La chiave di lettura del libro di Sonia Salsi va cercata nell’ultima pagina, immediatamente prima delle interviste, dove scrive: «In definitiva, spero con questo lavoro di rendere adeguatamente omaggio al paese di Lindeman, alla miniera di Zolder e agli uomini e alle donne che vi hanno trascorso la loro esistenza» (p. 122). In effetti, come la stessa autrice riconosce, non siamo davanti a una ricerca storica né a un saggio di sociologia e nemmeno, pare, a uno studio etno-antropologico nel senso classico del termine, sebbene l’approccio antropologico sia quello che Salsi sente più affine. I ricordi dei singoli, raccolti sotto forma di trascrizioni di interviste in appendice al testo, costituiscono la materia per la ricostruzione della memoria collettiva di una catena migratoria, partita dall’Italia centrale per lavorare nelle miniere di carbone nella regione belga del Limburgo.
La storia dell’area mineraria di Kempen viene ripercorsa a partire dalla scoperta delle vene di carbone, nei primi del Novecento, fino alla chiusura dell’ultima delle sette miniere, quella di Zolder, nel 1992, facendo intravvedere un intreccio di vicende storiche, innovazione tecnologica, interessi industriali, speculazioni e tragedie umane che potrebbero costituire fertile materiale di approfondimento storico e narrativo. Il focus dell’autrice sono Zolder e la cité di Lindeman, dove il nonno era immigrato nel 1946 e lei stessa è nata e ha vissuto fino alla decisione di rientrare in Italia nel 1991. La storia dei minatori di Zolder viene fatta cominciare nel 1945, quando sono i prigionieri di guerra tedeschi a estrarre il carbone e l’insediamento è costituito solo dalle loro baracche. Alla fine della guerra, in queste baracche arrivano i rifugiati politici dai paesi dell’Est e l’area si popola di «un miscuglio di nazionalità e lingue diverse, polacchi, ungheresi, slavi, estoni, ucraini, lettoni, russi; tutti convivevano nello stesso quartiere di Lindeman, guadagnandosi da vivere presso la miniera di Zolder» (p. 32).
Nel 1947, in seguito agli accordi tra Italia e Belgio, cominciano ad arrivare i primi italiani e la direzione della miniera avvia la demolizione delle baracche per dare spazio alle nuove abitazioni per i minatori e le loro famiglie. Il nucleo del villaggio giardino di Lindeman viene costruito secondo un modello geometrico tra il 1946 e il 1948 con case tutte uguali disposte lungo diciotto strade. In questa zona, successivamente ampliata, convivono più di 17 nazionalità, con lingue, tradizioni e culture diverse, condividendo le stesse esperienze di vita.
La struttura urbanistica della cité, la casa e il contatto con l’altro, sia autoctono sia immigrato, sono delle costanti nelle memorie dei protagonisti di questo libro. Le donne raccontano che il luogo, all’inizio, era straniante: sembrava un labirinto e i bambini rischiavano di perdersi. Le case, dopo l’impatto traumatico nelle baracche, erano nel complesso comode e sufficientemente grandi. Verso gli anni settanta, quando l’associazione che le possedeva le mise in vendita, vennero acquistate dai minatori, che, in questo modo, confermarono il loro definito radicamento in Belgio.
Un’altra esperienza importante è quella linguistica: all’inizio non ci si capisce nemmeno tra italiani, anche se, in qualche modo, si riesce a comunicare, mentre il flamano è lingua ostica e che non serve nemmeno imparare perché, comunque, ognuno vive all’interno della propria comunità. Le nuove generazioni, invece, non solo crescono bilingui, ma condividono anche con i giovani degli altri gruppi una sorta di pidgin della cité, ben connotato all’esterno. Il ricordo dell’autrice a questo riguardo mostra la possibilità di una convivenza capace di produrre nuove identità plurali.
I più anziani conservano vivo il ricordo del viaggio e dell’arrivo in Belgio. Le informazioni che ci vengono date non sono nuove: l’impatto con il sottosuolo della stazione di Milano, dove uomini, donne e bambini venivano ammassati per i primi controlli, il lungo viaggio fino a Basilea, il controllo dei documenti e il rischio di essere rispediti in Italia, la durezza delle operazioni di smistamento. Tuttavia, impressionano sempre le regole imposte dall’Accordo tra l’Italia e il Belgio, valide anche per i ragazzi di 14 anni, che obbligavano a lavorare in miniera, impegnandosi per almeno 5 anni, se non si voleva essere immediatamente rimpatriati. Nel ricordo del padre di Sonia Salsi, gli italiani non erano assolutamente consapevoli di quanto li aspettava, perché nessuno aveva dato loro adeguate informazioni, sebbene questo fosse previsto dall’art. 5 dell’Accordo. Il graduale miglioramento delle condizioni di vita e la costruzione dell’identità comunitaria attraverso una serie di rituali, dalle feste al viaggio in Italia, sono memorie più recenti.
Il volume di Salsi, nel prendere in considerazione la dimensione individuale solo per leggere in essa quella sociale, si serve del paradigma antropologico. Tuttavia il suo interesse per la riflessione teorica appare limitato, mentre emerge con forza il desiderio di ricostruire, attraverso le memorie familiari, lo spaccato storico e sociale di un’esperienza migratoria che può considerarsi chiusa, allo stesso modo della miniera di Zolder.
Anna Consonni