Quando si vorrà ricostruire la storia degli studi, e degli studiosi, che hanno indotto nella cultura italiana il tema della migrazione sul versante delle discipline umanistiche, apparirà come in più casi lo stimolo all’esplorazione tematica prende forza dalla condizione stessa del ricercatore, coinvolto in termini vari per ragioni professionali nella realtà dell’espatrio. È il caso di Peter Carravetta, che ha raggiunto posizioni di spicco nelle università americane con una gamma ampia di ricerche, da ultimo concentrate sulla stagione postmoderna, nella cui fluidità dinamica la figura del migrante può divenire espressione centrale, aperta alla duttilità innovativa di un complesso periodo di transizione. In tale prospettiva il suo volume offre una significativa cornice a saggi nati su vari stimoli, ma convergenti sulla fisionomia complessa del viaggiatore, rispecchiato nella figura di Hermes, portatore di miti contraddittori e dinamici, capace ancor oggi di favorire una «prospettiva poliedrica» (p. 69) di indagine, evocando una situazione di sospesa disponibilità che si muta in stimolo ad esplorazioni e percorsi innovativi, coerenti col paradosso di una ricerca che si spende attorno a un soggetto all’apparenza di margine, come richiama la densa Prefazione di Remo Bodei, che titola a Le metamorfosi del migrante (pp. 9-14).
Con una logica stringente, l’Introduzione al libro punta a rilevare come l’attenzione a una nuova soggettività, debba attingere a riferimenti ecdotici decisamente innovativi nelle risorse e nelle strategie, precocemente diffusi nei dipartimenti statunitensi che hanno reagito agli imput di ricerca indotti, pur all’interno di una società tutta costruita sulla migrazione, dalla nuova ondata degli illegals aliens, derivandone stimolo all’ «esplorazione della fenomenologia e della metaforologia dell’esperienza del viaggiare che cerca di evitare i metalinguaggi delle discipline scientifiche e umanistiche formalizzate» (p. 19) al fine di consentire la decisiva attribuzione di capacità vocali, e pertanto una piena centralità, a individui altrimenti silenziati.
Infatti se a oggi solo una larga casistica può tentare di definire gli interpreti del Viaggiare (pp. 31-71, saggio concepito per un Dizionario della contemporaneità), con il moderno migrante non le spazialità, e i nuclei concettuali riferiti a partenza e arrivo, ma «lo spazio di mezzo, la cesura, il viaggiare medesimo possono istradare dunque una svolta non solo psicologica, ma ontologica ed esistenziale» (p. 36), a riprova del passaggio da un orizzonte cosmico universale della stagione borghese, a quello tutto mondano e particolare delle attuali civiltà nomadiche. Si insiste giustamente sulla specificità di questi movimenti, ben oltre l’immediatezza cronistica della rappresentazione dei flussi di massa, tentando di individuarne una specificità discorsiva, che spesso travalica l’apparenza di una contingente frammentarietà. Piuttosto essa riflette la condizione di mobilità sospesa che pure consente di appropriarsi di uno strumentario intellettuale basale come la scrittura nella lingua d’approdo, da cui si genera la sconfinata, ancorché discontinua, testualità della migrazione. Affermare che «Buona parte non sa esprimersi e quelli che ci provano tra lo scontro di fenomeni appartenenti a due distinti codici nazionali cercano inevitabilmente, e disperatamente, di fare appello a qualche valore o principio legittimante che soddisfi tutti; per cui sentiamo loro pronunciare delle generalizzazioni, ancora una volta abbarbicandosi a dei proverbi, astratti e rassicuranti, e a un fantasma che appellano identità» (p. 55), è probabile generalizzazione non suffragata da indagini specifiche; e riflette la funzione perturbante prodotta dalla presenza dell’estraneo, non rispondente ai codici dominanti che pone in discussione. Perciò non vale considerarle storie di margine nettamente estranee al concetto corrente di letterario, ponendosi anche in contraddizione con l’invocata necessità di rinnovati «Itinerari interpretativi» (p. 57), dato che «Una semiotica dei loro referenti oggetti e delle loro simbologie rivelerebbe una complessa trama di passaggi e di intersecazioni, di ibridismi e infine di metamorfosi» (p. 60).
