Il cinquantenario degli accordi bilaterali sulla migrazione di manodopera italiana tra Italia e Germania nel 2005 ha dato un forte impulso alla ricerca sugli italiani nella Repubblica Federale Tedesca e ha stimolato anche un discreto eco mediatico, in particolare «svelando» residue, e per certi versi inaspettate, difficoltà d’integrazione che si sono manifestate – e si manifestano ancora oggi – soprattutto negli scarsi risultati scolastici (i più bassi tra tutti i gruppi etnici presenti in Germania) delle seconde e terze generazioni di origine italiane.
In seguito si è assistito a una serie di pubblicazioni e ricerche nei due paesi: storiografiche, con il fine di analizzare fonti primarie ancora inesplorate relative al primo periodo migratorio (citiamo tra tutti i lavori di Elia Morandi, Grazia Prontera e dello stesso Roberto Sala); socio-pedagogiche, allo scopo di comprendere l’origine della mancata integrazione scolastica di una componente etnica a prima vista ben inserita nel tessuto sociale tedesco (si veda a questo proposito il testo di Edith Pichler recensito nel n. 42 di Altreitalie).
Il testo curato da Oliver Janz e Roberto Sala, frutto di un convegno tenutosi a Berlino nel maggio 2010, riparte dal rapporto dicotomico che sembra caratterizzare la storia e il presente della componente italiana (o di origini italiane) e la sua integrazione nella Repubblica Federale. Come svela già il sottotitolo «l’immagine dei migranti italiani in Germania», il volume si interroga sul mutamento avvenuto nella percezione che i tedeschi hanno degli italiani, o meglio su come gli iniziali stereotipi negativi e xenofobi caratterizzanti il primo periodo migratorio si siano via via trasformati in stereotipi positivi legati a una idealizzazione dell’Italia: la presunta «dolce vita» caratterizzata da cibo e vino di qualità, dalla raffinatezza nel vestire e dalla bellezza di paesaggi e città della penisola.
Si tratta, come sottolineano Roberto Sala e Patrick Wöhrle nel saggio d’apertura, di immagini stereotipate saldamente allacciate alla percezione che la popolazione tedesca ha del nostro paese e in quanto tali contribuiscono a impedire una completa integrazione e a nascondere difficoltà e insuccessi come nel caso scolastico descritto sopra.
Proprio all’immagine che i tedeschi hanno dell’Italia è dedicata la prima parte della collettanea che si apre con il contributo storiografico di Christof Dipper in cui si mostra come essa rappresenti un «costrutto» culturale. L’autore, ripercorrendo due secoli di storia tra i due paesi, rivela come nell’immaginario tedesco si alternino ammirazione e disprezzo verso il belpaese. Dalla teoria del «parallelismo» nella storia dei due paesi (si veda l’ammirazione per il risorgimento o per il modello fascista) alla rappresentazione del popolo italiano come traditore, l’Italia si trasforma a seconda da modello positivo di superiorità a modello di inferiorità.
Patrick Bernhard, d’altro canto, nel saggio successivo, sottolinea come l’«italianizzazione» (la cosiddetta «Italianisierung») delle abitudini alimentari dei tedeschi abbia ben poco a che vedere con l’arrivo dei migranti, ma sia esplicitamente collegata a un mutamento dei consumi della società tedesca appropriatasi di stili di vita mediterranei derivanti dalla percezione della penisola in occasione delle vacanze «italiane».
Birgit Schönau, corrispondente del settimanale Die Zeit a Roma, analizza, invece, i cliché negativi che i tedeschi (così come altre popolazioni nordeuropee) hanno dell’Italia soffermandosi in particolare su concetti accattivanti ripetutamente utilizzati dai media d’oltralpe tra cui spicca il termine calcistico del «catenaccio»: sinonimo stereotipato di una certa «vigliaccheria» caratterizzante la popolazione italiana.
La parte centrale del volume (l’unica che si concentra effettivamente sull’immagine dei migranti italiani) si apre con un prezioso contributo di Olga Sparschuh che rompe lo schema dualistico tra migrazioni interne ed esterne. L’autrice dimostra come non vi siano sostanziali differenze tra Torino e le metropoli tedesche nella percezione da parte della popolazione autoctona dei migranti, perlopiù meridionali, del secondo dopoguerra. In entrambi i casi, gli immigrati sono stati esposti ad analoghi stereotipi legati alla mancata conoscenza linguistica, alla loro presunta criminalità e sporcizia, a differenze di costume, da cui derivarono difficoltà nella ricerca di abitazioni, nella frequentazione di locali pubblici e in generale nei rapporti con la popolazione della città d’accoglienza. Atteggiamenti xenofobi che, a partire dagli anni settanta, in Germania si sono via via trasferiti ad altre componenti etniche, in particolare quella turca, come rileva Bettina Severin Barboutie nel saggio successivo.
