Già diversi anni fa Anna Maria Martellone aveva ripetutamente richiamato l’attenzione sulla vasta popolarità di cui la musica lirica godette nelle comunità italiane degli Stati Uniti nei decenni dei flussi di massa. In particolare, aveva segnalato come, soprattutto in quel periodo, la melomania avesse contribuito a stimolare l’orgoglio nazionale degli emigranti e, pertanto, avesse anche concorso all’edificazione del senso di appartenenza etnica degli italoamericani in una terra che, pur essendo generalmente ostile verso i nuovi venuti, era comunque in grado di apprezzare la cultura italiana e le sue affermazioni (si vedano per esempio, «La “rappresentazione” dell’identità italo-americana: teatro e feste nelle Little Italy statunitensi», in S. Bertelli [a cura di], La chioma della vittoria. Scritti sull’identità degli italiani dall’Unità alla seconda Repubblica, Firenze, Ponte alle Grazie, 1997, pp. 377-84).
Queste considerazioni sono ritornate prorompenti nella giornata di studio promossa dall’Associazione Passato e Futuro in occasione del duecentesimo anniversario della nascita di Giuseppe Verdi. Infatti, attraverso un approccio interdisciplinare, il convegno, come evidenziato dalla sua organizzatrice, Maria Teresa Cannizzaro, si è proposto di rievocare il compositore italiano in una prospettiva peculiare, quella del rapporto della sua musica con gli Stati Uniti e le Little Italy. Pertanto, accanto alle comunicazioni di Delfina Licata e René Manenti su alcune caratteristiche generali dell’emigrazione italiana, gli interventi si sono collocati in due ambiti principali. Da un lato, è stata esaminata la ricezione statunitense di Verdi e le sue implicazioni per gli italoamericani, dall’altro, è stato ricostruito il ruolo della musica verdiana quale fattore di promozione della mobilità transatlantica di alcuni dei suoi interpreti.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Joseph Scelsa ha mostrato come l’interesse che le opere di Verdi suscitarono non tanto nelle comunità italoamericane quanto presso l’establishment statunitense, soprattutto a partire dagli anni venti del Novecento, sia da annoverare tra quei successi artistici e culturali italiani che hanno in qualche modo bilanciato gli stereotipi e i pregiudizi di cui gli immigrati furono oggetto sull’altra sponda dell’Atlantico. Scelsa si è diffuso anche sull’importanza della conoscenza delle arie operistiche per l’apprendimento della lingua italiana da parte degli immigranti dialettofoni e, quindi, per il superamento dei quel senso di appartenenza campanilistica con il quale molti di loro erano sbarcati negli Stati Uniti. Umberto Mussi, invece, utilizzando come fonte principale le segnalazioni comparse sul portale We the Italians di cui è l’ideatore, si è soffermato sulle celebrazioni verdiane del 2013, in coincidenza con l’anno della cultura italiana negli Stati Uniti, evidenziandone la capillare diffusione in America e il conseguente permanere della vitalità della musica lirica quale veicolo privilegiato di identità per gli italoamericani, almeno a un livello che il sociologo Herbert J. Gans definirebbe di «etnia simbolica».
Per il secondo aspetto, Tito Schipa Jr. e Mariastella Margozzi hanno ricostruito le esperienze statunitensi di alcuni interpreti verdiani. Il primo ha rievocato la figura del padre, Raffaello Attilio Amedeo Schipa, detto Tito, celebre tenore di origine leccese che sbarcò negli Stati Uniti nel 1919 per cantare con la Chicago Opera Company fino al 1932 e per il Metropolitan di New York nei successivi tre anni, rivaleggiando con Enrico Caruso, prima di fare ritorno in Italia. La seconda ha tracciato il ritratto e il percorso artistico americano di alcune soprano italiane che – a partire da Ostava Torriani, la protagonista della prima messa in scena statunitense dell’Aida all’Academy of Music di New York nel 1873 – soggiornarono per periodi prolungati negli Stati Uniti per calcare le scene nelle rappresentazioni delle opere verdiane. Talune come, Adelina Patti e Alice Zeppilli, divennero delle vere e proprie star, capaci di mietere successi su entrambe le coste, da New York a San Francisco. Per molte, come nel caso della Zeppilli, che, dopo i trionfi degli anni 1906-14 e del primo dopoguerra, abbandonò le scene nel 1926, la fine della carriera teatrale segnò l’inizio di un’altrettanto fortunata attività e un prolungamento della vita negli Stati Uniti come apprezzate insegnanti di canto.
Infine, l’intervento di Raffaele Mellace si è mosso su due piani. Il primo ha affrontato la figura di Verdi imprenditore filantropo, che si cimentò in attività sostanzialmente improduttive e comunque non redditizie a Sant’Agata di Villanova sull’Arda soltanto per dare lavoro ai conterranei e prevenirne l’esodo, con il risultato che, come scrisse in una lettera all’amico Oprandino Arrivabene nel 1881, «nel mio villaggio la gente non emigra». Il secondo ha delineato gli allestimenti teatrali verdiani che portarono negli Stati Uniti alcuni esecutori come il direttore d’orchestra Emanuele Muzio, l’unico allievo del compositore, che vi risiedette quasi stabilmente dal 1858 al 1866, fatta eccezione per due stagioni all’Avana.
La mobilità degli artisti italiani nella sfera musicale – compresa la dimensione correlata degli impresari teatrali, come nel caso di Giulio Gatti Casazza, l’ex sovrintendente della Scala di Milano trasferitosi a New York dal 1908 al 1935 per dirigere il Metropolitan (su cui si veda Alberto Triola, Giulio Gatti Casazza. Una vita per l’opera. Dalla Scala al Metropolitan, il primo manager dell’opera, Varese, Zecchini, 2013), costituisce un terreno affascinante ma poco praticato di ricerca al quale la giornata di studio per il bicentenario verdiano, al di là della sua motivazione occasionale, ha offerto utili spunti di indagine e di dibattito.
Stefano Luconi