Questo anche perché, come suggerisce il titolo del secondo intervento, è un dato acquisito l’inestricabile sequenza che annoda «Migrare, Vivere, Narrare» (pp. 73-115), dove lo sguardo abbraccia un catalogo sconfinato di interpreti della mobilità attuale, tra i quali «evasi, fuggitivi, sfollati, deportati, vagabondi, gipsy, rom, schiavi, pirati, nomadi, avventurieri, conquistatori, pionieri, esuli, profughi, rifugiati politici, espatriati e varie diaspore etniche, i quali hanno tutti in comune una cosa: sono più rilevanti per il paese di destinazione che per quello d’origine» (p. 86). La tentazione tassonomica è arginata dalla convinzione (richiamata nella conclusione del saggio) dell’inanità di griglie sovrapposte alla pluralità sconfinata delle motivazioni delle rotte e delle interpretazioni degli attraversamenti, dai quali si genera quel filo indispensabile alla sopravvivenza costituito dal narrare e dal narrarsi. Risorsa indispensabile per affrontare angoscianti trasformazioni, che rendono tali personaggi portatori di novità di senso e di decifrazione, essa costituisce di fatto per «gente che parla poco, non ha poiché non può avere un lascito culturale storico e documentario» (p. 89), rivendicazione potente della necessità di ascoltare le loro parole, all’apparenza oscure, lontane e silenti. È quanto auspica lo stesso Carravetta nella volontà di mettere in campo «una flessibilità cognitiva […] pronta a riconoscere e in seguito bene o male ad accogliere le differenze e le alterità» (p. 113).
Ciò stimola a un continuo ampliamento delle risorse interpretative, in veloce trasformazione, come dimostra l’ultimo intervento, una preziosa analisi di «Emigrazione, società e storia» ne La Rassegna Settimanale (1878-1881) (pp. 117-176), che pur nell’intatta efficacia dell’esplorazione, evoca la necessità di riferimenti ulteriori rispetto alla triade White-Annales-Foucault, con la messa in campo delle strategie derivate negli studi culturali. Lo dimostra l’accurata ricognizione del periodico fiorentino, ricco di autorevoli collaborazioni di grandi intellettuali e politici del tempo, fonte ineludibile per storicizzare (senza ingenui paralleli storici con le esperienze pur sempre comparabili della nostra età, che generano il lapsus di articoli datati 1979!), le dinamiche storiche e politiche della realtà sociale ed economica italiana dell’Ottocento cadente, percorsa con larga informazione su più versanti, che illuminano pertanto le componenti di quella «psiche pubblica» (p. 132) che s’arrovella intorno al tema contraddittorio dell’emigrazione di massa, portando in luce quell’«uomo intrastorico» (p. 135), interprete delle opportunità e delle immense frustrazioni indotte da una scelta comunque ardita del viaggio direzionato in prima istanza verso le Americhe. Meritano insomma ulteriori sviluppi (che l’autore ripetutamente promette), situazioni come l’evocazione, in un articolo anonimo del settembre 1870 a proposito del disastro sociale delle campagne del settentrione italiano, de La capanna dello zio Tom (p. 137), che genialmente intuisce la condizione di apartheid che gli emigranti incontreranno in capo a un viaggio di speranza, convinto che le discriminazioni in patria finiscano per sboccare in meccanismi di discrimine razziale, a fronte di un mancato governo dei processi di espatrio. Questa singolare posizione, che delinea quella che oggi indichiamo come linea del colore, s’affaccia anche in talune indagini parallele puntate sullo sforzo complesso e laborioso dell’apparato statuale, che sceglie di avviare un incerto progetto coloniale, direzionato sull’esotico mondo africano, e per il quale l’autore della corrispondenza dell’estate 1879 suggerisce un modello intelligente e flessibile, in cui operano (come poi non fu) tracce di rispetto per le diversità delle altrui esistenze: «l’Inghilterra […] ha oltremare sudditi inglesi, ne ha asiatici e africani, d’ogni schiatta e d’ogni colore. Li prende tutti come sono; non impone ad alcune le proprie leggi o la propria lingua, non crede che per forza di ranno o di sapone possa imbiancarsi la pelle del Caffro o del Malese» (p. 170).
Le foto di chiusura, riferite al circuito tra Italia, Stati Uniti e continente africano, connettono una storia non certo conclusa di viaggi e migrazioni variamente direzionati lungo il secolo e mezzo dell’unità italiana.
Fulvio Pezzarossa