In Argentina l’uso degli archivi di fabbrica nella ricerca socio-economica risale a una ventina d’anni fa. Tra i lavori pioneristici vanno segnalati quelli di María Inés Barbero e Susana Felder sulla Pirelli argentina e quelli di Mirta Zaida Lobato sui macelli Swift e Armour della località di Berisso. Nello stesso periodo, in particolare nel 1991, Mariela Ceva pubblicò il suo primo saggio sulla mobilità socio-spaziale nel periodo tra le due guerre di un gruppo di lavoratori italiani, spagnoli e polacchi della fabbrica tessile Algodonera Flandria. Nel corso degli ultimi due decenni, la studiosa argentina ha dedicato al fenomeno immigratorio, alla storia delle imprese e al mondo del lavoro del suo paese una numerosa serie di saggi nonché la sua tesi di dottorato, della quale questo libro è una sintesi.
Il volume di Ceva ricostruisce il ruolo dei lavoratori e della famiglia in un contesto di industrializzazione recente, come quello dell’Argentina otto-novecentesca, caratterizzato da forti ondate migratorie. La novità del saggio risiede nell’intreccio e nell’interconnessione tra approcci che di solito rimangono separati: storia del lavoro, storia dell’impresa e storia dell’emigrazione. Si vuole, osserva l’autrice, ricostruire una «storia globale» (una historia integral).
La prima parte del libro illustra il processo di istituzione delle due aziende oggetto della ricerca, il loro sviluppo economico, l’assetto organizzativo e le principali caratteristiche della gestione aziendale. La Algodonera Flandria fu creata nel 1924. Faceva inizialmente capo al gruppo belga Établissements Steverlynck, di proprietà della famiglia omonima, ma già nel 1929, un anno dopo il trasferimento della fabbrica nella località di Jáuregui (nella provincia di Buenos Aires), la «filiale» argentina assunse piena autonomia dalla casa madre. La Fábrica Argentina de Alpargatas, dedita alla produzione di scarpe di tela e corda (l’arpargata appunto), fu fondata nel 1884 per iniziativa di imprenditori inglesi e argentini ed ebbe sede nel quartiere di Barracas, nella città di Buenos Aires. Divenne quasi da subito una delle principali aziende del paese latinoamericano impiegando negli anni trenta oltre 7.500 operai e circa 12.000 nel 1947. Secondo Ceva, le modalità d’insediamento geografico delle due aziende determinarono il rapporto tra queste e la manodopera impiegata, le caratteristiche del vivere quotidiano dei lavoratori dentro e fuori della fabbrica, l’atteggiamento della classe operaia di fronte all’avvento del peronismo e della sindacalizzazione promosso dal nuovo attore politico. Interessante è il caso dell’Algodonera Flandria dove l’insediamento dell’impresa in un’area rurale distante circa un’ottantina di chilometri dalla città di Buenos Aires fu il risultato di un progetto mirato: il presidente e principale animatore dell’azienda tessile Julio Steverlynck, seguendo la dottrina sociale della Chiesa e in un ottica paternalista, cercò di costruire una comunità quasi autosufficiente, nella quale potessero prevalere rapporti di collaborazione tra datori di lavoro e operai, evitando che tra capitale e lavoro insorgessero situazioni di contrasto proprie del processo di industrializzazione. L’adozione di una serie di benefici sociali (per esempio, l’indennità per i figli) e diritti lavorativi (come la giornata lavorativa di otto ore), prima che questi fossero garantiti dallo stato, nonché la concessione di prestazioni educative, sanitarie e ricreative da parte dell’azienda, ridimensionò infatti le rivendicazioni più veementi del sindacalismo peronista. Un risultato analogo fu raggiunto anche nell’ambito della Fábrica Argentina de Alpargatas, ma in questo caso fu l’esito di una politica di industrial welfare.
