerca di Ricatti intende concentrare l’attenzione sulla corporeità dei migranti, attraverso un approccio eclettico, sensibile ai risvolti filosofici a quelli della psicoanalisi e del femminismo e per fare questo la scelta adottata è di ascoltare e decifrare i messaggi di sofferenza lanciati dai più sofferenti e sfortunati, quelli che l’autore definisce come «abject». La convinzione che ha guidato tale scelta è che, dai casi estremi di emarginazione e dolore, sia possibile cogliere in modo più ricco e articolato la condizione di disagio sperimentata dai migranti italiani nel loro incontro con la società australiana. Attraverso questi casi infatti pare possibile intercettare meglio la generalizzata esperienza di subalternità condivisa anche dai meglio educati e meno poveri fra gli italiani. Anch’essi infatti furono destinatari di pratiche di discriminazione che oggi si tende a rimuovere dalla memoria, in omaggio al mito della felice integrazione dei nostri emigranti, grazie a una troppo enfatizzata attitudine «welcoming» dell’Australia del Novecento. La fonte principale con su cui è condotta tale operazione di ricerca è costituita dagli scritti prodotti dagli emigranti stessi, nella forma di lettere inviate alla rubrica intitolata Inchiostro simpatico, del giornale «La fiamma», pubblicato a Sydney per iniziativa di un religioso italiano dal 1947 al 1967, e altri scritti, sotto forma di memorie autobiografiche, inviati allo stesso giornale per la rubrica Il salotto di Lena. Le due raccolte sono analizzate per gli anni di maggiore successo e diffusione del giornale, fra il 1957 e il 1964 la prima e fra il 1957 e il 1961 la seconda. Anima delle due rubriche era una maestra italiana nata nel 1914, di origini bergamasche, Lena Gustin, fervente cattolica. Le lettere in particolare offrono l’opportunità di raggiungere il versante nascosto e dimenticato dalla retorica del successo e dell’integrazione degli italiani, quello dell’isolamento e dell’esclusione. Fra i numerosi riferimenti teorici e il riaffermato intento multidisciplinare, emergono per l’utilizzo delle lettere il rimando all’opera di Franzina, e a alle ricerche di Carlo Ginzburg per quanto riguarda la cultura degli illetterati. Nei dieci capitoli in cui si articola la ricerca attraverso queste lettere, e con una specifica attenzione a tutto quanto riguardi il corpo, degli uomini e delle donne, nelle sue sofferenze e nelle sue trasformazioni dovute all’età o alla malattia, viene indagata la condizione dei migranti e la sua rappresentazione mediata dalla parola scritta.
Particolarmente felice al riguardo, risulta l’operazione di indagine sul lavoro redazionale compiuto dalla Gustin per rendere pubblicabili le lettere ricevute. Il confronto, attuato fra le lettere reali, conservate nell’archivio, e quelle pubblicate, mette in luce alcuni aspetti rivelatori: le lettere sono state di regola riscritte e aggiustate non solo dal punto di vista grammaticale e sintattico, ma anche sulla base di quelli che la Gustin riteneva fossero i modelli letterari più utili ai suoi lettori. Il risultato è talora involontariamente esilarante, come avviene nei confronti di una lunga lettera di un emigrante meridionale semiletterato, che racconta un’odissea familiare, iniziata con l’emigrazione del padre in America, continuata con la sua partecipazione alla Seconda guerra mondiale, la prigionia in Africa, in India e in Gran Bretagna, fino alla successiva emigrazione in Svizzera e finalmente a quella in Australia. La tragica sequenza esistenziale viene da Gustin aperta da un incipit di sapore manzoniano: «Il mio paese natio resta nel cuore dell’Italia. Circondato dalla catena dei monti Aurunci, mentre da un lato si rimira una vallata…» (p.91). In altri casi era il riferimento troppo esplicito a parti del corpo o a fatti della sessualità, che veniva purgato e mascherato con opportuni interventi di riscrittura. Ma l’obiettivo degli interventi editoriali della responsabile della rubrica non era tanto e solo stilistico, adattando i testi a moduli che ella stessa aveva appreso nelle scuole del regno, e in quelle del fascismo, nel suo percorso formativo, ma soprattutto teso a trasmettere i valori e comportamenti anch’essi bagaglio di quella educazione ricevuta. A tale scopo, secondo i consueti metodi del giornalismo, non si esitava a inventare di sana pianta lettere inesistenti per offrire l’opportunità di affrontare argomenti che la redattrice riteneva utili e salvifici per i suoi lettori. I riferimenti della maestra bergamasca erano quelli della sacralità della famiglia e della indissolubilità del matrimonio, della castità prematrimoniale per le ragazze, dell’obbedienza dei figli nei confronti dei genitori, della sopportazione del dolore grazie al dono della fede, e della santificazione del ruolo materno. Quest’ultimo era enfatizzato dallo stesso pseudonimo scelto dalla titolare della rubrica: Mamma Lena, che attraverso il riferimento alla figura materna invocava su di sé l’autorità ma anche il ruolo di conforto e accoglienza rivestito dalla madre.