Con il contributo di Sonja Haug l’attenzione si sposta sulla contemporaneità e all’analisi del livello d’integrazione a partire dal ventunesimo secolo. L’autrice fa il punto della situazione odierna utilizzando classici indicatori sociologici e rileva come tra gli italiani i tassi di matrimoni misti, di amicizie e frequentazioni «interetniche» siano tra i più alti tra le nazionalità straniere immigrate. Dall’altra parte permane, nonostante il ripetuto allarme, la difficoltà per i giovani italiani di conseguire il diploma e accedere agli studi superiori, a testimonianza di un basso tasso di mobilità sociale.
Maren Mörning si sofferma sulle esperienze imprenditoriali nel settore enogastronomico analizzando i due casi più emblematici rappresentati dalla gelateria italiana (la Eisdiele) e da ristoranti/pizzerie. Lo studioso sottolinea come entrambe le esperienze siano scarsamente collegate con l’esperienza dei «Gastarbeiter» (solamente una minoranza fece il passaggio dall’industria alla gastronomia). I gelatai erano i rappresentanti di una precedente forma di migrazione stagionale, mentre nel caso degli imprenditori gastronomici si trattava di professionisti giunti a partire dalla fine degli anni settanta con un preciso progetto di investimento.
Fu proprio davanti a un ristorante italiano che nel 2007 avvenne la strage di Duisburg che spinse parte dell’opinione pubblica e anche autorevoli testate giornalistiche tedesche a citare un legame tra migrazione italiana e mafia. Il saggio di Rocco Sciarrone e Luca Storti rigetta fortemente il collegamento «demografico» sottolineando, tra l’altro, come la penetrazione mafiosa tocchi anche paesi con una presenza italiana trascurabile come la Costa del Sol in Spagna o i territori del ex-Repubblica Democratica Tedesca.
Il saggio successivo di Hedwig Richter offre un innovativo approccio alla storia degli italiani a Wolfsburg. La ricercatrice, pur non negando episodi di xenofobia nell’esperienza generale, condanna parte della storiografia sugli italiani alla Volkswagen colpevole, a suo avviso, di essersi fatta influenzare dal cosiddetto «Opfer-Mythos» (il «mito della vittima») secondo cui in seguito alla Seconda guerra mondiale l’opinione pubblica tedesca tenderebbe a colpevolizzarsi nel tentativo di espiare i propri crimini. Ciò comporterebbe una distorsione delle reali condizioni di vita dei migranti e del fenomeno della migrazione di ritorno.
Nella terza parte del volume, intitolata «l’immagine di sé degli italiani», Roberto Sala, sottolineando comunque la forte e permanente identità regionale e localistica, pone l’accento sulla «nazionalizzazione all’estero» intercorsa tra i migranti italiani. La creazione di una «comunità di solidarietà nazionale» fu stimolata, in parte, da forme di associazionismo (le Acli, le missioni italiane) e da organi di stampa etnica (il Corriere d’Italia, Radio Colonia), oltre a essere una conseguenza della discriminazione da parte della popolazione tedesca.
L’intervento di Rosaria Chirico rileva proprio le difficoltà nella ricerca di un’identità di riferimento trasferitesi nel contempo dalle prime alle seconde generazioni. Attraverso un mutamento di prospettiva (l’autrice è figlia di Gast-arbeiter), Chirico sottolinea anche il passaggio di consegna del «mito del ritorno» dai genitori ai figli nati in Germania.
Sonia Galster si sofferma nuovamente sull’ethnic business dei commercianti e imprenditori italiani ai giorni nostri e sull’utilizzo che essi fanno dell’immagine che i tedeschi hanno del belpaese. Immagine sfruttata in maniera strategica per incrementare il loro successo economico.
Nel saggio di chiusura Edith Pichler presenta, attraverso l’utilizzo di statistiche aggiornate e interviste qualitative, le nuove forme di migrazioni italiane, riguardanti in particolare la città di Berlino. Le interviste rilevano come vi sia una tendenza verso forme di identificazione sovranazionale, più precisamente europea.
In conclusione, nonostante i contributi elencati spazino tra le più svariate discipline, il volume mantiene una propria coerenza interna: tutti i saggi riflettono l’ambivalenza nei rapporti tra la società tedesca e la minoranza di origine italiana, così come la distorsione nell’immagine che la popolazione tedesca ha dell’Italia e degli italiani. Oltre a fare il punto della situazione della ricerca odierna, Dolce Vita. Das Bild der italienischen Migranten in Deutschland offre numerosi spunti innovativi per ulteriori ricerche e approfondimenti nel tentativo di comprendere più a fondo la complessità dei processi di integrazione degli italiani nella Repubblica federale.
Alvise del Pra’