La seconda e la terza parte del libro ricostruiscono il ruolo delle reti familiari e paesane nell’impresa, una tematica poco studiata in Argentina. L’analisi di queste reti permette all’autrice di individuare nell’Algodonera Flandria due gruppi di lavoratori italiani: quello originario di San Demetrio Corone e di San Cosme Albanese, calabresi di cultura arbëreshë giunti a Luján tra Ottocento e Novecento, che entrarono nello stabilimento tessile nel periodo tra le due guerre; e quello di Campoformido, nella provincia di Udine, ingaggiato dall’impresa di Jáuregui nel secondo dopoguerra. L’efficacia e l’importanza di queste reti familiari e paesane vengono descritte soprattutto alla luce delle modalità di reclutamento dei lavoratori. Nel caso di Algodonera Flandria, infatti, Ceva rileva il ruolo determinante delle reti familiari nell’ingresso degli operai immigrati che, nel caso dei friulani, si arricchì, nella fase iniziale, della mediazione di un compaesano seminarista giunto a Buenos Aires nel 1948. L’impresa tessile provvide non solo al rilascio dei contratti di lavoro, ma anche al pagamento anticipato dei biglietti di nave e all’erogazione di crediti per la sistemazione abitativa delle famiglie raccomandate da don Gastone Romanello. Le reti familiari e paesane, inoltre, favorirono e sostennero le politiche di collaborazione tra lavoratori e padroni e tra gli stessi operai, legati da meccanismi di forte lealtà e solidarietà. Il processo di industrializzazione e di proletarizzazione non implicò quindi una rottura sociale, né un indebolimento dei rapporti familiari. La forza delle reti spiegherebbe anche la più diffusa mobilità ascendente dei lavoratori italiani e dei loro figli all’interno di Algodonera Flandria, che l’autrice attribuisce all’antica presenza del gruppo all’interno della fabbrica, allo stereotipo positivo di cui godette in generale la manodopera peninsulare, alla partecipazioni come operai di più membri di uno stesso nucleo familiare e all’intreccio di relazioni tra le diverse famiglie dentro (ma anche fuori) della fabbrica. Il caso della Fábrica Argentina de Alpargatas è diverso perché le reti sociali evidenziano rapporti orizzontali e familiari, ma anche verticali: i legami che consentivano l’arruolamento erano meno forti e la diversa provenienza etnica di operai e intermediari (in questo caso si trattava dei caposquadra) non spiega l’ingresso nella fabbrica.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato alla famiglia di Pietro e Vittoria, piemontesi di Biella, e ai loro sei figli, quattro dei quali emigranti, tra 1913 e 1950, in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, Africa e Argentina. Giovanni, uno dei fratelli, giunse oltreoceano nel 1924, chiamato da un compaesano. Cinque anni dopo, Giovanni e l’amico Eugenio abbandonarono la comunità biellese di Valentín Alsina (denominato «il quartiere delle venti regioni», perché vi abitavano italiani provenienti da ogni parte) e assieme ad altri compaesani si trasferirono a Jáuregui per impiegarsi presso Algodonera Flandria. La rete dei biellesi raggiunse una posizione di vantaggio all’interno dell’azienda. Ma è sulla famiglia di Pietro e Vittoria che Ceva incentra l’attenzione, per giungere ad alcune conclusioni che sarebbero comuni a molte altre famiglie migranti: la permanenza della mobilità geografica attraversa più generazioni della famiglia biellese; lo stretto legame tra mobilità sociale e mobilità geografica, caratterizzato dalla molteplicità di percorsi e destinazioni; la maggiore scelta lavorativa di coloro che emigrano potendo beneficiare, in contesti diversi, di possibilità e alternative lavorative variegate; l’importanza dei legami familiari e paesani nell’esperienza migratoria, nell’ingresso nel mercato del lavoro e nel mantenimento del patrimonio culturale di appartenenza. I percorsi migratori, conclude l’autrice, provano una realtà molto più dinamica di quella cui siamo abituati a intravvedere e mostrano la varietà e l’eterogeneità delle alternative di cui dispone il potenziale migrante.
Javier P. Grossutti