In tale ruolo materno, Gustin gestiva le accorate richieste di aiuto di donne maltrattate dai mariti, che invitava alla sopportazione anche quando questa appariva non più praticabile, e quelle di giovani mogli vittime di matrimoni arrangiati, le proxy brides, assediate dall’isolamento e dalla solitudine. Accoglieva le confessioni del sentimento di inferiorità che opprimeva le italiane, che paragonavano il proprio aspetto mediterraneo con quello delle australiane, così aderente ai nascenti canoni della bellezza novecentesca, già propagandati dai mass media. Anche altri aspetti legati alla corporeità furono trattati nelle lettere: quelli legati alla sessualità, e in particolare ai rapporti prematrimoniali, alle relazioni fra madri e figlie, alla preoccupazione delle madri per le trasformazioni del corpo delle figlie adolescenti e in qualche caso anche per fenomeni allora innominabili di transessualità, alla malattia e al rapporto con i medici e le istituzioni ospedaliere, reso difficile dal gap linguistico.
Certamente gran parte dei testi analizzati permette di raggiungere l’obiettivo perseguito da Ricatti, di mettere in discussione il racconto edulcorato di una immigrazione italiana in Australia esente da problemi, accolta con calore dagli australiani e coronata da un rapido e inevitabile processo integrazione, testimoniato da un certo numero di biografie di emigranti di successo. La discriminazione, l’isolamento e le difficoltà che hanno accompagnato gran parte dell’esperienza degli emigranti sono ben messi in luce da questa ricerca. Vanno segnalati tuttavia alcuni aspetti che possono suscitare qualche perplessità nel lettore: in talune circostanze l’autore sembra essere dominato dalla sua fonte, piuttosto che servirsene. Questo avviene per esempio per tutte le lettere riguardanti la sessualità, dove non è affatto chiaro dove stia la specificità della condizione migratoria, rispetto a quella che emerge da analoghe rubriche pubblicate su giornali femminili italiani della stessa epoca, e anch’esse dominate da preoccupazioni riguardanti la cosiddetta «prova d’amore», i peli superflui, le dimensioni del seno, le invidie delle amiche In secondo luogo, in uno dei capitoli conclusivi, a proposito del drammatico tema dello spaesamento, vale a dire della condizione di perenne estraneità e provvisorietà sperimentata dai migranti, l’autore incorre in un fraintendimento, già sperimentato dalla storiografia anglosassone, riguardo all’espressione italiana «Tutto il mondo è paese». Tale frase non si riferisce all’attitudine cosmopolita degli italiani. Essa è adoperata dagli italiani come sarcastico commento a ogni circostanza in cui, fuori dal loro paese, essi incontrano quei comportamenti di cui sono regolarmente accusati: familismo, opportunismo, interesse privato in atti pubblici, scarsa fedeltà fiscale. Di fronte a tali comportamenti, commentano gli italiani, ci si sente come a casa. Si tratta di una soddisfazione amara però, che nulla a che fare con il tentativo di ricostruire una patria attraverso il mantenimento dei legami transnazionali e la costruzione di comunità all’estero, finalizzati a ridurre la sofferenza psicologica della lontananza dal proprio paese.
Patrizia Audenino